Noor Abuarafeh x Flavia Malusardi
“Se vuoi depredare un popolo, il modo più semplice per farlo è raccontare la sua storia e iniziare con ‘in secondo luogo’”
Mourid Barghouti, Ho visto Ramallah
Flavia Malusardi: La tua pratica artistica è pervasa da alcune tematiche chiave – la Storia (1), il museo, l’identità. In Palestina la relazione con la memoria è molto complessa e l’oralità e il racconto possono essere strumenti efficaci per ricostruire una storia esclusa dalla storiografia ufficiale o silenziata dai poteri imperialisti. Com’è nato questo interesse e come spiegheresti la rete di relazioni che si instaura tra memoria, trauma, immaterialità, archivio?
Noor Abuarafeh: Tutto è iniziato da Observational Desire on a Memory that Remains (2) (2015), opera video nata in seguito al ritrovamento di una fotografia con quattordici artisti, scattata al teatro Al-Hakawati di Gerusalemme nel 1985. Da lì ho cercato fonti che documentassero quel periodo, solo per scoprire che non esistono archivi in Palestina: il materiale d’archivio, costituito da documenti o da oggetti, è finito sotto il controllo coloniale, che lo ha incluso nelle sue collezioni, istituzioni e musei; tutt’ora rischia costantemente di essere rubato, manipolato, commerciato illegalmente.
Dato il contesto fragile della Palestina, ho iniziato a prendere in considerazione una documentazione basata su testimonianze immateriali. Parlare e ascoltare diventano strumenti per ricordare ed è l’azione del racconto a rendere la memoria sempre presente, al contrario dell’operato del museo e dell’archivio, che insistono nel concepire la memoria come passato. È un metodo, questo, che richiede una grande capacità di ascolto e una buona apertura a credere a diverse possibilità nella Storia. Cerco di generare memoria, piuttosto che conservarla.
FM: Molti dei tuoi lavori ruotano appunto intorno al mito del Primo Museo Palestinese. Presentato alla tredicesima biennale di Sharjah, il racconto e installazione “The Earth Doesn’t tell its Secrets” his father once said (2019) è uno di essi. Perché questo museo è così importante?
NA: “Primo Museo Palestinese” è stato il nome affibbiato a molteplici potenziali musei, presentatisi a più riprese nella storia della Palestina. Nel 2015, il Museo Palestinese ha aperto al pubblico le sue sale vuote, simbolo della discussione sulle diverse modalità di raccontare attraverso testimonianze non materiali. Come è possibile fondare un museo palestinese quando la Storia è ancora così presente, così sentita? Come potremmo mettere in un museo un evento come la Nakba (1948) (3) quando stiamo vivendo le sue conseguenze ancora oggi? Quali tipi di oggetti o materiali potrebbero mai entrare nelle collezioni di un tale museo?
Il racconto, che è il secondo capitolo di un progetto più ampio, si concentra sul destino di questa ossessione. Nella prima parte, il narratore richiama una serie di musei, tutti valide promesse per il Primo Museo Palestinese, visitati nell’infanzia, quando era solita accompagnare il padre alle mostre a Gerusalemme e a Ramallah. Viene a crearsi un’immagine di ciascuno basata su ciò che di essi ricorda. Racconta poi il loro fallimento nella creazione di quelle componenti essenziali di un museo: una narrazione, un edificio e degli oggetti. La seconda parte riporta sedici conversazioni con diversi interlocutori, tenutesi nei soggiorni delle loro case: le conversazioni si concentrano sulla collezione di oggetti esposti nella stanza. Pur non essendo del tipo che si trova nei musei, offrono spunti per riflettere sulle modalità delle loro collezioni. Scopo dell’opera è mettere in discussione la nozione stessa di museo in un contesto come quello palestinese e suggerire che il futuro di una simile istituzione possa trovarsi proprio nei soggiorni delle persone.
FM: Il museo è fortemente connesso con Gerusalemme, città dall’importanza millenaria e punto di riferimento per diversi popoli e culture. Qual è la relazione tra questi due poli e il ruolo di chi detiene il potere in questa relazione?
NA: Gerusalemme è stata una città centrale nella storia, soprattutto per la sua importanza simbolica. In The Rumor started long time ago (2018), pubblicazione che ho prodotto durante la mia residenza a Delfina Foundation (Londra), ho esplorato il ruolo chiave che assunse nello scontro tra l’Impero Ottomano e il mandato britannico, un tensione politica esercitata anche attraverso il museo. Con l’Europa alla soglia della Modernità, il sultano Abdel Hamid non voleva essere da meno: istituì diversi musei sul modello europeo. Gerusalemme ebbe il suo Primo Museo Palestinese proprio in quel periodo, secondo solo a quello di Istanbul. Si trattava di musei monumentali nell’aspetto, vere e proprie dichiarazioni della potenza ottomana e della capacità non solo di stare al passo con i tempi moderni ma anche di farne parte al punto da erigere un museo a Gerusalemme, una delle città di riferimento per la comunità cristiana europea.
Anche la città subì delle modifiche che la orientarono verso la “modernità”. Con la presa del potere da parte dell’impero britannico, l’interesse per Gerusalemme in quanto polo culturale venne incarnato dalla Pro-Jerusalem Society, un’associazione guidata da Ronald Storrs, il primo governatore britannico della città. La loro visione della città era completamente diversa da quella degli ottomani: ritenevano Gerusalemme una città tradizionale che avrebbe dovuto rimanere immutata, estranea alla modernità occidentale. Sulla base di tali presupposti, gli inglese “riportarono” la città vecchia di Gerusalemme alla sua “originalità”, cancellando le modifiche introdotte dagli Ottomani, favorendo l’artigianato locale e talvolta introducendone forme che ritenevano indigene ma che in realtà non erano proprie della cultura palestinese dell’epoca: un processo che serviva a creare gli oggetti per la collezione del museo. In pratica, la città è diventata lo specchio dell’immagine che fazioni opposte avevano di essa e fu disegnata per rispondere alle esigenze di un potenziale museo, e non viceversa.
FM: Torniamo a Observational Desire on Memory that Remains, in cui parti da una fotografia nel tentativo di ri-creare (o semplicemente creare?) una storia dell’arte palestinese. Come opera la memoria collettiva?
NA: Observational Desire on a Memory that Remains segue il percorso di un artista, Sager al-Qateel, scomparso da tutti gli archivi palestinesi, persino da quello dedicato all’arte, al-Wasiti Art Archive, attivo per pochi anni. Compare in una foto scattata in occasione di una mostra collettiva nel 1985, insieme ad altri tredici artisti – che tuttavia non se lo ricordano. Le poche notizie che sono riuscita a trovare su Sager mi hanno incuriosita: in un certo senso ha diretto la mia ricerca perché fosse legata a lui più che alla storia della foto in sé. Mi sono interrogata su come fosse possibile che qualcuno potesse essere cancellato dalla memoria collettiva, dagli archivi personali, da quelli istituzionali, dalla memoria della fotografia e quindi della storia dell’arte della Palestina? I social mi hanno fornito le prime informazioni su di lui: era mancato dieci anni prima, così ho cercato le persone che potevano averlo conosciuto, incontrato, visitato una sua mostra o avuto qualsiasi tipo di incontro con lui. Ascoltare persone diverse ha creato storie diverse, a volte contraddittorie tra loro. Ero aperta a tutti questi racconti allo stesso modo, allo scopo di creare una narrazione immaginaria che considerasse comunque quali informazioni includere e quali no.
Quando, alcuni anni dopo, l’artista palestinese Vera Tamari mi ha detto che anche lei aveva partecipato a quella mostra ma non compariva nella fotografia, si è aperta un’altra, completamente diversa, prospettiva sulla storia dell’arte della Palestina!
FM: Am I the Ageless Object at the Museum? (2018) (4) nasce dopo una serie di visite a diversi musei in Egitto, in Palestina e in Svizzera. In esso stabilisci una relazione curiosa tra il museo, il cimitero e lo zoo, tre luoghi all’apparenza molto diversi ma in realtà legati dai concetti di morte, possesso e sguardo.
NA: Il video indaga appunto la relazione tra ognuno di questi luoghi da un punto di vista storico ma anche concettuale. Il cimitero è per i morti, è un luogo pieno di immaginazione e di possibilità, penso ad esempio alle possibili vite delle persone, ai loro nomi e allo loro storie. Il museo è assimilabile al cimitero nel suo essere contenitore di oggetti sostanzialmente “morti”, cioè che non sono più parte dell’uso comune; è, in sostanza, la dichiarazione di un’era terminata. Il museo, così come l’archivio, ci dice cosa ricordare e la narrazione che dobbiamo conoscere, mentre il cimitero non dice nulla ma genera quell’immaginazione per differenti narrazioni, racconti, possibilità. Lo zoo era una manifestazione del potere del sovrano, che mostrava agli altri i diversi animali che vivevano nel suo impero. Gli animali sono oggettivizzati, sradicati dal loro ambiente naturale, etichettati con un nome, la regione da cui provengono e una breve descrizione. Non si sa se la voce narrante del film sia quella di uno degli animali dello zoo, di uno qualsiasi degli oggetti del museo o di uno dei visitatori. Si crea quindi una tensione tra chi guarda e chi oggettivizza: il soggetto diventa oggetto e viceversa.
FM: La performance The Last Museum: Museum of all Museums (2020) fonde diversi aspetti delle tue opere e della tua ricerca precedenti: non solo argomenti ma anche persone, come Hassan Mortada, che ritroviamo altrove nella tua produzione. È una sorta di compendio della tua ricerca e dei tuoi interessi…
NA: Dal 2014 tutte le mie opere ruotano attorno a tematiche e argomenti simili, quindi le concepisco tutte come lavori differenti e autonomi che tuttavia esistono sotto lo stesso ombrello, legate da una sorta di fil rouge. Mi capita spesso di citare in un’opera un personaggio che è apparso in un’altra o di creare relazioni tra lavori diversi. Eppure, ad ogni passaggio il personaggio aggiunge qualcosa alla nostra lettura: gioca un ruolo diverso nella comprensione delle nozioni di archivio, memoria, trauma e ricordo, oppure permette una lettura differente del medesimo racconto, creando conversazioni o analisi ulteriori che non esisterebbero se non si ritornasse a quanto già osservato.
FM: Nel 2018, in collaborazione con il Khalil Sakakini Cultural Centre hai discusso con il curatore indipendente Paul Goodwin le criticità della pratica curatoriale in un contesto come quello Palestinese ed esplorato la nozione di undercommons come spazio e strumento di resistenza, cercando di decostruire l’istituzionalizzazione dell’arte e della cultura in Palestina. Questa discussione è diventata un’opera d’arte…
NA: Ero stata invitata da Reem Shahid e da Yazan Khalili a prendere parte alla mostra Debt, originata dal libro The Undercommons: Fugitive planning and black studies (2016) di Fred Moten e Stefano Harney, che Paul Goodwin ha discusso in una conferenza. Poiché in quel periodo la mia ricerca verteva sull’immaterialità delle testimonianze e sulla possibilità di creare opere incorporee che potessero spostarsi liberamente tra i confini, ho pensato di invitare Goodwin alla mostra e fare di questo stesso processo un’opera d’arte: An Artist Switching its Status from a Guest to a Host (2018), appunto.
L’opera, che oggi include la lecture di Goodwin e le lettere che ci siamo scambiati nei mesi precedenti, in realtà iniziava a comporsi a partire dal momento in cui Goodwin ha accettato e firmato l’invito, affrontando l’attraversamento del confine, l’interrogatorio all’aeroporto Ben Gurion, l’ospitalità nella casa della mia famiglia, l’accoglienza, e infine la ripartenza.
FM: Hai studiato in Palestina, poi in Libano e in Svizzera e hai partecipato a numerose residenze all’estero. Come il vivere e lo studiare all’estero, in connessione con le difficoltà di movimento dovute alla tua nazionalità, ha influenzato il tuo lavoro?
NA: Dal 2011 non ho mai avuto uno studio fisso, mi sono mossa costantemente, per studio o per lavoro. Nonostante questa instabilità, riflettere su argomenti simili in contesti differenti ha nutrito la mia ricerca e la mia analisi della nozione di museo di Storia a partire da prospettive diverse. Sicuramente il Cairo ha avuto un impatto profondo sulla mia pratica, per i suoi musei e il modo in cui sono controllati dal governo. Concepisco la mia intera pratica come un racconto, di cui ogni opera è una parte, un capitolo – forse anche della mia vita.
NOTE:
- Nel testo, si indica con la maiuscola la disciplina storica ufficiale e con la minuscola tutto quel substrato di narrazioni non riconosciuto dalla storiografia.
2. L’opera video è disponibile al seguente indirizzo: https://vimeo.com/user20083911
3. Il termine traduce “catastrofe” e indica la nascita dello stato di Israele.
4. L’opera video è disponibile al seguente indirizzo: https://vimeo.com/277969330#_=_
Noor Abuarafeh è nata a Gerusalemme nel 1986. Si è laureata alla Bezalel Academy of Arts and Design di Gerusalemme e ha ottenuto un Master in Arts in Public Spheres presso ECAV Ecole cantonale d’art du Valais (Sierre, Svizzera) nel 2016. Ha partecipato a residenze presso Delfina Foundation (Londra 2018), Città dell’Arte (Biella 2015), Cité internationale des arts (Parigi 2013), Tokyo Wonder Site (2012). È stata selezionata tra gli allievi del programma di formazione indipendente HomeWork Space Program promosso da Ashkal Alwan (Beirut 2011). Nel 2014 ha ricevuto il secondo premio nello Young Artist of the Year Award elargito da A.M Qattan Foundation.
Attualmente vive a lavora tra il Cairo e Gerusalemme.