NESSUN PIANO B!

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COLLETTIVO PIANO A X FRANCESCA DISCONZI

Collettivo Piano A nasce a Milano da un’idea di Francesco Perrini e Alvise Decastello. 

La scelta del collettivo permette ai due artisti di esprimersi in modo altro rispetto alle loro personali ricerche, dando loro un pretesto per portare avanti nuovi ragionamenti condivisi. 

La loro prima esposizione sul territorio milanese si è svolta in un minimarket etnico: l’allestimento site specific guidava l’occhio del fruitore di passaggio non solo sulle opere, ma anche sui prodotti esposti e sul luogo stesso.

La logica site specific – che coinvolge dunque l’intera città di Milano – ritorna in progetti successivi come Deliverarte , pensato in modo lungimirante prima del Covid, in cui i due artisti, vestiti da rider, si proponevano di portare a casa delle persone delle piccole mostre (anche in questo caso site specific), mettendosi in comunicazione altri artisti e acquirenti. 

Parlerò con loro di arte e di condivisione: 


Francesca Disconzi: Un collettivo è una sorta d’identità condivisa che contrappone l’egocentrismo dell’artista singolo a un’idea di comunità e condivisione. Come vi siete conosciuti e com’è partito tutto?

Piano A: Sicuramente quello che hai detto è vero, infatti entrambi coltivando il progetto del collettivo svolgiamo una ricerca che si distacca completamente da quella personale, creandone una parallela che tiene attiva la nostra creatività e crea un dialogo oltre che con noi, anche con la città che ci ospita.

Parlando di Milano, nel 2018 vi ci siamo trasferiti entrambi per concludere il percorso accademico e soprattutto perché questa città era vista da entrambi come il polo artistico della penisola. Essendo entrambi dei fuorisede è stato più facile conoscersi e fare gruppo, soprattutto inizialmente visto che le problematiche erano simili per entrambi. Nel susseguirsi di questo rapporto e visti i reciproci interessi si è instaurata un’amicizia che ha portato poi al consolidamento del duo artistico che ha il fine di esplorare una nuova visione e approccio al lavoro.

Il collettivo dunque è un progetto nato con la voglia di realizzarsi in maniera attiva ed autonoma, scardinandosi dai vincoli accademici e creando un dialogo con la città.

F.D.: Il vostro interesse è principalmente rivolto alle zone periferiche della città di Milano. Credete che lavorare in distretti urbani difficili possa attribuire all’arte il ruolo di strumento di riqualificazione? 

P.A.: Il nostro interesse non è solo concentrato nelle realtà di quartiere, ma è esteso a tutta la città come dimostrato dall’ultima esibizione “Deliverarte”. Inizialmente abbiamo deciso di lavorare nelle zone periferiche perché sono le realtà che abbiamo vissuto di più da quando viviamo a Milano e in loro abbiamo ritrovato luoghi che hanno stimolato l’interesse del collettivo.

Per rispondere alla tua domanda, innanzitutto bisognerebbe definire il concetto di arte e capire di che intervento si tratta (potrebbe essere un murales, una scultura, una esibizione, un concerto, una performance, etc) e in che area urbana lo si sta attuando.

Crediamo comunque che l’arte non abbia questo enorme potere: quello che fa è sicuramente attirare l’attenzione delle persone. Le esibizioni o gli interventi creano un ambiente condiviso tra gli abitanti del luogo, aprendolo a più visioni e invitando a visitare lo stesso. Un intervento in una zona periferica ha più risonanza rispetto alle molte proposte che si possono trovare in un centro urbano, perché sarà uno dei pochi esempi nella zona.

In questo caso non è solamente l’evento a modificare il tessuto urbano con il quale va ad interagire, ma è la stessa realtà periferica a contaminare la performance creando un dialogo che genera riflessioni singolari.

F.D.: Durante una nostra chiacchierata mi avete detto che la vostra prima esibizione ha portato – oltre al flusso di persone – anche un vantaggio economico al minimarket etnico in cui è stata realizzata. Qual è, secondo voi, la chiave per creare un rapporto virtuoso con la comunità tramite l’arte, o più in generale, tramite le buone pratiche?


P.A.: Questa è la domanda più difficile dell’intervista, cercheremo di rispondere in base alla nostra esperienza.
Per quanto riguarda l’intera comunità è difficile poter interagire con tutti nello stesso modo, ma è possibile a nostro avviso creare un rapporto con delle microculture all’interno di essa.
Nel nostro caso noi, prima di realizzare l’evento a “Jaisha Alimentari”, ci siamo preoccupati di conoscere i proprietari e di instaurare con loro un rapporto che si è poi evoluto in una fiducia reciproca.
Questo ha poi permesso la creazione di un evento che rispettasse entrambe le parti, portando un ritorno economico al proprietario e a noi la possibilità di esporre in luogo di nostro interesse.

Quindi non abbiamo la risposta alla tua domanda, ma pensiamo che un punto chiave possa essere il dialogo e l’ascolto reciproco.
 

F.D.: Arriviamo a parlare di Deliverarte. In questo caso l’interesse per il site specific si allarga all’intera città. So che il progetto è nato prima della pandemia, nonostante possa sembrare che ne sia una conseguenza, ce lo potete raccontare? Com’è stato accolto?


P.A.: In realtà il progetto è stato concepito a gennaio 2020 e doveva essere realizzato per il mese di maggio in successione ad un’altra esibizione che si sarebbe dovuta svolgere ad aprile. Purtroppo a causa dell’emergenza Covid-19 i nostri piani, come quelli di molti, sono cambiati e abbiamo dovuto reinventarci, trasformandolo in un progetto in realtà aumentata.

Successivamente Deliverarte si è sviluppata uscendo dagli schermi dello smartphone per arrivare direttamente a casa delle persone. Uno dei protagonisti dell’esibizione è la figura del Rider dei delivery food. L’evento è cominciato con una fase progettuale per poi creare un bando di partecipazione diviso in due categorie: la prima prevedeva una candidatura online di quindici artisti, identificati da ora in poi con l’appellativo di produttori. Dopo questa prima fase di selezione, la seconda fase consisteva in una piattaforma online di e-commerce dove era possibile ordinare i lavori che si preferivano, e successivamente riceverli comodamente a casa propria riposti in appositi cartoni della pizza, parte integrante del lavoro. Le consegne sono state effettuate da parte nostra nelle vesti dei Rider di Piano A per l’intera aera metropolitana di Milano. Abbiamo giocato con le grafiche e il vestiario dei famosi brands di deliveryfood restituendone una versione personale, con giacche e zaini customizzati con il nostro logo. La figura del rider è diventata protagonista sgretolando l’anonimato che di solito avvolge il passaggio tra produttore e consumatore, elemento che contraddistingue l’acquisto online. Il semplice click, cambia totalmente forma, andando ad attivare una serie di reazioni delle quali il collettivo si è preoccupato di rendere partecipe il ricevente. La performance voleva essere una nuova opportunità di incontro tra artisti e spettatori, aprire dialoghi e creare una connessione tangibile che in questi mesi stava venendo meno.

L’esibizione non voleva in nessun modo ridicolizzare l’utilizzo di queste applicazioni di delivery food, piuttosto voleva concentrare l’attenzione sulla potenza mediatica generata dalla controversa figura del fattorino ed andare a proporne una nuova versione propositiva di rider/artista dell’inventiva, affinché non si pensi che l’arte possa essere fruibile solamente in un luogo materiale, ma che possa arrivare in casa ed interagire creando relazioni concrete tra le persone.

Il progetto è stato ben accolto e abbiamo ricevuto richieste anche al di fuori della città.

Volevamo aggiungere che questa esibizione è stata promossa e finanziata completamente dal collettivo e per questo la partecipazione era gratuita.

F.D.: Deliverarte è un progetto che può avere un’evoluzione? Può secondo voi creare un precedente replicabile in altre città?

P.A.: “Deliverarte” è un progetto in evoluzione che si apre sempre a nuove realtà e possibilità di dialogo.
Sicuramente questa esibizione può creare un precedente replicabile in altre città, d’altronde come collettivo non ci siamo mai confinati solo a Milano, ma il nostro obiettivo è di dialogare con più spazi e realtà possibili.

F.D.: Quanto bisogno c’è ad oggi di creare una solida comunità artistica e come credete che questa piccola utopia si possa realizzare?

P.A.: Come hai detto tu, pensiamo che questa sia un’utopia, ma non solo nel campo delle arti visive, ma per l’arte in generale.

Chi fa arte, nella maggior parte dei casi, vuole essere visto, scoperto ed ascoltato, ma non è disposto a prestare attenzione ai progetti altrui. Quindi oltre a non esserci un’idea di comunità, abbiamo notato che non c’è nemmeno un interesse nel crearla.

Ovviamente ci sono varie eccezioni e persone che si interessano al lavoro degli artisti, ma questi solitamente non sono gli artisti stessi, ma individui che potremmo identificare come pubblico nel mondo dell’arte. Tra gli artisti, abbiamo notato a volte, crearsi una sorta di implicita competitività malsana che allontana sempre di più l’idea di una comunità artistica solida.