AHMED BADRY X FLAVIA MALUSARDI
Se dovessi pensare a una lista di parole per descrivere l’epoca in cui viviamo, ‘precarietà’ sarebbe sicuramente tra le prime cinque. A pervadere le nostre esistenze, è quel sentimento che più o meno tutto sia effimero, incerto, temporaneo. E se da una parte lasciare una porticina aperta alla libertà fa gola, dall’altra l’incertezza destabilizzante stride con il bisogno umano di sicurezza e stabilità.
Creando un’etica della provvisorietà tutta sua, Ahmed Badry ricerca possibilità inedite (e positive) che scaturiscono dal dinamismo di ciò che si sforza di non andare in pezzi.
Flavia Malusardi: Gli oggetti sono stati un tratto distintivo del tuo lavoro fin dall’inizio della tua carriera. Penso a Sona El Seen (arabo per “Made in China”), presentato allo Youth Salon del Cairo nel 2009. Nell’opera, una costruzione composta da tanti scatoloni impilati forma la scritta del titolo, leggibile però solo dall’alto: è un po’ il tuo punto di partenza. Da dove ha origine il tuo interesse verso i prodotti di consumo?
Ahmed Badry: Ne sono attratto perché hanno una modalità tutta loro di comunicare: una sorta di codice a noi noto che include il nome, la funzione, l’immagine. Costituiscono una realtà a sé stante, in cui hanno una vita propria. Osservando ciò che mi circondava, notavo cose a cui nessuno badava, dettagli che passavano inosservati oppure assemblaggi improbabili spesso liquidati con una risata o una smorfia. Studiarli è stato un modo per conoscerli meglio o, se vogliamo, per ri-conoscerli.
FM: Nel tuo vecchio appartamento al Cairo ricordo la tela Bus Ticket (2010), che ritrae il biglietto dell’autobus in formato due metri per tre. Ingrandire cambia la percezione, facendo entrare prepotentemente l’insignificante nel nostro campo visivo…
AB: Le dimensioni modificano il modo in cui vediamo. Nelle mie opere, ho riprodotto oggetti o dettagli ingranditi al punto da non essere più riconoscibili: risultano così slegati dall’idea che abbiamo di essi e rimossi dal contesto in cui li collochiamo di solito. In Svizzera, dove ho vissuto e lavorato per qualche anno, ho realizzato una serie di tele che ricreavano i tessuti dei sedili dei trasporti pubblici. Posto di fronte all’immagine, l’osservatore resta spiazzato: la sua memoria visiva sa di aver visto quel motivo ma non riesce a ricostruirne il contesto, lo riconosce e non lo riconosce al tempo stesso.
FM: La tua personale The Provisionary that Lasts si è tenuta a Medrar for Contemporary Art nel 2014. Per la mostra, hai presentato una serie di disegni e sculture di articoli di consumo che ricordavano prototipi industriali quanto mai insoliti: erano spesso disfunzionali, soluzioni precarie e azzardate per risolvere guasti o rotture.
AB: Come suggerisce il titolo, il corpus della mostra indagava quella provvisorietà che sembra sul punto di andare in pezzi e che invece, in qualche modo, resiste – o tenta di resistere. Le opere nascono da immagini reali, incontrate nel quotidiano oppure trovate sul web, che conservo in un archivio personale che ora ne conta oltre cinquecento. Si tratta di situazioni bizzarre, spesso prive di senso ma anche di assemblaggi, combinazioni che tentano di risolvere un problema o un malfunzionamento: un cucchiaio usato come chiavistello, o una gruccia che funge da lampadario. Io li definisco ‘oggetti ibridi’: a interessarmi è soprattutto il gesto e il tentativo, non necessariamente la qualità performativa del risultato.
FM: L’estetica delle opere è estremamente pulita, quasi clinica: i disegni sono tracciati da una sottile linea blu, le sculture completamente bianche.
AB: Il colore ha un ruolo importante. In The Provisionary that Lasts volevo un distacco completo rispetto al mondo circostante. Rimuovere il colore dagli oggetti è un modo per disconnetterli dalla memoria e, di conseguenza, dall’uso a cui sarebbero destinati. Sembra banale, ma ricordo un episodio che invece mi ha molto colpito. Un giorno venne a casa un elettricista per un guasto sulla linea e vide le sculture: le cuffie, la caffettiera, il ferro da stiro. Benché fossero tutti elementi del quotidiano, di sicuro a lui noti, mi chiese genuinamente se si trattasse di attrezzatura ospedaliera: è stata una soddisfazione vedere che si era realizzata quella disconnessione che tanto avevo cercato.
Ora, al contrario, utilizzo colori sgargianti, tinte quasi fluo che mi ricordano quelle dei giubbotti segnaletici o dei cartelli di sicurezza e che creano una connessione con il mondo industriale che realizza quegli utensili o quelle costruzioni: ne è un esempio Various Names of a Provisionary that lasts (2019), opera vincitrice della 13° Biennale Internazionale del Cairo.
FM: Si tratta di una serie dall’apparenza ironica e divertente ma in realtà ha un significato profondo in riferimento alle strutture economiche, di cui mina le dinamiche legate alla produzione e al consumo.
AB: Esatto: pone l’accento sull’agency del consumatore che può diventare produttore, alterando così la relazione a cui siamo normalmente abituati. Ignorando le aspettative codificate nei confronti di un prodotto, egli agisce all’esterno della configurazione dell’economia globale e propone narrazioni alternative che operano parallelamente al sistema nel quale sono inserite, costringendo a ripensarne i confini. È una consapevolezza che deriva dal mio vissuto: mio padre riparava e modificava gli oggetti adattandoli alla situazione; io ho imparato da lui e spesso lo faccio ancora oggi. Quando mi sono trasferito in Europa, ho notato che qui tutto ha un utilizzo specifico, viene usato secondo il codice che gli è stato assegnato e non si può cambiarne la destinazione. Penso ad esempio a tutti i tipi di caschi – ce ne sono per la bici, per lo snowboard, per la moto… Per me è stata una vera scoperta.
FM: In Portmanteau, la tua mostra a Letitia Gallery (Beirut, 2018), hai riflettuto sulla relazione oggetto-lingua, approfondendo il ruolo della funzione/disfunzione nella determinazione del nome.
AB: Portmanteau indica quei termini che nascono dalla fusione di suoni e significati di altre due parole. Nella mostra, mi sono concentrato sull’aspetto linguistico attivato dagli ibridi, e in particolare sull’incapacità di dargli un nome o di spiegarli che deriva dalla loro forma insolita. Il linguaggio è al servizio della funzione e dal momento in cui quest’ultima fallisce, non siamo più in grado di identificarli attraverso la parola: immagine e lingua si sfasano e si verifica uno straniamento. Per la mostra ho chiesto ad alcuni collaboratori di fornire una definizione per quegli ibridi, che tentasse di spiegarli attraverso le sensazioni che da essi derivavano: è stato un processo molto curioso!
FM: La tua ultima serie si chiama Organic Architecture. L’espressione ‘architettura organica’ viene utilizzata per indicare quegli edifici che cercano un’interazione con la natura, ma in questo caso sono gli edifici stessi a essere dotati di una ‘vita’, si configurano come ‘organismi’. Nelle opere si trovano costruzioni bizzarre, edificate sfidando il buonsenso o le regole generali dell’architettura. Cosa ti ha portato in questa direzione?
AB: Non lo definirei un vero e proprio spostamento, quanto piuttosto un ritorno alle origini e un ampliamento dei miei interessi. In un certo senso, percepisco queste architetture proprio come degli oggetti ibridi.
Sono cresciuto con mia nonna, in un appartamento che all’inizio aveva solo due stanze, ma entro pochi anni divennero sei. È un pratica abbastanza comune al Cairo, dove costruzioni o modifiche architettoniche illegali sono all’ordine del giorno: ne risultano abitazioni dalla pianta molto irregolare, che finiscono con il cambiare progressivamente l’aspetto dell’intero quartiere. Ecco che così si presentano come un organismo artificiale che muta come se fosse dotato di vita propria.
FM: Pensi che, un po’ come per gli ibridi, anche queste architetture siano un modo per risolvere un problema preservando l’impianto di partenza? Un tentativo di conservazione versus distruzione?
AB: Credo che queste costruzioni non siano necessariamente degli errori o dei disastri architettonici, forse rispondono a un bisogno di cui non siamo a conoscenza. Ma soluzioni o problemi non sono la mia priorità; quello che mi colpisce è la logica differente in cui questi spazi operano. Sono interessato allo sforzo del ‘mantenere la funzione’ o del renderla sostenibile benché tutto intorno sia pericolante. Inoltre, in queste costruzioni vedo delle metafore che suggeriscono un concetto, un’idea o un significato più ampio, collegabile con la vita stessa: ciò che vediamo o non vediamo, porte aperte e chiuse, l’essere in bilico su equilibri precari, lo sfidare ogni buon senso… C’è una connessione con la mia vita di artista in cui molte cose sono nonsense (ride).
FM: In Organic Architecture hai sperimentato una nuova tecnica per la realizzazione delle opere, utilizzando dell’acido su carta. È una tecnica che richiede estrema pazienza e precisione…
AB: Sì, ma questo accade spesso nel mio lavoro. Sono attentissimo ai dettagli, a volte quasi maniacale e la realizzazione dell’opera diventa anche un percorso ‘spirituale’ diciamo. L’acido che ho usato corrode lo strato superficiale della carta, togliendone il colore senza che io aggiunga delle linee. In più, si modificherà nel tempo: il colore che ha lasciato sulla carta o lo spessore della linea cambieranno e questo mi ricorda il mutamento che subiscono gli edifici negli anni. Non so prevedere come o quando accadrà, ma trovo sia l’aspetto più rilevante di questa tecnica.
FM: Hai vissuto per alcuni anni in Svizzera, poi in Libano e ora da ormai tre anni abiti a Oslo. Vivere all’estero ha influenzato la tua pratica di artista?
AB: Ha influito la diversità con cui ci rapportiamo ai prodotti di consumo e interagiamo con essi, così come le relazioni con gli edifici, il mondo edile ed eventuali modifiche, che in Europa sono soggette a una serie di restrizioni e richieste di permessi. Questo ha innescato profonde riflessioni che hanno diretto lo sviluppo della mia pratica.
FM: Ti sei laureato nel 2003 alla facoltà di Art Education dell’Università Helwan (Cairo) e hai proseguito la tua formazione con residenze all’estero, penso a Citè Internationale des Arts des Paris (2009) e Delfina Foundation a Londra (2010). Nel 2017 hai partecipato al programma di studio e formazione Home Workspace di Ashkal Alwan (Beirut), mentre a Oslo ti sei laureato alla National Academy of the Arts. Come hanno influenzato la tua pratica queste esperienze di studio?
AB: Le residenze sono state l’ambiente giusto per sperimentare e per capire come sviluppare certe tematiche in relazione alla mia pratica. Il programma ad Ashkal Alwan è stato il punto di partenza per una ricerca più approfondita, che fornisse un solido quadro teorico al mio lavoro, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto linguistico. A Oslo invece, grazie anche agli studi messi a disposizione degli studenti, mi sono concentrato sulla realizzazione di nuovi lavori. Si sono susseguite una serie di fasi, l’ambiente che ho incontrato di volta in volta ha favorito lo sviluppo di una o dell’altra.
Ahmed Badry (Cairo, 1979) attualmente vive e lavora a Oslo, dove si è laureato presso la National Academy of Fine Arts.È rappresentato da Gypsum Gallery, fondata e diretta da Aleya Hamza. È il vincitore della 13 Biennale del Cairo