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DANIELE LICATA X MATTEO GARI

Cercando su Google la definizione di “mediatore culturale” ci si imbatte in una serie di contenuti che hanno a che fare prettamente con lo scambio linguistico. Delle parole “arte” o “museo” non c’è traccia. Il mediatore culturale museale è una figura professionale sconosciuta ai più e, per certi versi, mitologica per le schiere di giovani provenienti dalle Accademie e in costante ricerca di una finestra tramite cui inserirsi nel mondo del lavoro.

La definizione di Wikipedia stimola, però, dei curiosi parallelismi con il sistema dell’arte. Il mediatore culturale sarebbe “un agente bilingue che media una conversazione tra partecipanti monolingue appartenenti a due comunità linguistiche differenti. È informato su entrambe le culture, sia quella dei nativi sia quella del ricercatore anche se è più vicino ad una delle due.” Le istituzioni artistiche, nel loro elitarismo, spesso parlano in una lingua incomprensibile – per esempio il famoso International Art English -, le cui parole ampollose vanno a colmare vuoti di contenuto. 

Per scoprire se il mediatore culturale parli la lingua dei musei o quella del pubblico ho scambiato qualche parola con Daniele Licata (1987), che si occupa di questo ambito ormai da anni. Si avvicina alle strategie di comunicazione contemporanee grazie ad Artissima, fiera sperimentale che considera casa e palestra. Grazie ad ARTECO ha messo il proprio mestiere al servizio di enti del calibro di CAMERA – Centro Italiano di Fotografia e della Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino, che hanno forgiato il suo legame quasi simbiotico con l’entità-museo. Nel 2018, l’arrivo al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea (e Villa Cerruti), ha consolidato una vocazione ormai impossibile da ignorare, destinata ad arricchirsi di importanti esperienze: dopo un anno alla guida di Fondazione 107, Torino, oggi Daniele è responsabile dei servizi educational e del Public Program di Fondazione FILA Museum, Biella, aggiungendo un tassello fashion a una carriera che ha fatto della crossmedialità la propria missione.

Tracey Emin, Good smile great come (2000) SHIT AND DIE, Palazzo Cavour, Torino 2015 Courtesy Daniele Licata
Tracey Emin, Good smile great come (2000) SHIT AND DIE, Palazzo Cavour, Torino 2015 Courtesy Daniele Licata

MATTEO GARI: Ti sei diplomato all’Accademia Albertina di Torino in Comunicazione e Valorizzazione del Patrimonio artistico contemporaneo. In virtù del ruolo professionale che svolgi, come valuteresti la formazione fornita da questo percorso di studi?

DANIELE LICATA: Una formazione specialistica e una solida cultura generale sono imprescindibili per approcciarsi a questo mestiere. Ho un bel ricordo dell’Accademia, luogo dove ho incontrato figure che hanno segnato profondamente il mio approccio al contemporaneo. Alcune in modo negativo, devo ammettere (ride, NdR). Altre, invece, mi hanno indicato la strada: penso a Maria Teresa Roberto, storica dell’arte e curatrice indipendente, in assoluto una delle persone più acculturate e luminose che abbia mai conosciuto. Le sue lezioni e il lavoro al suo fianco in sede di tesi (ma ora posso dirlo: fuori corso non ci vado più!) hanno ampliato la mia visione delle cose in maniera radicale. Non l’avevo mai messo nitidamente a fuoco, ma proprio adesso, mentre ne parliamo, mi rendo conto che nei suoi corsi Maria Teresa ha sempre coniugato dialettica e solidità dei contenuti ad una marcata, personalissima gestualità. In qualche modo, per me costituiva già un inconscio modello di mediazione.

Durante il biennio già lavoravo, e le esperienze maturate (anche all’interno di contesti prestigiosi) iniziavano a rivelare l’ossatura di un meccanismo accademico nel senso più deteriore del termine: superato, fantasmatico, in una parola (la scelgo con molta cura, è parte integrante del mio lavoro) vecchio. Ad un certo punto ho avuto la triste rivelazione: consultare e-flux o leggere Mousse mi appariva molto, molto più formativo. Al pari di Instagram, che se usato con accortezza può essere un mezzo altamente educativo.

M.G.: Cos’altro ti ha formato al di fuori del contesto accademico?

D.L.: Il duro lavoro e l’esperienza sul campo. Se c’è una cosa che rende unica la professione del mediatore è proprio accorgersi che non solo dovrai sempre studiare, aggiornarti e migliorare, ma soprattutto dovrai imparare tantissime soft skills, che nessun libro ti insegnerà. Mi ha formato la relazione con gli spazi: quando ero assistente di galleria a Praga – nelle sedi di FUTURA e Karlin Studios – ho passato il primissimo periodo unicamente a spazzare e lavare per terra. I primi giorni mi parvero tremendamente frustranti, ma al termine della prima settimana fui lasciato libero di accogliere e accompagnare visitatori e turisti. Fu molto formativo, soprattutto perché fu una lezione di umiltà in un ambiente spesso egotico. Al di là dell’aneddoto puramente personale, posso dire che un bravo mediatore cerca di migliorarsi quotidianamente, è colui che non si ferma al mero studio. Credo che un bravo mediatore debba guardare moltissimi film e serie (su quest’ultimo dettaglio ammetto di essere lacunoso), ascoltare musica senza che per forza gli piaccia, essere aggiornato sulle sfilate e perché no, anche sui meme del momento. Mi hanno formato tredici anni di teatro – sì, dai, questo scriviamolo.

M.G.: Qual è il ruolo del mediatore culturale?

D.L.: Ho sempre pensato di essere un ponte tra l’opera e il pubblico. Non siamo guide: certo, in alcuni contesti possiamo esserlo, ma di base si parla di due professioni completamente diverse. Di due figure che sviluppano parole, gesti, scelte linguistiche differenti. Di norma una guida museale conduce il visitatore alla scoperta di un percorso espositivo. Il mediatore è qualcosa di più sottile, si frappone tra te e l’opera con l’intento di cercare di instaurare un dialogo, uno scambio (non per forza di sole parole) che conduce al vissuto di un’esperienza. In tal senso, l’incontro con il Castello di Rivoli e la definizione di Artenauta sono stati lampanti, perché hanno messo in luce sia la complessità del ruolo, sia la necessità di identificarlo con un neologismo. Alla luce di queste considerazioni, quello che mi ripeto ogni volta è: ‘beh, io sono qui, se vuoi possiamo creare un ponte, colmare il gap tra noi e quest’opera che può apparirci incomprensibile. Se ti va, lo facciamo insieme’. E se si può, lo si fa divertendosi: la mediazione ha per me una dimensione teatrale, a volte persino cabarettistica, perché i musei sono luoghi bellissimi ma basilarmente noiosi, ed è per questa ragione che tento – laddove si può – di trasformarli in dispositivi di entertainment.

Sandy Skoglund: Visioni ibride, CAMERA - Centro italiano per la fotografia, Torino 2019 - Daniele Licata - Courtesy CAMERA - Centro italiano per la fotografia
Sandy Skoglund: Visioni ibride, CAMERA – Centro italiano per la fotografia, Torino 2019 – Courtesy CAMERA – Centro italiano per la fotografia

M.G.: Che contributo può dare un mediatore culturale in un periodo, come il nostro, in cui gli spazi espositivi vanno necessariamente ridiscussi?

D.L.: Mi auguro che questo delicato momento di ripensamento degli spazi (espositivi e non solo) possa agevolare un riconoscimento della figura del mediatore. Un attore capace di raccontare opere e mostre, ma anche di veicolare la fruizione dei percorsi, è ottimale nell’epoca del necessario distanziamento sociale. È un momento cruciale per il comparto culturale: lontani dalla bellezza dell’arte, possiamo finalmente avvertirne la necessità. Al tempo stesso, riconosciamo la funzionalità di coloro che la valorizzano. L’abbiamo fatto verso coloro che hanno saputo organizzare contenuti digitali di qualità, la speranza è che ciò accada anche con i mediatori. È un argomento delicato: molti enti vorrebbero valorizzare l’educational, ma spesso mancano le possibilità materiali. Mi appello alla lungimiranza dei direttori, investite nella mediazione: nell’era della distanza dall’opera, affidatevi a chi sa tessere i giusti fili tra essa e lo spettatore.

M.G.: Ti senti tutelato a livello istituzionale? 

D.L.: Sì, esiste tutela solo laddove esista una contrattualità seria. Vale per ogni tipologia di professione.

M.G.: Quali sono state la migliore e la peggiore esperienze accadute in ambito professionale?

D.L.: Non mi vengono in mente esperienze particolarmente negative, questo conferma la bontà del percorso intrapreso. Di esperienze stupende ce ne sono state tante. Lavorare per una bella mostra è sempre appagante. Ma il nostro è un lavoro rivolto al pubblico, non bisogna dimenticarlo. Ogni volta che ho fatto sorridere o divertire qualcuno, ho saputo di aver fatto il mio dovere. Allo stesso modo, aver visto persone emozionarsi o commuoversi di fronte al racconto mi ha sempre inorgoglito, spronandomi a migliorare sempre di più come storyteller. Tendiamo a conservare bei ricordi di film, viaggi, concerti. Anche delle mostre, certo: ma c’è differenza tra ricordare una bella mostra e una bella visita museale. Ecco, negli anni so di aver fatto appassionare molte persone non solo al contemporaneo, ma in generale all’esperienza della mediazione. E questo, per quanto mi riguarda, è un privilegio.

Castello di Rivoli Museo d'arte contemporanea, sala degli stucchi, 2018. Fotografia di Federico Masini courtesy of Club Silencio - Daniele Licata
Castello di Rivoli Museo d’arte contemporanea, sala degli stucchi, 2018. Fotografia di Federico Masini courtesy of Club Silencio
Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, Pista del Lingotto, 2018 - Davide Licata
Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, Pista del Lingotto, 2018
Prix Pictet. Space - CAMERA - Centro italiano per la fotografia, Torino 2018 - Foto Andrea Guermani courtesy of CAMERA - Centro Italiano per la fotografia, Torino - Davide Licata
Prix Pictet. Space – CAMERA – Centro italiano per la fotografia, Torino 2018 – Foto Andrea Guermani courtesy of CAMERA – Centro Italiano per la fotografia, Torino