NUN TE REGGAE PIÙ EP. II | ALLA PENSIONE PREFERIAMO QUEL PAESE
I quindici minuti di notorietà warholiani sono diventati, per alcuni personaggi, anni. E uscire da questo circolo è diventato impossibile. Ne sono talmente assuefatti che (forse) non si rendono conto di soffrirne. L’aprire bocca diventa così un meccanismo in grado di alimentare il proprio ego: ciò che viene detto non è poi così importante. Ciò che conta è che ci sia qualcuno che ascolti.
Ed ecco che la voglia di sparare sentenze senza conoscere a fondo le dinamiche che animano – o annichiliscono – il sistema culturale più giovane e fresco della città porta a dire sgradevoli stronzate. In tali circostanze, la voglia di celebrità si trasforma in sindrome da Red Ronnie, le cui caratteristiche principali si risolvono nel: criticare qualsiasi cosa che non si conosce e non si capisce, senza badare all’analisi critica del contesto, degli attori e delle reali problematiche.
Un recente articolo pubblicato su il Corriere di Torino firma di Luca Beatrice, e la relativa risposta di Gabo, ci lasciano perplessi. Oltre a farci parecchio incazzare.
Si parla dei giovani, di cultura, di effervescenza e soprattuto di ciò che ha animato Torino ai tempi che furono. Pare però che la spinta propulsiva del cosiddetto ‘Rinascimento torinese’ non possa replicarsi più. Fin qui nulla da dire, anche perché pare abbiano scoperto l’acqua calda, i signori. Trattasi di modelli non replicabili, sia per sostanza che per contesto… e speriamo ve ne siate accorti. Il problema principale, però, sostenuto in particolare da Luca Beatrice, sembrerebbe imputabile ai giovani, quest’ultimi troppo poco speranzosi e dotati di cazzima da riuscire a fornire alla città un tono gagliardo e, soprattutto, in grado di mandare in pensione la vecchia guardia.
La questione pone i riflettori su due grandissimi problemi che animano e smuovono gran parte degli inquisitori.
1. A Torino non ci sono situazioni degne di nota, rilevanti culturalmente e che animano la ricerca artistica. Secondo loro! Peccato che non sia così. Spostare il dialogo su questi termini è sintomo di ostracismo e arroganza fine a sé stessa. La ricerca artistica in città (ma non solo, perché gli stessi ragionamenti sono applicabili al sistema nazionale) è forte. Gli opening sono pieni; la voglia di fare è tanta. Allora perché straparlare? Semplice: non si conosce più la città nella quale si vive. O meglio (peggio!) non c’è interesse a conoscerla e scoprirla. Ad avvalorare tali tesi sono i dati: chi li ha mai visti in questi posti?
P.S. Non vale sostenere di averli incontrati agli opening-da-salotto.
2. I giovani non hanno voglia di rischiare. Non riescono a sostituire la vecchia guardia, che non vede l’ora di andare in pensione. Sempre secondo loro, eh!
Anche qui i toni del “dibattito” sono al limite del ridicolo. Come si può lasciare fuori da questa “analisi” (le virgolette sono di nuovo d’obbligo) i problemi reali che animano la questione? Anche qui dimostrano quanto siano poco informati – e nuovamente disinteressati – in merito allo stagno professionale nel quale il giovane professionista sguazza. La Città non guarda ai giovani finché non può finalmente lucrarci, e molto spesso lascia morire queste proposte, che non ricevono sostegno di alcun tipo. La spinta creativa, infatti, dura fino a un certo punto. A una certa c’è bisogno di campare.
C’è davvero chi crede che queste persone vogliano il nuovo che avanza? Personalmente – e l’esperienza diretta con uno di quelli che scrive tali idiozie ci fomenta – crediamo di no. Perché quella sindrome warholiana è diventata assuefazione. Il personaggio, molto spesso in questi casi, surclassa la persona.
Ci teniamo sempre a portare due esempi che crediamo possano aiutare a comprendere meglio il tutto. A Torino, in piena pandemia, sono nati – oltre noi – molti altri spazi indipendenti, dalle forme ibride, che animano la scena culturale, atterrando in un panorama già comunque parecchio valido e vivo. Questo è un chiaro sintomo di reazione alle avversità. Si ricorda che già in pre-pandemia, per noi, il mondo professionale non fosse un’isola soleggiata o un luna park. Ne siete a conoscenza? Probabilmente sì, ma altrettanto probabilmente non vi interessa saperlo, né prenderlo in considerazione.
Capiamo che è molto più semplice parlare e criticare, piuttosto che analizzare e ragionare. Ponderare e comprendere. È più faticoso valutare le problematiche burocratiche che affliggono il reparto; più semplice è sostenere che prima era meglio mentre ora fa tutto schifo. E che la colpa è nostra. Queste affermazioni, sono tanto più fuori luogo quando arrivano nel periodo più nero per la cultura e per tutti gli operatori culturali.
Lanciamo allora qualche incipit perché magari viene voglia di approfondire il discorso (cosa che ci auguriamo). La riforma del terzo settore ha dato un’ulteriore stangata alle piccole/nuove associazioni culturali. Quest’ultime, che vengono inserite all’interno del macro-reparto ‘hobby’, sono appunto intese – già a priori – un passatempo, attività ricreative che non possono offrire sbocchi professionali ed economici. Se già a livello burocratico un’associazione culturale viene considerata alla pari delle bocciofile, il problema non può essere imputato alla mancanza di voglia/interesse del giovane. Del resto stiamo parlando di una riforma che, sotto l’egida della regolamentazione, prevede una promozione del volontariato (anche noto come lavoro gratuito) che continua ad alimentare il circolo vizioso del non-lavoro culturale che le generazioni precedenti alla nostra, a quanto pare, amano. E che voi conoscete bene, vero?
Detto questo, si sta citando solo uno dei tanti problemi che affliggono dalla base il sistema culturale. E non per mettere le mani avanti, ma per farvi capire quanto le vostre analisi siano scorrette e prive di fondamenta. Nonostante ciò, continuiamo a lavorare, facendo diversi altri lavori per sopravvivere e mandare avanti le attività di tasca nostra, perché quello che spinge noi è un’esigenza reale e profonda, cosa che voi, dall’alto del vostro piedistallo, non riuscite a comprendere, né a provare.
D’altronde siamo nella città in cui ci sono cinque/sei uffici, declinati con nomi diversi, che si occupano della stessa cosa. O almeno teoricamente: perché, in realtà, non riescono a garantire stabilità al reparto culturale giovanile. Quindi non ci stupiamo che la questione non sia analizzata in maniera corretta. Nella stessa città che ha previsto di radere al suolo il Comala, importantissimo centro culturale della città, per costruirci l’Esselunga e che ha risposto alle proteste dei giovani con manganellate. Nella stessa città in cui quando si parla della “movida”, tanto rimpianta nell’articolo, viene aggiunto il prefisso “mala”, con tanto di task-force degli assessori per combatterla.
Lanciamo un appello, perché sembra esserci un’ulteriore scorrettezza da parte vostra, ovvero affrontare una tematica lasciando fuori i diretti interessati. Un po’ come quando durante i talk show televisivi, per analizzare la differenza di genere, vengono invitati a parlare solamente uomini. Pertanto, Corriere di Torino, offrite una pagina anche a noi giovani professionisti. Magari con un ritmo duraturo e non one-shot utile solo per lavarvi la coscienza. Lasciate perdere chi è ormai troppo impegnato a calarsi dal cielo senza offrire soluzioni o ipotesi concrete e reali a un problema di tale caratura. E, anzi, ospitate chi davvero ha le mani in pasta come noi giovani, e che quotidianamente cerca di lavorare per un futuro che non offre nessuna garanzia professionale e culturale.
Ai personaggi con la sindrome da Red Ronnie, come in questo caso Luca Beatrice e Gabo, invito un giro per la città, senza pregiudizi, magari iniziando da Osservatorio Futura e continuando il tour per la città.
Cadono le braccia. Dopo la fatica che ci mettiamo, c’è chi ancora parla di punk, del ‘Si stava meglio quando si stava peggio‘ e di giovani svogliati.
Consiglio spassionato: mandiamoli a fare in culo. Per mandarli in pensione c’è sempre tempo.
Federico Palumbo
Francesca Disconzi