MONDI PULVISCOLARI E IDENTITÀ FRAMMENTATE

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ALICE MESTRINER E AHAD MOSLEMI X VIRGINIA VALLE

Riscoprire tracce d’identità nella polvere e ricercare un senso nella realtà plurale ed effimera che l’uomo attraverso il linguaggio cerca invano di definire, sono alcune delle indagini condotte da Alice Mestriner (Treviso,1994) e Ahad Moslemi (Teheran, 1983), duo artistico che dal 2016, attraverso installazioni e performance, lavora sull’identità, il linguaggio e il tempo. 

Se vi trovate a Torino, potrete vedere le loro opere esposte allo spazio via Gulli 37 da giovedì 18 febbraio e se volete dare un contributo al loro lavoro, portategli della polvere, ne sono sempre alla ricerca!


Virginia Valle: Vi siete incontrati per la prima volta in Canada nel 2016. Come è nata la volontà di collaborare come duo artistico?

A. Mestriner, A. Moslemi: A volte capita di riconoscersi da lontano. Crediamo sia stata un’attrazione empatica. Entrambi stranieri in una terra lontana. Io (Ahad) stavo terminando i miei studi all’università dove Alice era venuta a fare il tirocinio nella galleria della stessa Università. Un giorno a causa di un progetto abbiamo fatto un viaggio a New York, nel quale abbiamo avuto modo di parlare e confrontarci molto. Due stranieri lontano da casa hanno molto da dirsi. L’arte, il viaggio e la scoperta sono state le cose che ci hanno uniti e ci portavano a creare progetti ed immaginari sorprendenti. Tornanti in Canada capitava di incontrarci spesso alle inaugurazioni delle mostre. Dopodiché i nostri incontri e i nostri scambi sono continuati e le conversazioni ci hanno portati a ripartire. Prima siamo andati a nord per incontrare i nativi Atikamegw a La Tuque, con la nostra cara amica Lorraine Beaulieu al tempo direttrice artistica della galleria. Poi, in un’avventura verso il dark side degli Stati Uniti, che ha portato alla generazione di un nostro progetto. Ecco il dialogo ci ha portati qui.

V.V.: Uno dei temi cardine del vostro lavoro è la ricerca di senso all’interno di una società che seppur in continuo mutamento cerca senza sosta di definirsi. Come si concretizza questa ricerca?

A.M., A.M.: La parola senso porta con sé una domanda implicita e complementare –perché-. L’unione delle stesse compone e scompone il sistema mondo e tutte le sue manifestazioni.

Analizzare questo concetto è esattamente ciò che ci permette di prendere prima la rincorsa per poi tornare al punto. Il senso è un processo e un attivatore, perciò è il meccanismo che concretizza e da fisicità all’aspettualità del mondo e al suo schizofrenico comportamento. Il senso è inoltre illusione relativa a ogni individuo e a causa di questo relativismo l’uomo è costretto a vivere accanto ad un altro suo simile ma, che possiede un’illusione-relativa diversa. L’atmosfera che si genera è un campo di conflitti linguistici ed ermeneutici che plasmano una realtà altrettanto conflittuale. Ma il senso persiste, perché è un atto di resistenza al quale ciascuno di noi si relaziona in maniera culturale e cultuale e inoltre condotto dalle redini di un linguaggio arupico* con appannate direzioni, tutte vere e tutte effimere. La creazione, la rigenerazione e l’interpretazione continua dei significati e dei valori, -quindi del senso-, è un mero atto di vanità e di resistenza compiuto dall’uomo. La forma del senso è la polvere e nella polvere.

* L’arupa è una parola del linguaggio Hopi che significa l’informe, ovvero la potenzialità della vaghezza che lascia aperta la possibilità di comprendere e di creare.

V.V.: Il vostro interesse è anche orientato all’osservazione e all’analisi dei comportamenti individuali e collettivi, che vanno a costituire quella che può essere definita un’identità personale o sociale. Quest’indagine antropologica ha preso corpo in numerose opere, la prima che mi viene in mente è La tela di polvere (2020). Potete raccontare qualcosa di quest’opera e di come affrontate il tema dell’identità nei vostri lavori? 

A.M., A.M.: Questa tela è la creazione e la narrazione di un punto di sosta. Ovvero una pausa durante la quale si è invitati ad osservare e riflettere. È il luogo in cui viene esposto uno studio dei comportamenti e una messa in evidenza di quella che a nostro avviso è la condizione umana, costretta a vivere periodicamente e ciclicamente, a scansioni regolari, momenti colmi di nuove illusioni e periodi di totale disillusione. All’interno dei quali le nuove aspettative, le nuove definizioni e i nuovi ideali cadono a terra, nella gittata di una vana speranza nel futuro. La tela di polvere cerca di tessere insieme tutte le micro verità e i micro-mondi identificati e ritrovati nella polvere, costituiti dai singoli individui che generano la pluralità attuale. All’interno di questa tela sono intessute assieme diverse famiglie, identità e realtà. Ma, inevitabilmente il tempo è protagonista sia dell’opera che della sua stessa trasformazione. I fili tesi della struttura del telaio sono come le asticelle di un abaco, la cui unità di calcolo è il quantitativo di tempo passato e l’accumulo di un’archeologia di tracce e frammenti. Al suo interno non esiste una gerarchia, ma una mescolanza, un’esistenza e coesistenza di elementi. 

Ciò mostra la condizione di un uomo che vive immerso in una pluralità di valori, di informazioni e della frammentazione della verità, non più unica e dogmatica, ma multipla e relativa, sommaria ed esclusiva allo stesso tempo. Creare a partire da uno stato di esistenza ormai avanzato -la polvere- è sintomo di un atto di resistenza contro la stessa natura mortifera del mondo, nella misura in cui siamo tutti soggetti all’azione del tempo. 

La tela non fornisce risposte ma annota ancora un altro comportamento. Uomo e coscienza, società e natura formano un chiasmo non convergente, ma divergente per natura, dove il tempo è fattore caratterizzante in cui l’uomo vive il conflitto.

L’identità? L’identità è un insieme di frasi, visive o linguistiche; una definizione già smentita.

La Tela di Polvere, filo e polvere, 2020 – courtesy of the artists
La Tela di Polvere, dettaglio – courtesy of the artists

V.V.: Avete definito la polvere come “un archivio della nostra vita”. Che ruolo ricopre questo elemento all’interno della vostra pratica? 

A.M., A.M.: La polvere è il mondo e la sua estensione. La polvere è come un dizionario con allegato un libro di grammatica impazzito. È un dizionario in cui si identifica il significante ma di cui il significato si è perso o sta per perdersi. Quando sta-per-perdersi ha la possibilità di mostrare la traccia di ciò che è stato e porta sempre e comunque con sé il sintomo del suo futuro. Il ritorno al frammento, al punto, all’atomo, al niente. La polvere è come il linguaggio arupico, ha la possibilità di riformare l’informe e di rigenerare le sue forme. Incrociando altri frammenti ricrea nuove forme. Possono accadere molti errori ortografici al suo interno ma è dall’errore che nasce una nuova fase, un nuovo incontro e una nuova evoluzione/trasformazione dello stesso, o degli stessi. Come i reagenti in un composto chimico impazzito. Ci è piaciuta molto una riflessione del fisico-filosofo Charon il quale sostiene che due cellule morte accostate generano un sistema vivente. La polvere è questo e possiede la caratteristica di ciò che amiamo definire l’estetica dell’immortalità, esatto riflesso del sogno contemporaneo. Non c’è nulla di più completo della polvere non è solo oggetto ma è anche soggetto, è il mondo e l’individuo. La polvere è un materiale fortemente identitario la polvere contiene pelle, capelli, peli, residui di cibo, stoffa, insetti, microbi, elementi vegetali e non, contiene materiale terrestre ma anche extra-terrestre perché contiene micro frammenti di stelle e meteoriti. Per questo motivo lo definiamo un sistema vivo e aperto. La polvere è decostruzione del mondo e costruzione dello stesso. Distruttiva e creativa assieme. È infinita, perché anche quando apparentemente scompare, esiste ancora sotto un’altra sfera del visibile. È manifestazione del valore dell’oblio, che da spiegazione a tutte le azioni.

Still the life, polvere, installazione- courtesy of the artists
Futuro Anteriore Polvere, installazione, 2020 – courtesy of the artist
Studi – courtesy of the artist

V.V.: La dimensione temporale è sempre sottesa alle vostre opere. Come si coniuga con la ricerca sull’identità?

A.M., A.M.: Il tempo è l’asse entro cui si annotano gli sviluppi delle cause, i fatti. Il tempo è il palcoscenico in cui si manifestano le trasformazioni e i mutamenti. Nella nostra ricerca a volte appare con la fisicità di un luogo. L’Identità invece è la corrispondenza di una definizione verbale, quindi concettuale di un’immagine della realtà. Ma come è possibile nominare e definire se l’ambientazione di tutti gli eventi è il tempo quindi l’elemento trasformatore? Le immagini e le definizioni hanno sede e devono avere sede solo nella memoria e in memoria del passato. Ecco perché abbiamo sentito la necessità di riformulare i tempi verbali con il progetto New Grammar. L’identità, quindi, la definizione di una qualsiasi cosa non è possibile descriverla se non in un tempo passato. Il passato è l’unica forma verbale e tempo che possono beneficare della definizione e di una ipotetica identità. Il tempo verbale del presente è un tempo processuale e quindi indicibile mentre il futuro è una tensione al divenire, una volontà, un impulso istintuale della materia e del soggetto. Quindi identificabile nel nome della volontà e della speranza.

In questo contesto ne deriva un’identità definita dal tempo, dal contesto e dalla parola, cambiando e definendosi quindi nel processo. Il progetto A=A, = ci parla esattamente di questo.

V.V.: Nella performance We are I (2018) così come nell’istallazione Abitudini ripetitive: Ultima cena (2019) viene affrontato il tema del linguaggio e delle sue differenti possibilità interpretative. Dove vi ha portato questo tipo d’indagine?

A.M., A.M.: We are I è stata ed è prima di tutto un’esperienza, poi una performance. Ma, We are I è anche una vostra esperienza, la vostra vita. Sì, è vero che nei regimi la cosa diventa più evidente ma a causa della sua evidenza fa aumentare spesso il grado di consapevolezza nelle persone, ma quando le strategie e le strutture di certi atti linguistici sono più sottili e meno evidenti cosa succede? Chi risulta più colpito da questi giochi della lingua? Chi ne ha più consapevolezza e conseguentemente più libertà nel creare, articolare i propri pensieri e la propria identità? Forse una risposta definita non c’è ma è importante essere consapevoli degli effetti di questa sottile ma tagliente arma creatrice e manipolatrice. E sì, quello che succede in Abitudini ripetitive: Ultima Cena che mostra come il linguaggio porta con sé il significato ma anche il suo contrario; l’efficacia della lingua ma anche il suo possibile fallimento. Come ad esempio la posizione del povero Giuda nella storia che, può assumere posizioni o significati opposti. Il linguaggio e le immagini possono creare dei cortocircuiti attraverso i loro significati e le nostre abitudini ad entrambi. L’abitudine alla logica linguistica – che crea il significato – può creare inganni. Come il famoso esempio: è più rossa una rosa rossa o una rossa rosa?

Abitudini ripetitive: ultima cena, Polvere e materiali organici 2019 – courtesy of the artists
Abitudini ripetitive: ultima cena (dettaglio) – courtesy of the artists

V.V.: Il 2021 è appena cominciato ma una vostra opera è già esposta alla Galleria Elena Cantori Contemporary di Trieste all’interno della mostra Il limes e l’invasione. Di che si tratta?

A.M., A.M.: Per questo dobbiamo ringraziare prima di tutto Iodeposito ed Elena Cantori per aver reso possibile questo evento. In questa mostra abbiamo presentato Albero a Gomiti, un’installazione cinetica che abbiamo realizzato durante la residenza B#S War organizzata dall’associazione Iodeposito. Durante il periodo di residenza a Tarvisio, città di confine o meglio di confini, abbiamo svolto un’indagine etnografica sulla storia e la cultura locale. Da secoli e secoli la Val Canale è stato territorio di conflitti e invasioni che hanno lasciato e portato tracce e conseguenze nell’aspetto della città e chiaramente nella cultura stessa. Questo continuo spostamento e ridefinizione del confine è stata come una calamita per noi. Portandoci a considerare gli effetti che questi ‘’piccoli spostamenti’’ repentini dei confini ricadevano conseguentemente sui cittadini e sulla loro identità che a periodi alterni si ritrovavano appartenere all’Austria, alla Slovenia o all’Italia. 

Le persone restavano ferme nelle loro posizioni, ma la loro lingua cambiava, le loro leggi pure, le tasse, la cultura. ‘’A chi apparteniamo? Noi non ci siamo spostati’’.

Albero a Gomiti è quindi un motore, un mescolatore di terre. 

All’interno di un motore l’albero a gomiti è cuore e trasformatore del movimento. Acquista energia e la trasforma in azione. Ci siamo serviti di questa sua funzione come metafora del nostro progetto, in cui meccanismo ed ingranaggi sono gli Stati e i sistemi di potere e la terra è la rappresentazione degli effetti che influenzano di conseguenza la storia, la cultura e l’identità. 

È possibile suddividere il progetto in due parti ben riconoscibili: la struttura meccanica e la piattaforma che rappresentano la causa e la conseguenza di un’azione. 

La terra contenuta nella piattaforma è costituita da tre terricci diversi: austriaco, sloveno e italiano. Queste terre continuano a mescolarsi assieme con il lento e costante movimento del meccanismo. Ciò che è accaduto nella storia del paese, MA NON SOLO. Albero a gomiti è il lento movimento e trasformazione culturale che le terre di confine e le invasioni portano. 

Albero a Gomiti, Installazione, componenti meccaniche ed elementi organici, 2020 Progetto di fine residenza, B#S War, Tarvisio – courtesy of the artists

V.V.: Recentemente avete anche risposto alla call indetta dallo spazio di Via Gulli 37 a Torino. 

A.M., A.M.: Sì, Via Gulli 37 è stato un buon incontro. Troviamo stimolante intervenire direttamente negli spazi e poter cercare un dialogo con lo stesso. La mensola che spartisce lo spazio bianco e il soppalco in legno hanno catturato la nostra attenzione, pensando al progetto Abitudini Ripetitive. Vogliamo proporre una versione-Gulli. Al momento conosciamo gli ingredienti ma non la loro articolazione. Lasciando questo aspetto aperto al dialogo con lo spazio. Via Gulli 37 apre le sue ante/porte ed invita ad entrare e a farsi scoprire. Questo vorremmo fare anche noi.

V.V.: Avete altri progetti in programma per questo 2021?

A.M., A.M.: Sì, stiamo lavorando alla progettazione di due mostre che – incrociamo le dita – speriamo vadano a buon fine considerando l’attuale situazione. Quest’estate saremo ospitati da RAH Residency a Teheran per ricercare su un’ipotetica genealogia del Medio Oriente del tema dell’oblio.