SU UN’ALTALENA

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LARA ILARIA BRACONI X FEDERICO PALUMBO

Con Lara Braconi ci siamo incrociati qualche mese fa a Torino (lei è di Milano). Un incontro fuggevole, breve, atto a creare un primo contatto umano. Attitudinale più che conoscitivo. Il desiderio espresso dall’artista era quello di dare movimento alle sue opere, non intaccando la visione con le parole. Per ovvi motivi pandemici realizzare un ‘video’ sul suo lavoro è diventato impossibile (per il momento). È nata però una discussione teorica-personale in merito alla pittura e su tutto ciò che ruota intorno a essa.  

Non mi dilungherò molto perché la chiacchierata che segue è assai densa di argomenti. Mi basti dire che su alcune cose ci siamo trovati in sintonia. Altre, invece, sono nate da una mia lettura dell’opera non del tutto giusta: soprattutto in quel caso, la risposta che mi è stata data ha rappresentato un fulmine a ciel sereno. Il bello della discussione critica insomma

Concludo con una citazione di un artista stilisticamente molto diverso e lontano da Braconi, Domenico Gnoli, ma a mio parere utile per ‘introdurvi’ a ciò che leggerete: «mi sento finalmente liberato da tanti vincoli e da tanti pregiudizi. Dipingo come mi pare senza più preoccuparmi della cultura del secolo e delle mie responsabilità verso di essa e allo stesso modo intendo vivere: libero e fedele solo a quel tanto o poco di vero che mi sento adesso» .1 

Attorno agli anelli di Saturno. Amore Lento, Presenti Scomparsi. Olio, pigmenti, gessi su juta. 200 x 170 x 3,5 cm, 2020 - courtesy of the artist
Attorno agli anelli di Saturno. Amore Lento, Presenti Scomparsi. Olio, pigmenti, gessi su juta. 200 x 170 x 3,5 cm, 2020 – courtesy of the artist

Federico Palumbo: Gino De Dominicis sosteneva che la pittura, la scultura e l’architettura fossero tecniche ‘originarie’, da non intendere – banalmente – come tecniche ‘tradizionali’. Essendo appunto originarie, sosteneva che fossero eterne e, ancora, date le loro peculiarità fisiologiche – mutismo, immobilità – fossero perfette per simboleggiare l’immortalità (questa infatti secondo l’artista era raggiungibile solo grazie all’immobilità). Questo pensiero era già in parte emerso da Giorgio de Chirico, Pictor Optimus che voleva immergersi, grazie alla pittura, direttamente all’origine delle ‘cose’. Come ti poni rispetto a questi pensieri?  

Lara Ilaria Braconi: Premetto che tutte le mie parole provengono dalla pittura e alla pittura tornano. Come se fossimo tutti su un’altalena e ciascuno dalla propria altalena potesse riferire ciò che il suo strumento gli chiarisce. Io sono su un’altalena e parlo perché la pittura mi parla. 

Penso a Sartre e alla condizione umana di cui si fa portavoce: un arrovellarsi continuo, che cerca di divenire permanente ma che sfugge a questa immobilità proprio per la sua natura di pensiero, che lo rende cosciente della sua nullità e della sua propria incapacità. D’altro canto, il nostro corpo ci fa tendere a uno stato di cose permanenti, proprio perché esso è parte delle cose e del  mondo. Urliamo il dolore della ferita tra il nostro corpo, parte di uno stato di cose a sé stanti, cicli biologici in un universo in continua espansione, e il nostro pensiero, che è libero e vuole  conoscere e scoprire, che ci rompe il capo.   

Cito le conclusioni da “L’essere e il nulla” di Sartre: “Una libertà che si vuole libertà è infatti un essere-che-non-è-ciò-che-è e che-è-ciò-che-non-è, che sceglie, come ideale d’essere, l’essere ciò-che-non-è e il non-essere-ciò-che-è. Sceglie dunque di non riprendersi, ma di fuggirsi, non di coincidere con sé, ma di essere sempre a distanza da sé. Cosa bisogna intendere, con questo essere che vuole tenersi a bada e a distanza da sé stesso? Si tratta di malafede o di un altro atteggiamento fondamentale? Si può vivere questo nuovo aspetto dell’essere? In particolare, la libertà, prendendo sé stessa per fine, sfuggirà ad ogni situazione? Oppure, invece, resterà situata?”  

L’origine di cui Gino e Giorgio parlano, penso si situi proprio all’inizio della nostra storia umana. Da quando ci siamo ritrovati pensanti abbiamo iniziato a lasciare le nostre tracce, le nostre impronte rispetto al mondo che ci circondava e alla comunità di cui facevamo parte. Per non citare sempre e solo le grotte di Lascaux, penso alle zanne di tricheco su cui gli Eschimesi incidevano le scene della pesca, figurine di profilo riempite al tratteggio o con la tinta nera. Stralci di vita che diventano memoria continua, che fanno luce su chi siamo stati e da dove veniamo, sulle domande che ci ponevamo rispetto alla nostra esistenza.   

Trovo buffo parlare di immortalità, nonostante il bacino dell’arte miri a questa sembianza sempreverde. Possiamo tendere all’immortalità, attraverso le immagini che siamo condotti a ricreare attraverso i nostri strumenti, ma, come la nostra natura umana desidera la permanenza senza ottenerla, siamo costretti a fare i conti con il fatto che non la raggiungeremo mai. L’immortalità delle opere ha una data di scadenza: la morte del Sole. Per questo è una condizione che non esiste, quella dell’immortalità, se non nei nostri pensieri. Tendiamo ancora una volta ad un surplus che non possiamo colmare, perché facciamo parte di un corpo naturale, che è la nostra casa. Viviamo un paradosso continuo. Che sia proprio in questo stato paradossale che l’arte si mostra?   

F.P.: L’immobilità è poi la sospensione temporale. Il tempo viene congelato in un unico istante, preciso e immutabile. La progressione temporale e il suo scorrimento portano al passare dei giorni, dei mesi, degli anni… facendo emergere lo spettro della morte. Potremmo dunque dire che il tempo è fratello della morte. La pittura sorella dell’immobilità. Quali parenti ha la tua pittura e che cos’è per te il tempo?  

L.I.B.: Il tempo nel mio lavoro è la mannaia tenuta in mano dalla verità. Mi affido al tempo per sapere fin dove arrivare, per comprendere quando saltare e quando fermarmi. Parlo coi morti, che hanno sempre molto da dire, forse perché il tempo ha messo in fila i loro pensieri e le loro opere. Qui sta la schiera delle mie sorelle e dei miei fratelli, di coloro che hanno cercato di porre senso e domande a questa tribolazione esistenziale. Come diceva Willem de Kooning “il progresso in arte non esiste”.   

Alla morte penso sempre, tutti i giorni, ma suppongo sia comune, dato che appena nasciamo possiamo morire. 

F.P.: Spesso si è portati a pensare che determinati medium (in particolare: performance, video, installazioni) siano in grado di esprimere meglio un atteggiamento ‘politico’. L’ultima volta che ci siamo sentiti hai evidenziato acutamente proprio questo aspetto, sostenendo che la pittura può contenere al suo interno l’atto politico. Insomma, hai fatto emergere come l’estetica o in generale l’iconicità possa veicolare una determinata visione politica della realtà. Come può l’arte (e in particolare la pittura) rapportarsi a questi regimi stilistici?  

L.I.B.: “Lo stile è un inganno. La forza reazionaria del potere consiste precisamente nella volontà di perpetuare uno stile, assieme a tutto il resto. La volontà di creare uno stile è un modo per giustificare la propria angoscia”. Ti rispondo con le parole di Willem ancora una volta, per la  volontà di negare l’esistenza di un regime stilistico. Io sento l’urgenza di affermare che *la pittura non sta dalla parte di chi odia e che *l’immagine di una pittura non è pittura. In queste due affermazioni sta tutta la mia volontà politica, netta e radicata. Non si può, con la coscienza dell’oggi, credere che la schematizzazione del pensiero possa portare ad uno stato di cose migliore. Nell’eterogeneità, nella convivenza tra i dissimili, nel miscuglio, nelle esperienze dirette, negli incontri, possiamo trovare strade comuni percorribili, possibilità. L’odio può essere estirpato dal pianeta attraverso la fluidificazione del dubbio, l’arma più potente che abbiamo, la domanda.   

Per me la pittura è una domanda aperta sulle cose e sul mondo. Chiedo alla pittura di farmi vedere, di mostrarmi quella permanenza di cui parlavo prima. In questo senso è un costante tentativo fallimentare.  

In un mondo che cambia. Amore Lento, Presenti Scomparsi. Olio, pigmenti, rafia, creta su juta. H 200 cm x W 170 cm x D 3,5 cm. Milano (2020) – courtesy of the artist

F.P.: Mi è rimasta impressa una tua frase: “La pittura non esiste”. Come si può manifestare una tecnica che, secondo te, non esiste? Qual è il processo che compi per far sì che questa emerga ma, allo stesso tempo, continui a non esistere? Presumo – ma forse mi sbaglio – che la pittura sia soggetta a un’esistenza differente dalla nostra (frutto anche dei diversi tempi a cui ciascuno è soggetto) e quindi, in questo senso, le venga negata l’esistenza. 

L.I.B.: La pittura non è una tecnica. O meglio, è un’insieme di cose, che comprende anche la tecnica. La pittura è un modo di vivere, di essere, di pensare alle cose e al mondo, di dialogare con gli altri. La pittura non esiste finché non le diamo modo di esistere. Non esiste fino a quando noi decidiamo di interrogarla. Appena iniziamo a parlarle lei si palesa, prende forma, sentiamo l’eco di tutti coloro che prima di noi le hanno domandato. Allora la pittura si mostra e comincia ad esistere. Paradossale, come Dio. C’è chi crede in Dio e chi crede nella Pittura.   

F.P.: I vari strati che compongono i tuoi dipinti offrono una materialità narrativa. I titoli, inoltre, fanno emergere una sorta di narrazione, una storia-racconto dal retrogusto mitologico. Quali sono – e se ce ne sono – le fonti da cui attingi e le tematiche che più influenzano la tua produzione? Siamo  lontani – per fortuna, aggiungerei – dal ‘Senza titolo’ di matrice concettuale.  

L.I.B.: Il mio intento non è narrativo. La serie da cui sono attraversata al momento ha il titolo di “Amore Lento, Presenti Scomparsi”. Amore Lento perché mi sembra che si possa conoscere solamente attraverso l’amore e che la conoscenza possa avvenire soltanto tramite processi di lenta sedimentazione. Ci mettiamo una vita a conoscere noi stessi e gli altri sono dei mondi che ci appaiono irraggiungibili il più delle volte. Presenti Scomparsi perché mi chiedo dove siamo, in quanto esseri umani, dove ci collochiamo, se viviamo nel presente, oppure se esso sia una dimensione che non possiamo più sperimentare, se non attraverso tutti quei tempi di scarto che ci accomunano. Mi chiedo se è possibile raggiungere degli spazi di quiete attraverso la densità così effimera della nostra esistenza. Ogni quadro è un tentativo di rivelare uno spazio denso e quieto, leggero e organico, ululante e silenzioso. Per questo motivo i quadri hanno dei nomi, li chiamo alla fine, quando la pittura, ad un certo grado e in un certo tempo, mi si mostra. Li chiamo con le parole che conosco, con tutto quello a cui mi interesso, che vedo, che vivo, che respiro e a cui aspiro.   

F.P.: Pensi che nel 2020 la pittura abbia ancora senso? O meglio, abbia mai avuto senso? Mi raccontavi di come, all’interno del mondo contemporaneo, sia oggi impossibile raggruppare artisti e opere all’interno di ‘filoni’ stilistici e tematici. Questo un po’, presumo, a causa di quell’atteggiamento tipico della nostra società consumistica (e consumabile) definibile tramite quel ‘va bene tutto’ al quale ogni giorno siamo testimoni oculari.  

L.I.B.: Mi sembra che non possano più esistere le avanguardie storiche. Viviamo in un altro tempo, abbiamo internet. Ci siamo noi, ciascuno di noi è un mondo che si specchia in altri mondi e che proviene e fa parte del mondo naturale.   

La pittura è l’unico senso possibile per il mio mondo. La pittura è la mia regola.   

F.P.: È importante l’isolamento, la solitudine, il confronto con se stessi per produrre una buona opera? Insomma, come lo vivi il periodo che stiamo vivendo noi oggi e come se la passano i tuoi lavori, anch’essi costretti all’“isolamento” all’interno del tuo studio?  

L.I.B.: Questo isolamento forzato che stiamo vivendo mi getta in uno stato di ansia per quanto riguarda la salute dei miei cari. La scomparsa di persone che mi nutrono mi provocherebbe infinito dolore. Gli altri sono un dono inestimabile. Per il resto, lo stato di solitudine è ciò a cui porta la pittura. Anche qui si affaccia il paradosso, perché esiste la solitudine nel lavoro e la  necessità di aprire lo stesso lavoro al mondo. La pittura senza lo sguardo degli altri ha il rischio di diventare diaristica, autoreferenziale e retorica.   

La pittura chiede la propria vita e vuole tutto da chi la interroga costantemente. Al contempo cede empatia, vigilanza, radicalità.  

F.P.: Qual è la tua più grande idea apparentemente irrealizzabile?  

L.I.B.: Vorrei affrescare una cattedrale.

W. Guadagnini (a cura di), Domenico Gnoli. Lettere e scritti, Abscondita, Milano (2004), pp. 41-42. 1

Il dono. Amore Lento, Presenti Scomparsi. Olio, pigmenti, carta velina su juta 200 x 170 x 3,5 cm, 2020 – courtesy of the artist