QUELLO CHE NON C’È

  • Categoria dell'articolo:Osservatorio

FRANCESCO SOLLAZZO X FEDERICO PALUMBO

“Dopo aver accampato ipotesi care a molti, sarà meglio interpretare i simboli graffiti secondo i dettami della scienza. Il segno circolare che racchiude una minuscola coppella, è la classica raffigurazione dell’astro allo zenith, classica perché comune a molte civiltà preistoriche. L’incisione poco più in alto, dove appare un semicerchio, lo indica al tramonto, mentre quella in primo piano dovrebbe essere l’alba. Forse il sole è stato disegnato più grande perché il momento in cui sorge è sempre stato estremamente sacro e solenne. L’alba significativa che, almeno ancora per quel giorno, la terra non sarebbe rimasta immersa nelle tenebre. Il tramonto al contrario, rappresentava un momento cruciale. Sprovveduti e indifesi com’erano, gli uomini dovevano vivere nel terrore di non veder più spuntare l’astro il giorno seguente. Ed  ecco i cinque personaggi del graffito in posizione di adorante supplica perché non scompaia all’orizzonte. Forse l’uomo disteso per terra è addirittura una vittima offerta in olocausto per placare le sue divine collere. […] Se vogliamo seguire la versione UFO, dobbiamo tornare indietro di molti secoli, fino alla preistoria, per risalire al primo avvistamento, tornare al neolitico. […] Sono in molti ormai che asseriscono senz’ombra di dubbio che questo graffito rappresenti un vero e proprio attacco dallo spazio[…]. Tre omini levano le braccia verso il cielo, uno di essi pare inginocchiato o comunque reclinato su un lato, un altro ancora è riverso per terra, forse morto (di paura); nel cielo sopra le loro teste sono raffigurati tre soli di dimensioni diverse di cui uno solo è un disco mentre gli altri due sono tracciati soltanto con metà della corona: un po’ come se un bambino volesse disegnare un disco volante…” .1 


Senza titolo (Spaziale), 2020 – in corso. Courtesy l’artista

Oltre ad essere uno splendido svarione pseudoscientifico, questo estratto di un testo a firma di  Giuditta Dembech, potrà sembrare strano, è l’incipit necessario per introdurre il lavoro – o meglio, parte del lavoro – di Francesco Sollazzo. 

Tempo fa l’artista ci inviò una mail chiedendo i contatti di Davide La Montagna per poterlo conoscere, e ci allegò il suo portfolio. Attirò subito la nostra curiosità. Iniziai così ad approfondire ciò che ci aveva appena mandato. Inizialmente feci un po’ di fatica a muovermi all’interno della sua ricerca: disparata a livello di proposte e di medium. Colsi però fin da subito una (simil)costante: la volontà di esprimere l’invisibilità dei rapporti umani e quindi della vita stessa, dell’esistenza. Evaporare attraverso gesti minimi e mai invasivi… ed ecco svelato l’interesse per  Davide La Montagna, altro artista che, in qualche modo, si muove su binari simili o comunque non del tutto paralleli.  

Ma andiamo per gradi: mi colpì, in particolare, l’ultima serie presente nel suo portfolio, individuando immediatamente tematiche a me davvero troppo care, che ho cercato di approfondire durante i miei anni accademici. Quelle bandiere color blu scuro con al centro simboli strani, esoterici, fantascientifici, mi conquistarono. L’artista ha iniziato a realizzarle durante una residenza in Puglia, ripescando così la simbologia che sta dietro – o alla base – ai trulli pugliesi. Allego l’abstract del progetto: “L’archeologia misteriosa e la teoria degli antichi astronauti iniziano a diffondersi a partire da metà del XX secolo, un controverso filone che si propone di studiare le origini delle antiche civiltà utilizzando teorie e metodi spesso non accettati dalla comunità scientifica e che ipotizza la visita di civiltà extraterrestri sul suolo terrestre in tempi remotissimi. Peter Kolosimo è stato un pioniere di  questo filone, scrittore e giornalista è stato uno degli scrittori italiani più popolari negli anni settanta, pubblicato e tradotto in sessanta paesi nel mondo. Le incisioni in Val Camonica in provincia di Brescia. Le incisioni presso il Monte Musinè in Piemonte vicino a Torino. Le statue stele rinvenute nel territorio della Lunigiana Storica. Pinnacoli e simboli dei trulli nel territorio pugliese. Sono alcune delle tracce che nel corso del tempo Kolosimo ha individuato e presentato come ipotetiche prove, a sostegno della teoria degli antichi astronauti, presenti nel territorio italiano. Nel 1975 un team di grafici e designer: Bob Norda, Roberto Sambonet, Pino Tovaglia coordinati da Bruno Munari, realizzarono la stilizzazione della rosa camuna, una delle più famose incisioni della Val Camonica e venne adottata come stemma della Regione Lombardia. Nel 2019 lo stemma è diventato anche bandiera ufficiale. Ho realizzato delle bandiere, riprendendo e stilizzando le tracce segnalate da Kolosimo”.  

Senza titolo (Spaziale), 2020, bandiera in poliestere nautico, 100 x 70 cm. Courtesy l’artista

Mi ritorna in mente la passione di Gino De Dominicis per gli Anunnaki, per la civiltà sumera e per  le teorie pseudoscientifiche che gravitano attorno ad esse, e in particolare per lo scrittore Zecharia Sitchin (l’unico libro che possedeva in casa, si narra, era appunto Il Pianeta degli dei. Le cronache terrestri). L’ultima parte della sua produzione, infatti, vira violentemente verso tali questioni. Si pensi alla serie dei Pianeti, o alle strane figure/presenze immortali che paiono appena scese da una ipotetica navicella spaziale. O, ancora, alla stilizzazione dei simboli carichi di rimandi ultra terreni (la svastica, la croce e la x, ad esempio). Una ‘inscrizione’ presente in una sua opera del 1990-1995, sopra un Pianeta, recita emblematicamente: “L’universo è immobile. I Sumeri sono stati iniziati da una civiltà extra terrestre”. La pseudoarcheologia diventa vaso primordiale dal quale prelevare quantità di tematiche inerenti all’origine dell’universo, e della vita, potenzialmente senza fine. Da qui l’idea che la nascita e lo sviluppo umano-tecnologico sulla Terra fosse una conseguenza diretta di una sorta di colonizzazione aliena proveniente dal pianeta Nibiru (gli  Anunnaki, appunto, coloro che dal Cielo scesero sulla Terra). Se prendiamo in considerazione l’opera Senza Titolo (1997-98) possiamo creare un ulteriore collegamento con l’opera realizzata da Sollazzo, a sua volta presa dal graffito presente in Val di Susa: nella tela immersa in un rosso carico di rimandi simbolici, dietro a uno ziggurat – tempio/scala che sancisce ulteriormente il matrimonio tra Cielo e Terra, nonché possibile base d’atterraggio per navicelle aliene – e al dio ciclope Marduk (qui capovolto), sembra spuntare un sole ancora in dormiveglia ma  potenzialmente accecate. 

Sollazzo sembra dunque muoversi su una linea tracciata già in tempi non troppo remoti. Se non fosse che De Dominicis pare credesse davvero a tali teorie, mentre non si può dire lo stesso per Sollazzo. Egli, infatti, è più affascinato alla questione mitica. Il mito degli alieni e i suoi derivati:  l’archeologia misteriosa e la teoria degli antichi astronauti, in quanto miti moderni. “La ripresa e l’utilizzo del Simbolo si inscrive intorno al mio interesse verso il Mito, uno dei temi cardine della mia ricerca”, mi racconta l’artista. “Arte rupestre, territorio e cultura locale, mito e mistificazione, archeologia, fantascienza, graphic design, il simbolo: la sua forma minimale e la sua forza evocativa, etc. Desideravo sviluppare un progetto che riuscisse a condensare e sprigionare tutte queste tematiche. Un altro aspetto che mi interessa è anche quello della fantascienza come passaggio di genere della fiaba nella modernità…”. Insomma, uno sguardo privilegiato ce l’ha l’aspetto mitico simbolico, e ciò che tali teorie – con tutti i rimandi e le altre categorie culturali che vi rientrano – provocano nelle persone che ne hanno fede.  

Non è dunque importante credere se davvero al Monte Musinè fosse affiancata una base spaziale; fondamentale, piuttosto, risulta prendere in considerazione tutte le leggende e le trame storico-culturali che sono fiorite a causa di tali teorie; in altre parole ciò che Furio Jesi definisce come macchina mitologica (altra lettura consigliata dall’artista).  

A proposito del Monte Musinè: il mese di marzo ha inaugurato con una copertina realizzata da Sollazzo. Per l’occasione, l’artista ha presentato l’elaborazione della sua nuova serie di lavori che vede luce proprio a Torino. Per approfondire le varie tematiche mi ha prestato anche un libro, da cui ho preso l’estratto che apre questo approfondimento, e che racconta i vari simboli e graffiti sparsi per la Val di Susa, e in particolare attorno al Monte. Il simbolo che regge l’opera-copertina è estrapolato da un masso che si è poi rivelato un falso storico. Ecco, come dicevamo poco più su, chi se ne frega della valenza scientifica di tali graffiti. Non è ciò che interessa all’artista. Quel tramonto stilizzato o, per altri, un ‘attacco’ alieno protagonista dell’opera-copertina, è raccontato dalla stessa Dembech non senza un grado di fanatismo indubbiamente palpabile. Ridotto a zero,  invece, quasi chirurgicamente, nell’opera di Sollazzo. La serie della bandiere è quindi un mix di tutti questi concetti finora espressi: fanatismo e razionalità; simbolismo e sintesi. 

Furio Jesi definisce la Scienza del Mito come una scienza di ciò che non c’è, e proprio ciò che 2 sta alla base di tale concetto ci può servire ora per offrire una panoramica dell’opera dell’artista. In apertura scrivevo che Sollazzo sembrerebbe più interessato a evidenziare l’invisibilità dei rapporti umani e all’evaporazione degli elementi quasi impercettibili che reggono l’esistenza stessa, rendendoli protagonisti grazie a gesti mai invasivi. Di conseguenza, penso a Senza titolo (2017), ovvero la ripresa di un cielo terso estivo lucano, sgombro da nuvole, di un azzurro accecante e di una potenza, a mio avviso, incredibile. O, ancora, Amuleto o Ritratto di gruppo (2011): “A partire dal giorno dell’inaugurazione della mostra, i componenti del gruppo di lavoro (artista/i,  critico, curatore, gallerista, assistente, etc.), indossano il medesimo braccialetto. Questi fragili braccialetti continueranno a rimanere addosso e ad accompagnare nella vita queste persone, per chissà quanto tempo”. A tal proposito, l’artista mi racconta di un progetto a cui sta lavorando, che si inserirebbe perfettamente in una dimensione analoga a questa. L’invasività, sembra dirci, è da escludere a priori, quasi da boicottare. Meglio muoversi timidamente, per sottrazione, preferendo la potenza che un gesto minimo – nella sua forma – può finalmente sfoderare.  

Amuleto o Ritratto di gruppo, 2011, persone con braccialetti di cotone nero cerato. Dettaglio. Careof e Viafarini, Milano, 2011. Fotografia di Italo Zuffi. Courtesy l’artista

D’altronde l’arte permette tutto ciò: è sicuramente il campo in cui tali discorsi possono reggere. E, soprattutto, possono liberarsi dalla costrizione formale che, sempre di più ai giorni nostri, sembra settorializzare ogni opera, dal principio, secondo questi diktat. Ecco che collezionare le opere e le pubblicazioni di un artista finito nel dimenticatoio diventa gesto poetico, politico, patetico (nella  bellezza del termine). Ed è proprio ciò che Sollazzo realizza tramite il progetto/opera Rocco Menzella, artista appunto dimenticato dalla critica e dal pubblico, nonché suo parente (fratello di  suo nonno).  

A tale ‘filone’ si inscrivono le opere realizzate che riprendono le figure di Carla Lonzi e Pietro Consagra; Alighiero Boetti e Annemarie Sauzeau. Anche qui, il gesto minimo da parte di Sollazzo riesce a evocare l’amore che legava le due coppie e la sua fine. Nuovamente ciò che risulta essere, nella vita quotidiana, denso e fisico nonostante la sua immaterialità fisiologica (l’amore), può essere qui espresso o, meglio, evidenziato grazie alla sottrazione. Le sculture/installazioni di Consagra esprimono al proprio interno un vuoto che però è stato raggiunto grazie a diverse fotografie della Lonzi, le quali rimandano, a loro volta, a una presenza. O, ancora, l’installazione sonora che diffonde (ogni tre minuti di silenzio): “Sciogliersi come neve al sole pensando a te a noi” in ricordo di Boetti e Sauzeau. 

Roma, 9 maggio 1980 – a casa di Carla o Beh, adesso vai pure, 2014, installazione multimediale. Veduta dell’installazione presso Fondazione Pietro Rossini, Briosco (MB), 2014. Fotografia di Marcello Zerrilli. Courtesy l’artista
Senza titolo (Sciogliersi come neve al sole pensando a te a noi), 2011, installazione sonora. Veduta dell’installazione presso Foothold, Polignano a Mare (BA), 2016. Fotografia di Like A Little Disaster. Courtesy l’artista

Insomma, Francesco Sollazzo pare concentrarsi su aspetti ritenuti probabilmente secondari dall’arte contemporanea: l’amore; la sparizione; l’invisibilità; la timidezza. Cosa parecchio strana, se ci pensiamo meglio. Soprattutto in merito all’amore, ovvero la tematica che nelle altre discipline risulta essere ancora quella prediletta mentre, nelle arti visive, non ritenuta degna di approfondimento. 

Ecco che ricordare artisti “minori” si inserisce su questi binari. È un atto d’amore, per l’arte e per la vita. E rimodellare ed enfatizzare i simboli carichi di rimandi extra artistici/scientifici che si riversano nella vita di tutti i giorni delle persone che li conoscono, anche. Mi viene in mente, a questo punto del discorso, il giorno in cui ci siamo incontrati per meglio definire il taglio di questo approfondimento. Nonché tutti i progetti pronti per essere realizzati dall’artista. Alcuni in dirittura d’arrivo, altri ancora in fase di costruzione. Come tali, e per riprendere il modus operandi dell’artista, mi sembra adatto concludere questo articolo affidandomi all’invisibilità, e all’evaporazione. Parlando, quindi, di progetti non ancora nati. 

Di quello che non c’è.

https://www.francescosollazzo.com/

 Rocco Menzella, in corso. Ritratto fotografico tratto dal catalogo “Mondo di Menzella I Visi”, Galleria d’Arte Le Muse, Bologna, 1970. Courtesy l’artista
Senza titolo, 2017. Video, colore, muto, 1 min. Still da video. Courtesy l’artista
  1. G. Dembech, Il Musinè. Ipotesi, realtà e fantasie su una Montagna Incantata…., Edizioni L’Ariete – Le Chiavi Del 1 Mondo Magico, Torino (1983), pp. 15-17.
  2. Per approfondire: https://journals.openedition.org/mythos/pdf/996