TANTO LA LUNA E LE STELLE NON SERVONO

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UMBERTO CHIODI X MATTEO GARI

Mostrarsi (un progetto con Federico Forlani), 2019, hand drown animation
courtesy of the artist

Quando nel 1883 vengono pubblicati i Racconti Crudeli (Contes cruels), lo scrittore e commediografo Auguste Villiers de L’Isle Adam non avrebbe potuto immaginare quanto le sue parole avrebbero raccontato del mondo moderno. Il protagonista del racconto L’Affichage céleste, il Signor Grave, sogna di sfruttare la luce delle stelle, così da “elevare” il cielo all’altezza dei tempi moderni in cui vive. Per il dotto ingegnere, l’espressione di questa conquista della modernità sarebbe una Pubblicità Assoluta, impressa sulle stelle.
Le storie di Villiers, cariche delle atmosfere di Edgar Allan Poe, presentano le inquietudini della società positivista ottocentesca e mettono in crisi l’idea borghese di progresso. L’immagine di un sistema solare simile al mosaico di LED di Times Square è indubbiamente inquietante. Lo diventa ancor di più se quel futuro, che Villiers imaginava, non sembra essere poi così distante.
Le tensioni e le sofferenze della nostra società, pronta a sacrificare ogni sentimento e ogni bellezza, traspaiono nel lavoro di Umberto Chiodi (1981, Bentivoglio). I suoi disegni a china, gli assemblaggi e i collage, sono ricchi di suggestioni esoteriche e filosofiche e raffigurano un mondo ironico, feroce e tormentato in cui natura e modernità si confrontano.
Fino al 22 novembre 2020, al Mart di Rovereto, sarà possibile vedere esposto un suo Crossage del 2014 nella mostra After Monet, il cui focus è la dialettica tra fotografia e pittura.

Impromptu, 2020, tempera su carta, 32x24 cm - Umberto Chiodi - courtesy of the artist
Impromptu, 2020, tempera su carta, 32×24 cm – courtesy of the artist

Matteo Gari: Come si è strutturato il tuo percorso di formazione artistica?


Umberto Chiodi: Ho avuto un percorso scolastico lineare, dal Liceo Artistico all’Accademia di Bologna, e parallelamente ho coltivato interessi laterali, come la musica.


M.G.: I tuoi lavori sono dei segni insidiosi perché hanno un aspetto molto ironico e giocoso, ma nascondono dei discorsi che hanno anche dell’inquietante. Quali sono i tuoi riferimenti?


U.C.: La realtà e la virtualità che viviamo quotidianamente sono inquietanti e interessanti. Mi hanno cresciuto le fantasie letterarie preveggenti, quelle che problematicizzano il presente. Penso per esempio al caso ottocentesco dei Contes Cruels di Villiers de L’Isle-Adam e alla sua ironica, quanto allarmante, visione di una città moderna in cui il cielo sarebbe stato completamente coperto da proiezioni pubblicitarie. Faceva romanticamente il verso alla Tecnica , “tanto la luna e le stelle non servono”, a noi consumatori.


M.G.: Sul piano progettuale come lavori?


U.C.: La mia progettualità è legata alla reiterazione sensibile di un modus operandi, con l’obiettivo di sviluppare o esaurire le possibilità inerenti a una specifica pratica o linguaggio. Da questo approccio derivano diversi cicli di opere: la serie di tecniche miste Stemmi, Crossage, Stasi, gli assemblaggi Generatori di vuoto o i libri d’artista Cavità. Per la costruzione di alcuni lavori, un disegno preparatorio o una fase progettuale scritta sono necessari. In altri casi invece cerco un tipo di concentrazione e di precisione immediata, più improvvisata, musicalmente parlando.


M.G.: Quale trovi che sia il valore del disegno nel contemporaneo?


U.C.: La mia confidenza con il disegno è una questione attitudinale. Azzardando una risposta alla tua domanda, direi che la pratica del disegno “tradizionale” – di trasposizione e di invenzione – permette una precisa esperienza di contatto fra l’interiorità e l’esteriorità del disegnatore. C’è un’esperienza visiva e tattile legata agli strumenti e ai materiali, che bilancia il nostro assiduo rapporto con la bassa qualità dello schermo. Dal momento che tutto subisce una digitalizzazione, resta il valore performativo del disegnare.

M.G.: Il tuo lavoro è molto diversificato nei medium utilizzati, e va a svilupparsi anche in altri contesti come il design. Come sei arrivato a queste commistioni?


U.C.: Credo nel valore della forma essenziale a scopo ecologico-funzionale e della decorazione a scopo nutritivo-immaginifico. Viviamo in un mondo che da una parte è reso anoressico da un’industria che produce oggetti necessariamente scarni e inutili, e dall’altra è inquinato da orpelli kitsch aggressivi, che generano un “nuovo” tipo di malessere. L’arte può utilizzare questi caratteri formali estremi come messaggio, o lavorare su estetiche alternative, anche attraverso le sue applicazioni.


M.G.: I tuoi disegni sembrano essere stati strappati da un qualche libro illustrato della Belle Époque. Come funzionano i tuoi libri d’artista?


U.C.: A rimandare all’Ottocento sono, perlopiù, alcuni miei disegni in cui mi preoccupo di tradire un certo stereotipo. I libri d’artista ai quali ho dedicato più tempo sono quelli della serie Cavità. Si tratta al momento di sette esemplari, costruiti sulla falsa riga dei classici carousel: libri di sei pagine che restano aperti grazie a una clamp chirurgica. Il mio intento era quello di realizzare degli oggetti scultorei interattivi, a metà fra libro e scultura di carta. La loro peculiarità è quella di contenere disegni a china intagliati e collage, montati su quattro livelli, in una sequenza di tre o sei pagine. Non c’è uno sviluppo narrativo, ma è semplicemente un inventario surreale di ipotetiche cavità che lo spettatore è invitato ad attraversare, con lo sguardo e con l’immaginazione, senza la descrizione di un approdo consolatorio.


M.G.: Per la prima volta sperimenterai un lavoro performativo. Mi introduci a questo progetto?

U.C.: Si tratta di un’occasione speciale, nata grazie all’invito del coreografo Matteo Levaggi, chiamato a presentare un lavoro per il Festival OrienteOccidente. Il progetto intitolato Over the Rainbow coinvolge i danzatori di Padova Danza e il Liceo Coreutico Bonporti di Trento, e debutterà al Mart di Rovereto l’11 Settembre, con replica il giorno seguente. Lo spunto di partenza arriva dai miei lavori realizzati con la tecnica dell’assemblaggio. Materiali di recupero e di consumo, organici e sintetici, infilati l’uno nell’altro e sospesi in equilibro, come linee colorate nello spazio. Dopo la serie dei Generatori di vuoto, presentati in un’installazione alla Galleria Cannaviello di Milano nel 2017, ho deciso di lavorare con oggetti leggermente più grandi, come hula hoop e lampade, includendo nell’opera una fonte luminosa. Per la performance ho realizzato gli oggetti di scena: hula hoop sonori con i quali il corpo dei danzatori interagisce, ibridandosi, e “assemblaggi luminosi” che faranno da contrappunto scenografico alla performance. Si tratta di portare la presenza umana, con le sue potenzialità legate al movimento e al suono, all’interno di un discorso sull’ibridazione degli elementi e dei linguaggi.


M.G.: Vista la tua visione veramente estesa di cosa si possa produrre, che progetto realizzeresti se avessi un budget e possiblità illimitate?


U.C.: Una macchina del tempo!

Mascherato, 2020, china su carta, 32 x 24 cm - Umberto Chiodi - courtesy of the artist
Mascherato, 2020, china su carta, 32 x 24 cm – courtesy of the artist
Isolamento, 2020, incisione su piatto di ottone, ø 20 cm - Umberto Chiodi - courtesy of the artist
Isolamento, 2020, incisione su piatto di ottone, ø 20 cm – courtesy of the artist
Umberto Chiodi, Cavità VI, 6 pagine, china su carta, legno, velluto, passamenerie, , 100 x 60 cm (aperto) - 
Foto Daniele De Giorgio
Cavità VI, 6 pagine, china su carta, legno, velluto, passamenerie, , 100 x 60 cm (aperto) –
Foto Daniele De Giorgio