IL CORPO NELLO SCHERMO

  • Categoria dell'articolo:Osservatorio
Maurizio Bongiovanni - Bye Bye Baby, 2020, olio su tela, 50x70cm - courtesy of the artist
Maurizio Bongiovanni – Bye Bye Baby, 2020, olio su tela, 50x70cm – courtesy of the artist

CONVERSAZIONE CON MAURIZIO BONGIOVANNI (A CURA DI MATTEO GARI)

La “finestra aperta sul mondo” di Leon Battista Alberti si è fatta digitale. Per guardare fuori al mondo reale, spesso, basta affacciarsi ai nostri rettangoli in cristalli liquidi e vetro temperato. Le immagini filtrate dai nostri schermi, appena scaricate dall’enciclopedia visuale di Internet, vengono copiate, incollate, compresse e ritagliate. Questo universo che si attraversa con un tocco, in cui un’immagine della cappella Sistina convive con i pop up dei siti porno, è la fonte delle immagini pittoriche di Maurizio Bongiovanni (Tettnang, 1979). Ospite nel suo studio a Milano abbiamo parlato della sua pittura, in cui il reale diventa una visione, dell’influenza dei fenomeni digitali nel pensare artistico e di come, con lo spazio di Metodo Milano, cerchi di ampliare le possibilità della ricerca artistica. 

Matteo Gari: Visto che ti ho disturbato mentre dipingevi, sono curioso di sapere come lavori ai tuoi quadri, soprattutto a livello progettuale. 

Maurizio Bongiovanni: Disegno e progetto tanto, sopratutto digitalmente. Il digitale mi consente di vivere virtualmente la tela come se fosse uno schermo touch screen, in grado di portarmi continuamente da una cosa all’altra. I progetti quindi, in alcuni casi, si generano attraverso imprevisti o elementi che metto in dialogo. Alle volte tutto avviene direttamente sulla tela, non possiedo un unico modus operandi. 

M.G.: Qual è il tuo approccio di ricerca? 

M.B.: Ho differenti modi di approcciarmi alla mia ricerca pittorica. Sicuramente il disegno con la fusaggine o la progettazione digitale mi aiutano ad avere il primo contatto con la tematica che voglio sviluppare. 

M.G.: Sei nato nel 1979, millennial di prima ondata. In che modo il mondo contemporaneo e i fenomeni digitali entrano a far parte del tuo lavoro? 

M.B.: Mi diverte molto ricordare il passaggio dalle cabine telefoniche a gettoni alle schede telefoniche, fino al boom digitale. In particolare le chat hanno avuto un grande impatto, soprattutto per la mia sessualità. Finalmente avevo scoperto delle stanze virtuali in cui poter conoscere e discutere con persone con cui condividevo un sentimento, delle idee. Le chat mi hanno sicuramente aiutato a sviluppare una parte immaginativa, soprattutto per l’assenza di immagini reali dei miei interlocutori. Tutta questa esperienza virtuale ha generato pensieri che sono apparsi subito nel mio dialogo con la pittura. 

M.G.: Un altro punto di svolta sono sicuramente stati i social network, probabilmente Instagram sopra tutti. Nel panorama contemporaneo sono uno strumento forte e importante, soprattutto per la promozione del lavoro degli artisti più o meno giovani. 

M.B.: Precisamente! Alla mia mostra di novembre, allo Studio d’Arte Cannaviello a Milano, una giovane ragazza con entusiasmo mi ha detto che i miei lavori sono molto “da Instagram”. Sinceramente l’ho preso come un complimento, anche se qualcosa mi sfuggiva. È un commento che mi interessa perché il social network è un termine di paragone del gusto, una specie di grammatica visiva nel sentire il contemporaneo. 

M.G.: Durante il lockdown mi è parso che l’isolamento forzato abbia stimolato nelle persone la necessità di aumentare la loro presenza nel mondo virtuale. Soprattutto mostrandosi nella propria fisicità, attraverso fotografie, che a volte prendevano anche una piega erotica. Paradossalmente scrollando le home dei nostri social network non abbiamo mai smesso di vedere corpi. In questa continua iper esposizione volontaria si attiva un processo discontinua costruzione di sé, per addizione di contenuti, ma questo accumulo va a spogliare la persona forse di più di quanto non la copra. Il corpo è un soggetto centrale nei tuoi quadri, che approccio hai nei suoi confronti? 

M.B.: Nel mio immaginario, il corpo ha sempre avuto un impatto potente. Qualsiasi forma o epoca abbia mai vissuto. Nonostante il discorso sul corpo abbia origine antiche e profonde per me rimane centrale ancora oggi. Il corpo è investito da tanti aspetti cavernosi e mi interessa non solo a livello estetico, ma anche sul piano di cosa si vuole comunicare con il proprio corpo. 

M.G.: Se non la storia dell’arte in senso stretto, per gli artisti, è sicuramente necessario un grande interesse per gli ambiti che vanno a esplorare o, più in generale, per le immagini che lo rappresentano. Si può fare arte veramente con tutto e prendendo a riferimento qualsiasi discorso ritraducendolo all’interno di una propria grammatica. 

M.B.: Lo studio è sicuramente importante, ma a volte troppo può anche affossarti. Chiaramente ogni autore vive la pittura in modo diverso, non c’è una formula o un libretto di istruzioni, per me è una sorta di specchio che ti chiama in continuazione chiedendoti un dialogo, di metterti a nudo e fare una dichiarazione. Vedo i miei dipinti come pagine del diario. 

M.G.: Hai vissuto e lavorato diverso tempo a Londra? Come ha impattato la tua vita e la tua carriera? 

M.B.: Sono stato diversi anni in Cina perché ricercavo un posto che fosse culturalmente distante. Mi ero interessato al mondo cinese, in particolare alla loro visione delle relazioni sociali, in cui non c’è la soggettività esasperata dell’Occidente, ma è tutto più plurale. Quando ho deciso di tornare in Europa dipingevo e lavoricchiavo e ho pensato di continuare la mia esperienza in Inghilterra, in particolare a Londra perché è sempre stata un mio grande amore. Lì sono stato in grado di dipingere e contemporaneamente lavorare. Londra mi ha dato la libertà di dichiarare apertamente di voler fare l’artista e di alzare il volume nel mio lavoro. Ci torno spesso, ma alla fine ho deciso di restare per un po’ in Italia e continuare il mio lavoro con la pittura con più tranquillità. 

M.G.: Ci sono delle grosse differenze tra il sistema artistico del Regno Unito e quello dell’Italia? Magari qualcosa che qui manca e che si potrebbe importare. 

M.B.: Senza voler fare l’esterofilo, la prima differenza che mi viene in mente è la quantità di denaro investita nell’ambiente artistico, che velocizza sicuramente l’assorbimento degli artisti e delle opere. Penso che ci sia un’educazione diversa nei confronti dell’arte e dell’artista a livello professionale. C’è sicuramente un’abbondanza di università, istituzioni, borse di studio che messe in confronto con l’Italia ci fa perdere un pò in partenza. 

M.G.: Com’è nato Metodo Milano? Dove si colloca nel panorama degli spazi artistici? 

M.B.: Metodo Milano è nato, come un gioco, dalla voglia di fare gruppo con gli artisti. Lo spazio ha un forte carattere: è un tunnel di venti metri all’interno di un’autorimessa, una galleria nel senso letterale del termine. Il nome Metodo Milano proviene dalla tecnica di escavazione ingegneristica utilizzata qui in città al tempo dei lavori per la prima linea della metropolitana, la linea rossa. Ci piace invitare artisti a ragionare sullo spazio, nello specifico sul tunnel, come fosse un lungo binocolo che ogni volta mette a fuoco diverse tematiche artistiche. 

M.G.: Il fatto che sia un spazio aperto a pratiche di qualunque tipo, anche quelle che possono esulare dalla canonica concezione di arte, lo rende uno spazio del possibile. Trovo che siano esattamente queste commistioni a dare forza e vita ai progetti artistici. 

M.B.: Sono la linfa vitale dell’arte. 

M.G.: Sono molto interessato a come ti senta rispetto all’identità queer, in particolare nel tuo lavoro. Ne Il Radicante (2009), Nicolas Bourriaud, parla di come spesso un certo tipo di critica che offre come chiave di lettura unica l’dentità, di genere o nazionale, possa risultare limitante. Ritengo che la queerness sia un atteggiamento che esula le questioni di sesso e genere, non è l‘omosessualità a farti queer diciamo. 

M.B.: Quando si parla di identità, di community, ho sempre il timore che questo concetto si possa trasformare in una specie di gabbia. Diciamo che l’arte queer semplicemente è una cosa che non sento strettamente mia, anche se mi piace molto da osservare. Sarebbe una noia leggere solo libri, e guardare solo film, a tematica omosessuale. Voglio dedicarmi anche a molti altri discorsi, personali o collettivi, ed è per questa libertà espressiva che combatto nella mia pittura. Non mi piace che i miei personaggi debbano necessariamente avere un gusto strettamente legato a un universo specifico. Cambiare prospettiva è una ricchezza. 

M.G.: Ultima domanda! Se avessi una disponibilità illimitata di spazio, tempo, fondi c’è un progetto che vorresti realizzare? 

M.B.: Mi interessa sempre il discorso sulla trans-mutazione, sul prendere un qualcosa e investirlo di altre cose. Mi piace l’idea di traslare i miei lavori, che trovo molto plastici, nel punto di vista scultoreo, con materiali come la ceramica o la porcellana che mi seducono moltissimo. Sicuramente li penso su una scala di grande dimensione. La grandezza mi investe sempre. Un’altra cosa che farei sicuramente, se avessi una grande disponibilità economica, sarebbe unire un team di ricerca, composto da studiosi, scienziati e filosofi, per farmi insegnare tutto quello che non so. Sarebbe come tornare a scuola, una grande cosa.

Maurizio Bongiovanni - Disabled Heroes, 2018, olio su tela 100x15 cm - courtesy of the artist
Maurizio Bongiovanni – Disabled Heroes, 2018, olio su tela 100×15 cm – courtesy of the artist
Maurizio Bongiovanni - Lady Boy, 2019, olio su tela, 200x153cm - courtesy of the artist
Maurizio Bongiovanni – Lady Boy, 2019, olio su tela, 200x153cm – courtesy of the artist
Maurizio Bongiovanni - Untitled, 2020, fusaggine, pastelli a cera, acquerello, 29,7x21 cm - courtesy of the artist
Maurizio Bongiovanni – Untitled, 2020, fusaggine, pastelli a cera, acquerello, 29,7×21 cm – courtesy of the artist