LA COMMEDIA DELL’ARTE, GIULIO ALVIGINI
Bene. Ora che ho la vostra attenzione, è mia premura avvisarvi che qui non troverete nulla di quanto promesso nel titolo. In primis, perché il numero di ragioni valide da obbligarvi a rivedere la vostra brama di permanenza nella cornice sociale dell’arte potrebbe superare tranquillamente anche la cinquantina di voci. In seconda istanza, perché già dovreste conoscerle bene. Infine, perché non avrei alcun diritto di essere io a elencarvele, vista la stessa dose di immobilismo e tossico desiderio di fare parte della nicchia che condivido con voi.
Motivo per cui, aldilà del clickbait facile, ho deciso di dedicare questa terza puntata della mia ritardataria rubrica [eh sì, febbraio è balzato causa pigrizia del sottoscritto] alla raccolta di una serie di appunti che riassumono quattro eventi particolarmente interessanti a cui abbiamo assistito in queste settimane e che meritano una brevissima e lapidaria revisione.
Li chiamerò: “Appunti per una guerrigl…” anzi, “per un bel dissing” [meglio, più attuale].
- ArteFatti
Il podcast di Francesco Bonami e Costantino della Gherardesca, o detto altrimenti: il podcast di cui non avevamo davvero bisogno ma che probabilmente ci meritiamo. Bonami è un buon simulacro di sé stesso, un canovaccio con gambe e barba bianca. Ricicla le più celebri battute dai suoi migliori libri, ma funziona. È pur sempre il nostro Checco Bonami. Costantino scopiazza il simulacro Bonami, è perciò una copia di una copia. Super tradotto: “bello” per chi non ha mai letto un libro di Bonami; “geniale” per chi dice di aver letto i libri di Bonami ma ha letto solo ‘Lo potevo fare anch’io’; “noia” per tutti gli altri.
2. ClubHouse
Nuovo social, nuovi entusiasmi per la piattaforma “del futuro”, “che premia i contenuti reali” e “che abbatte le barriere”. Insomma, l’eterno ritorno dell’identica promessa disattesa della caduta dell’élite (quale élite poi? boh). Ma il problema non è ClubHouse in sé, che regala anche dei momenti pregevoli di ascolto e scambio, soprattutto per quanto riguarda le room legate a hi-tech, innovazione e giornalismo. Le perplessità sono legate alle room della cultura e dell’arte (in Italia); vacue e ripetitive, si pongono l’obbiettivo di risolvere i problemi sistemici generalizzati e prevedibili senza mai dire nulla. Stanze dell’onanismo cool-turale [grande sbadiglio].
3. Crypto Art
In gergo pseudo-accademico, si utilizza il termine “supporto” per identificare l’ausilio tecnologico su cui è stata realizzata un’opera (insomma, il contenitore). Ora, prendete il dinamico duo, Batman & Robin (contenuto e supporto-aiutante) e ribaltate il punto di vista, la gerarchia: Robin e Batman, in-significante e significato, il medium è il messaggio. Voilà la crypto art.
Un giorno smetteremo di identificare l’arte del nostro tempo con l’ultima intuizione tecnica o con la più recente conquista del mercato dell’arte. Forse.
4. Caravaggio con l’influenza
“Ci son cascato di nuovo” canta Achille Lauro in Me ne frego [eddai, è tempo di Festival, concedetemelo]. Puntualmente, anche noi caschiamo nel solito carosello di critiche e applausi alle campagne di influencer marketing applicate alla cultura.
Esistono due estremismi: l’inopportuno entusiasmo per la presunta innovazione di un gesto rivoluzionario del museo da un lato; dall’altro la sconveniente e inutilmente permalosa reazione reazionaria di chi millanta l’assunto di inclusività dell’istituzione culturale ma che sotto sotto “anche no, perché Caravaggio e Botticelli non-si-toccano!1!1!”. “Il museo è per tutti, ma i tutti li decido io”. “Teoria 10, pratica 0”.
La verità, forse, come spesso accade si trova nel mezzo, ma questa volta un po’ sopra le righe: nessuna cieca e incondizionata farsa di applausi per l’operazione, ma un bel “finalmente, era ora, ci siamo svegliati!”.
Nessuna critica gratuita e rancorosa, solo un bel “avanti così, senza banalizzare”.