MOHAMED ALLAM X FLAVIA MALUSARDI
In arabo il verbo darara significa ‘essere abbondante’. Il suo derivato medrar traduce ‘l’essere più del necessario’, ‘oltremisura’, a cui si lega l’idea di un flusso copioso, uno scorrere senza freni, torrenziale e travolgente.
Mohamed Allam mi spiega che è a questa immagine che si rifà Medrar for Contemporary Art nel suo impegno a ‘riversare’ conoscenze e competenze su e per l’arte contemporanea in un contesto complesso come quello egiziano.
Flavia Malusardi: Medrar ha da poco festeggiato 15 anni di attività. Sul sito si legge che è un collettivo no profit, fondato da te e da Dia Hamed. Come e perché è nato questo progetto?
Mohamed Allam: Penso che la nostra missione sia sempre stata quella di promuovere giovani artisti e, soprattutto, di operare come un ponte tra loro e la costruzione di una carriera professionale, in cui l’arte sia un lavoro e non un passatempo. Sembra scontato ma in una realtà come l’Egitto non lo è affatto perché qui manca una struttura che sostenga artisti e gallerie, che quindi lavorano in un contesto molto fragile e poco sviluppato. Medrar cerca di sostenerli, ponendosi come punto di riferimento e di supporto, cercando di stimolare la cooperazione e il dialogo tra profili differenti.
FM: Medrar si dedica alle arti visive e ha sempre rivolto un’attenzione particolare alla video arte, spesso ignorata nel contesto egiziano. Negli anni avete promosso progetti diversi tra mostre, laboratori e workshop, ma due su tutti sono quelli immediatamente associati a Medrar: Roznama e il Cairo Video Festival.
MA: Roznama raggiunge quest’anno la sua ottava edizione e, dopo la prima tenutasi nel 2006 e la seconda nel 2013, è ormai diventata un appuntamento annuale. Da sempre è dedicata ai giovani artisti, molti sono ancora studenti all’ultimo anno dell’Accademia. Le prime due edizioni sono state semplici mostre collettive organizzate per lo più tra amici, ma dalla terza abbiamo deciso di cambiarne il format e da allora è strutturata con una open call, una giuria selezionatrice e una mostra con premi finali. Ogni anno riceviamo tra le 300 e le 400 candidature, ma solo il 10% viene scelto per fare parte della collettiva che si tiene a fine progetto. La giuria cambia ogni anno ed è composta da esperti diversi quali artisti, curatori, insegnanti.
FM: Roznama viene supportata annualmente da istituzioni e professionisti già affermati, che offrono una serie di premi per i vincitori della competizione. Mi sembra un segnale significativo dell’ottima rete che siete riusciti a costruire.
MA: Lo considero un progetto di successo perché ha incoraggiato la produzione degli artisti ma ha anche creato, appunto, solide connessioni tra le istituzioni e le varie figure dell’arte. Grazie a Roznama è cresciuto l’interesse verso il nostro lavoro e la nostra missione, al punto che le altre istituzioni sono entusiaste all’idea di collaborare e questo ha naturalmente effetti positivi in termini di premi, partecipanti, spazi a disposizione… Quest’anno collaboreranno con noi il British Council, l’Istituto di Cultura Francese, l’Ambasciata Olandese e l’Istituto svizzero ProHelvetia che spesso offrono come premio una residenza presso le loro istituzioni in Europa. Abbiamo anche il sostegno di molte realtà locali come fondazioni, gallerie d’arte e artisti che offrono borse di studio o per la produzione di opere future.
FM: Ricordo che la sesta edizione di Roznama non ha avuto luogo, perché nessuna delle proposte inviate era riuscita a superare la selezione della giuria. Se ne è parlato molto e immagino abbia spinto voi del collettivo di Medrar a riflettere profondamente sulle carenze del sistema di formazione degli artisti e a cercare una risposta…
MA: È così che è nato il Roznama Studio Program con la prima edizione nel 2018, a cui ne è seguita un’altra nel 2019, entrambe tenute in collaborazione con l’artista Mohamed Abdelkarim e la curatrice Nour El Safoury. L’idea è stata quella di mettere a disposizione uno spazio per la produzione artistica, che offrisse un supporto concreto da un punto di vista teorico ma anche materiale: a ogni partecipante è stato assegnato uno studio, un mentore e una borsa di studio. Hanno partecipato artisti dai background più svariati, dalle arti visive, al cinema, alla scrittura. Si è trattato di un esperimento pionieristico che ha dato ottimi risultati e ha gettato delle buone basi per una eventuale pianificazione a lungo termine.
FM: Il Cairo Video Festival, appuntamento biennale dedicato alle moving images, è considerato il vostro progetto più innovativo nella scena egiziana ed è ormai giunto alla nona edizione. La prima risale al 2005, lo stesso anno in cui si è costituito Medrar: diventa quasi difficile stabilire quale dei due sia nato prima…
MA: Cairo Video Festival è senza dubbio l’emblema di Medrar, la nostra forza motrice e anche il nostro lavoro più impegnativo: è nato per creare una piattaforma per conoscere e valorizzare la video arte e i film sperimentali. A ogni open call riceviamo tra i 2000 e i 3000 video e opere filmiche, che vengono vagliati in prima battuta da Medrar e in seguito da una giuria fino ad arrivare al centinaio che generalmente va a costituire il Festival. La tipologia delle opere scelte influenza gli spazi deputati alla proiezione, che quindi possono essere sale cinematografiche, gallerie ma anche, più semplicemente, la rete. La selezione tiene presente diversi fattori, non solo la qualità artistica del lavoro ma anche i requisiti tecnici o le modalità richieste per una corretta esposizione, che dobbiamo essere in grado di soddisfare appieno. Come puoi immaginare, a volte dobbiamo operare anche una censura delle opere che non potrebbero essere presentate nel Paese.
FM: L’ultima edizione del Cairo Video Festival ha rappresentato una svolta: per la prima volta, avete abbandonato i luoghi canonici e avete scelto di proiettare all’esterno. È un gesto significativo in una città come il Cairo, dove lo spazio pubblico è pressoché inesistente e sotto uno stretto controllo da parte delle autorità, che lasciano pochissime possibilità alle manifestazioni artistiche.
MA: L’edizione del 2019 è stata il nostro primo tentativo di esplorare la città in quanto spazio espositivo, quindi abbiamo scelto vetrine, negozi, librerie, centri commerciali, strade e caffè… L’esperienza ci ha portato a riflettere su modalità alternative per il display e su come coinvolgere un pubblico molto diversificato e non necessariamente esperto di arte contemporanea: è stata una vera e propria sfida cercare un equilibrio tra le opere, il pubblico e gli spazi. Il Cairo è una città enorme, quindi abbiamo preparato sia un programma che una mappa per potersi muovere. Naturalmente, sarebbe stato impossibile riuscire a vedere tutto!
FM: Avete avuto modo di tracciare la risposta del pubblico, per verificarne l’interesse e la reazione?
MA: Abbiamo reclutato dei volontari incaricati di essere presenti in loco per garantire il funzionamento dei video e degli impianti, per dare informazioni sulle opere e per rispondere a eventuali domande dei visitatori: a loro spettava il compito di condividere con noi un report a fine giornata. Nel complesso è stato un esperimento positivo, anche se non sono mancate le difficoltà: a volte, è capitato di incontrare problemi tecnici e quindi di non poter proiettare sempre le opere. Altre, ci siamo resi conto di aver scelto location che poi si sono rivelate di scarso successo in termini di affluenza di pubblico.
FM: Sia Roznama che Cairo Video Festival sono iniziative considerevoli che richiedono un ampio dispendio di risorse e capitali. Medrar è sostenuta da istituzioni o fondazioni locali?
MA: Riceviamo piccoli aiuti dalle realtà culturali e diplomatiche in Egitto, quali istituti di cultura o ambasciate ma questo non basta certo a coprire tutte le spese. Il processo di fundraising è piuttosto impegnativo in termini di energie e stress psicologico, perché i progetti sono sempre a rischio. Purtroppo i fondi sono scarsi e le uniche istituzioni impegnate sul Medio Oriente, AFAC Arab Fund for Arts and Culture e Mophradat, sono costrette a suddividere le risorse tra le molte proposte che ricevono da tutto il mondo arabo. Il resto dei fondi proviene dall’Europa, il che è sinonimo ancora oggi di dinamiche piuttosto problematiche…
FM: Qual è stato l’impatto della pandemia su una realtà come Medrar? Si è attivata una rete di supporto locale?
MA: La pandemia ci ha costretto a chiudere lo spazio per tutto il 2020. Da un certo punto di vista, è stata l’occasione per riflettere sulla nostra pratica, generare nuove idee e valorizzare quello che abbiamo fatto finora, tenendo in considerazione le difficoltà per mantenere lo spazio vivo, aperto e sicuro. In una parola: elaborare un modello di istituzione sostenibile.
Il COVID ha spinto verso nuove frontiere, alle quali prima non avremmo pensato, come le residenze online in cui è possibile lavorare da casa ricevendo comunque un supporto o una borsa di studio. Alcune grandi istituzioni si sono attivate per distribuire fondi e aiuti alle realtà più piccole. Purtroppo non è stato il caso di tutti: molti hanno dovuto chiudere.
FM: In base alla situazione attuale in Egitto, su quali proposte vi orienterete per il 2021, oltre a Roznama e al Cairo Video Festival? Avete già programmato il calendario di mostre e workshop?
MA: Ad aprile lanceremo il LAB, uno spazio/workshop per l’utilizzo in ambito artistico delle tecnologie legate alla realtà digitale. Con la riapertura dello spazio, avremo come sempre un calendario di mostre personali di artisti emergenti, che di solito stabiliamo durante l’anno in base alle proposte che riceviamo. L’attuale mostra temporanea, Shish Bish, esplora le connessioni tra videogames e arte contemporanea.
Anche noi abbiamo sperimentato eventi online: il progetto di performance With doors closed artists go viral, a cura di Victoria Cornacchia, quest’anno vedrà la sua terza edizione, dopo le prime due nel 2020. Si tratta di un mini festival online in cui hanno partecipato artisti egiziani e stranieri, con diversi background di danza contemporanea e performance. Speriamo di poterli invitare qui per degli incontri dal vivo prima o poi!
FM: Negli ultimi anni la scena artistica e culturale egiziana ha vissuto profondi stravolgimenti, dal fermento post rivoluzionario all’attuale stagnazione forzata. Dopo tanti anni di lavoro, quali sono i rischi principali dell’operare in un tale contesto?
MA: In Egitto il mondo dell’arte è diviso in due: da una parte la scena accademica, sostenuta dal governo perché produce un’arte puramente decorativa e allineata, mai scomoda, e dall’altra la scena indipendente, che si apre a una visione internazionale ma che non ha alcun tipo di supporto statale e si trova da sola ad affrontare anche la crisi economica. Questo scenario genera un impatto fortissimo su organizzazioni autonome come la nostra, che operano a un livello locale e sono relativamente piccole. Per formare artisti dal profilo solido, in realtà dovremmo partire da zero ma il rischio è quello di finire in un vortice che ci sfugge di mano e diventa impossibile da gestire: tentare di colmare il gap implicherebbe un lavoro su più fronti con il rischio di ridurre la qualità dell’offerta e, comunque, di scontrarsi con l’insufficienza delle risorse materiali. Viviamo costantemente in un dilemma.
Mohamed Allam è artista, co-fondatore e direttore artistico di Medrar for Contemporary Art. Vive e lavora al Cairo.
Medrar si trova a Garden City, uno dei quartieri centrali della città. Il sito di Medrar è www.medrar.org