Di Sergey Kantsedal
Sergey Kantsedal è un curatore di base a Torino.
In questo periodo mi è capitato di ascoltare DakhaBrakha (ДахаБраха), un gruppo etno-punk diventato celebre a livello internazionale grazie ad un equilibrio di sonorità originali e tradizionali. Dagli arrangiamenti alla presenza scenica, tutto nella loro musica è ispirato al folklore locale: non quello dell’Ucraina Sovietica o post-Sovietica, ma quello più autentico, proto-moderno, di cui il simbolo principale è la vyšyvanka — tipica casacca ricamata a mano del costume nazionale, la stessa che quattro membri della band indossano nell’immagine di copertina del brano Baby, su YouTube. Solitamente non mi piace la musica folk, ma questa canzone — che combina in maniera bizzarra i canti antichi con delle sonorità più contemporanee — mi attrae. È vero che l’immaginario etnico è animato da cliché consolidati e stereotipati, ma è altrettanto vero che contaminato da linguaggi più coevi, questo tipo di espressione della cultura popolare può generare degli ibridi. <<Magari non è poi così male…>> dico a me stesso, mentre scorro svogliatamente altri video suggeriti dall’algoritmo digitale.
Tempo dopo ho ricevuto la proposta da parte di una piattaforma online (Futura) di contribuire con un testo che prendesse in considerazione il mio “background culturale”. Ho dei sentimenti ambigui, non per il fatto che lo considero poco rilevante… Altrochè! Soprattutto se prendiamo in considerazione la recente storia politica: Rivoluzione di piazza Maydan, annessione della Crimea, conflitto nella regione di Donbass e guerra russo-ucraina. È la posizione di compromesso che mi spetta a rendermi perplesso: per quanto può sembrare invitante, non è priva di rischi, soprattutto se l’obiettivo della tua attività (faccio un po’ fatica a definirla pratica) negli ultimi anni è stato proprio quello di superare i limiti della tua stessa località.
Gli eventi del 2013-2014, forse per la prima volta dopo la caduta dell’Unione Sovietica, hanno focalizzato l’attenzione mediatica sull’Ucraina. Ciò ha avuto anche delle ripercussioni sulla mia vita personale: non solo ho preso la decisione di trasferirmi in Italia per una questione anche di “sicurezza” (dopo che il conflitto armato era già in corso ho ricevuto la lettera di convocazione per il servizio militare), ma mi sono trovato davanti alla necessità di ripensare il ruolo della curatela in relazione al legame tra arte e attivismo, identità nazionale e globalizzazione, l’identificazione personale e la propaganda dei media. Questo è anche ciò che ho scritto nella lettera motivazionale di CAMPO, il corso per curatori alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino per quale sono stato selezionato nel 2015.
Come dicevo, sullo sfondo di una permanente crisi geopolitica, l’attenzione dei mass media nei confronti dell’Ucraina, che si è spostata poi in altre zone “calde” del mondo, in quel periodo era ancora “viva”. Ricordo molto bene come dopo questi avvenimenti alla solita compassione assistenzialista — che prima riscontravo negli atteggiamenti dei miei colleghi italiani — si aggiungesse anche un po’ di interesse e curiosità: bisognava approfittarne! Le conversazioni che mi capitava di avere con le persone in quel periodo variavano a seconda di quanto informato era l’interlocutore — o l’interlocutrice — che avevo davanti: c’erano quelli che non nascondevano il proprio entusiasmo e quelli che si ponevano in modo più diffidente, facendomi notare la presenza in piazza Maydan dei gruppi nazionalisti e neonazisti. “Nonostante il sempre più forte consenso per le tendenze reazionarie e xenofobe in Ucraina da qualche anno a questa parte (a causa del conflitto militare), le forze dell’estrema destra non hanno avuto un ruolo decisivo nelle manifestazioni di protesta” rispondevo io.
Successivamente (e anche a causa) del percorso di CAMPO, la discussione delle questioni sociali-politiche — non prive di un certo pathos che ho ereditato dall’esperienza di quegli anni — si sono spostate su un secondo piano, dando precedenza a delle preoccupazioni di natura più esistenziale. Mi sono reso conto che la nozione dell’autenticità è un costrutto fittizio, che nella realtà si scontra con numerosi preconcetti, in cui le strategie di auto-narrazione (un po’ quello che sto facendo anche ora) non sono prive di auto-estetizzazione. Dopotutto nonostante una vicinanza culturale, oltre che geografica, l’Europa rappresenta “l’Altro” per noi dell’Est. (O meglio, siamo noi “L’altro” per l’Europa!). È come se ci fosse bisogno dello sguardo mediato per “vedere” chi siamo veramente: Look at Me I Look At Water, il titolo della foto-serie del celebre Boris Mikhailov che racconta la propria esperienza personale di transizione culturale.
Il sentimento di soggezione che ho interiorizzato in quanto rappresentante della periferia culturale (si, proprio così) non è soltanto una mia preoccupazione personale, ma un luogo comune per le persone come me, impegnate nella “conquista” di un sistema istituzionale più articolato, come quello italo-europeo. Anche se ci sarebbe un po’ da discutere sulla posizione dell’Italia nell’Europa post-crisi finanziaria — e adesso anche post-pandemica — dove paesi del “Sud” sono visti come una “versione difettosa del Nord”. Un processo culminato nella scelta dell’acronimo stigmatizzante di PIIGS assegnato anche al Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna dalla comunità economica internazionale. (Per pura casualità questo era il tema del progetto finale di CAMPO, che è stata un’opportunità per affrontare una serie di questioni ai quali mi sento tuttora affezionato: la relazione tra il “centro” e “periferia”, il concetto di marginalità, la discriminazione nazionale).
Per la mia esperienza personale posso dire che da quando vivo e lavoro in Italia, anche io vengo percepito in maniera diversa da parte dei miei colleghi connazionali. Il fatto di operare all’interno di un sistema dell’arte globale fa di te un agente “scout”, come i curatori stranieri che selezionano degli artisti per delle mostre internazionali o i critici d’arte che scrivono dei report su delle riviste, segnalando dei fenomeni che vengono integrati all’interno del sistema dell’arte e quindi anche nelle relazioni di mercato. Pensiamo soltanto al cosiddetto fenomeno di “New East” promosso dalle riviste di tendenza come The Guardian e Calvert Journal nel tentativo di ri-attualizzare l’identità e l’estetica post-socialista, di cui il marchio di esportazione è il volto della nuova generazione post-Maydan, la stessa che ha contribuito all’esplosione della città, trasformando Kiyv in una specie di polo musicale, dimostrando che nei posti problematici il clubbing può ancora essere un gesto politico — se consideriamo “politico” anche la strategia di escapismo in quanto fuga dalla realtà quotidiana, politica compresa.
La centralizzazione attorno ai principali luoghi di risorse amministrative ed economiche ci mette di fronte ad un classico dilemma dell’uovo e la gallina: la mancanza degli specialisti del settore nei contesti “marginali” è dovuta alla concentrazione dei processi di legittimazione artistica nei “centri” culturali o viceversa? Questo interrogativo era anche alla base del progetto A Natural Oasis? — un programma di ricerca transnazionale in quale ho preso parte nel 2016-2017, insieme ad un gruppo di curatori provenienti dai vari paesi tra cui San Marino, Malta, Kosovo e Montenegro. Tranne un ampio territorio anche la posizione geopolitica dell’Ucraina è marginale, essendo la sua identità formata all’incrocio delle traiettorie post-sovietiche, post-imperiali e post-coloniali. Un esempio che mette in luce la precedente subalternanza nei confronti delle grandi potenze coloniali: fino a qualche anno fa per un gruppo musicale diventare famoso in Ucraina senza esserlo prima in Russia era impossibile (a partire dagli eventi del 2013-2014 la situazione è cambiata radicalmente). Penso solo al gruppo Griby (Грибы), diventato uno dei fenomeni più “popolari” nella storia del web da entrambi le parti. I loro brani, ispirati al migliore hip-hop degli anni 90 e che sembrano provenire dal boombox di una rumorosa compagnia di strada, sono allegri e sfiziosi, oltre che virali e contagiosi. Ne è un esempio la canzone “Il ghiaccio si scioglie” (Между нами тает лёд) uscita nel 2017 durante la violenta escalation della guerra in Donbass, che solo in pochi giorni ha raccolto 10 milioni di visualizzazioni.
Il critico, teorico dell’arte e artista Andrey Shental, che per diversi anni ha fatto da corrispondente per delle riviste d’arte, ha confessato di essersi spesso trovato nel ruolo di interlocutore tra Russia e Europa. Nel suo saggio (“Under The Western Gaze”) critica la determinazione personale a partire dall’appartenenza nazionale: “quasi ogni conversazione che mi è capitato di avere con una persona non-russa inizia con la domanda: ‘che diavolo combina la Russia?’”. Lui scrive: “la domanda mi viene fatta perché ho il passaporto russo, e ciò presuppone una conoscenza esclusiva della lingua, dell’ambiente interno e delle sfaccettature politiche e culturali generalmente trascurate dai media occidentali. La domanda assegna all’interlocutore il ruolo dell’analista in grado di svelare dei desideri subconsci nascosti interpretando le digressioni dei regimi dei loro paesi per il curioso sguardo dello spettatore. In questi giorni, se in una conversazione le mie origini etniche e nazionali sono esposte, vengo subito chiamato in causa in quanto cittadino rappresentante dello stato-nazione. Attraverso questo atto di soggettivazione mi viene assegnata un’identità che non ho richiesto e il ruolo dell’esperto, che non ho rivendicato, diventando così il portavoce della geopolitica russa: ancora e ancora devo rispondere per il mio paese.” (cfr. Andrey Shental, Under The Western Gaze, Paper Visual Art, vol. 10, Spring 2019)
A causa del processo dell’internazionalizzazione, il mondo dell’arte di oggi è molto più globale. Di conseguenza molte città, incluse quelle non-occidentali, si sono unite ai centri storici di egemonia politica ed economica. Tuttavia, il processo di ingroup e outgroup delle figure emarginate avviene sempre tramite la concessione della visibilità alle soggettività sottorappresentate. Se in precedenza, la razza, genere e sessualità era alla base della costituzione dell’identità di minoranza, adesso lo è soprattutto l’etnicità e nazionalità. Se non viene dal “Centro” è il sapere localizzante a definire la tua identità sociale e culturale, che non solo devi portare e performare, ma anche tutelare. Il paradigma dell’identità è diventato anche una sorta di strategia promozionale nel sistema dell’arte globale. Così come il fenomeno dell’alterazione, che è presente nel lavoro di molti artisti diventati celebri a livello internazionale. Ciò viene veicolato anche tramite la partecipazione al formato-mostra di rappresentanza geografica — come una serie di progetti espositivi d’arte “nazionale” o degli artisti ucraini — che hanno avuto luogo in diverse istituzioni sulla scia degli eventi citati. La problematicità di questi operazioni è che tendono a posizionare gli artisti come degli “agenti territoriali” e la conseguenza è che la complessità delle loro ricerche viene circoscritta all’interno di un discorso legato alla località d’origine. Una posizione conservatrice, che oggi fa sempre più pensare ai movimenti e alle politiche di estrema destra basate sul regionalismo e identitarismo ed è il motivo per cui da tempo rifiuto di fare una mostra di “arte ucraina” in Italia, preferendo progetti personali o/e curatoriali.
Concludo le mie confessionali riflessioni citando il lavoro dei Apparatus 22, gruppo di artisti con quali ho avuto modo di collaborare in passato: di base tra Bruxelles e Bucarest, il trio si auto-definisce come “un collettivo di sognatori, ricercatori, attivisti poetici e futurologi (falliti) interessati all’esplorazione delle intricate relazioni tra economia, politica, studi di genere, movimenti sociali, religione e moda al fine di comprendere la società contemporanea”. Un recente argomento della loro ricerca è l’universo SUPRAINFINIT, un mondo inventato dagli artisti che si colloca oltre l’infinito, manifestandosi tramite una serie di lavori (installazioni, performance e testi). Il mondo di SUPRAINFINIT può sembrare identico alla nostra realtà a un primo sguardo, ma è pieno di asimmetrie, non è determinato nelle proporzioni e caratterizzato dalla grandiosità dell’atmosfera che porta con sé la fantasiosità. Lo stato di SUPRAINFINIT è il modo per gli artisti di navigare tra il presente e il futuro, dando vita alle idee più audaci sulla politica dell’identità e definizioni culturali. Effimeri e al di là della normalizzazione, queste idee si trovano in fruttuosa incongruenza con la nostra realtà e le sue prospettive. Lo sguardo sull’esistenza dal punto di vista di un mondo post-come-lo-conosciamo-noi favorisce una percezione più sfumata dell’esistenza sociale, compreso quella all’interno del sistema dell’arte. Gli artisti rifiutano la rappresentazione di se stessi e la loro falsa universalità, contrapponendo un linguaggio più misterioso, astratto e di finzione, che riconosce nel processo della costruzione dell’identità un processo complesso e fluido. Il lavoro di Apparatus 22 è un esempio di strategie e pratiche di auto-narrazione speculativa e immaginifica, in cui il discorso della biografia non è preponderante, ma è quello che partecipa — insieme ad altri elementi — al processo dell’articolazione della soggettività.
L’autore ringrazia Ilenia Berra, Francesco Snote e Filippo Tocchi