OLIVIERO BIAGETTI X LIDIA FLAMIA
Oliviero Biagetti nasce a Velletri (RM) nel 1994. Attualmente vive e lavora a Torino. Dopo aver conseguito la laurea triennale in Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, ed il corso di specializzazione in incisione calcografica presso “Fondazione il Bisonte” a Firenze, dal 2019 è iscritto al Biennio specialistico di Pittura, presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino.
Lidia Flamia: Vorrei iniziare parlando del percorso formativo che ti ha condotto ad approfondire la dimensione pittorica nei tuoi lavori. Dopo la triennale di Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Firenze, hai intrapreso il biennio specialistico di Pittura all’Accademia Albertina di Torino – la somma di tali esperienze quanto ha arricchito il tuo fare artistico? È una scelta che rifaresti?
Oliviero Biagetti: Sì, è una scelta che rifarei senz’altro. Nonostante non condivida a pieno la struttura organizzativa e didattica dell’Accademie di Belle Arti, è stato indubbiamente un luogo importante e di ricerca. Sia a Firenze che a Torino ho avuto l’opportunità di incontrare studenti ed insegnanti che sono stati fondamentali sia nella mia esperienza lavorativa che personale. Nel corso del triennio a Firenze il processo pittorico era al centro delle mie ricerche. Il colore, il segno, la forma, lo studio anatomico, la costruzione e la decostruzione della forma occupavano in modo predominante il mio lavoro. A Torino l’impianto tecnico che avevo costruito negli anni precedenti è passato in secondo piano rispetto ad una ricerca che cominciava a guardare l’immagine non più come un memoriale di gesto ma piuttosto come fruitrice attiva di eventi in continuo divenire.
L.F.: Ti andrebbe di raccontarci l’evoluzione che hai affrontato nel corso del tuo lavoro?
O.B.: Attratto dalle opere di Andrea Mantegna, Lorenzo Viani, Lucian Freud, Käthe Kollwitz, Francis Bacon, Alberto Giacometti, tra i più recenti Michele Bubacco, Alessandro Pessoli, come di molti altri, a Firenze il corpo umano è stato costantemente protagonista nel mio lavoro. Nei primi mesi a Torino rimasi molto colpito dalla mostra “Kaluchua” presso Associazione Barriera e in modo particolare dalla performance “Mollusk Theory” di Madison Bycroft in cui l’artista attraverso danza, musica e video, ripercorre la storia della sua nascita trasponendola mediante l’ottica e la vita organica dei molluschi. Inoltre la realtà utopica e interconnessa di Donna Haraway e le potenzialità speculative del suo possibile hanno fatto si che in questi due anni abbia avuto l’opportunità di mettere in discussione radicalmente le mie ricerche. Il corpo ha perso la sua unità dissolvendosi e trasformandosi in una moltitudine nomade e multi-specie. Pluralità umane e non umane che mi consentono di indagare e di mettere in discussione il loro contesto abitativo e, di conseguenza, la relazione con il proprio ambiente. La pittura e l’immagine di conseguenza costituiscono per la mia ricerca delle interfacce dimensionali, spazi di condivisione e di narrazioni parallele con cui palesare, ribaltare e mettere in crisi delle informazioni per costruire possibili narrazioni alternative.
L.F.: Le tue opere esplorano il concetto di corpo – umano e non umano – in relazione all’ambiente e le sue paradossali possibilità. Quali visioni hanno dato forma ai soggetti delle tue opere?
O.B.: Attualmente la lettura è una pratica che svolge un ruolo principale nella progettazione del mio lavoro. L’aspetto narrativo nella mia ricerca è parte integrante della costruzione compositiva dell’immagine, ne suggerisce gli ambienti, le presenze come gli eventi. Proprio per questo la fantascienza speculativa di Ursula K. Le Guin è ed è stata decisiva sia per entrare in contatto con le potenzialità narrative e fisiche della fiction sia per una loro materializzazione visiva. Inoltre, in quest’ultimo anno, alcune intuizioni dell’etologo Jakob Johann von Uexküll basate sulla distinzione tra territorio e ambiente, umano e non umano, mi hanno spinto a riconsiderare i differenti modi di vivere e di percepire uno spazio sia nella realtà fisica che in quella digitale. Uno spazio che al di là delle specie che lo abitano, al contrario di quanto credesse Uexküll, possa essere inteso come luogo comune e di condivisione per inaspettate connessioni e auspicabili relazioni.
L.F.: Nelle opere Risveglio pestifero (2020), Ruggiti dal terzo piano (2020), La peste dell’insonnia (2020) o ancora nella serie There is always music in the air (2020), visioni incandescenti e presenze mostruose deturpano l’intimità del territorio onirico, in una narrazione che distorce e confonde la soglia che separa la realtà dalla finzione. Senz’altro la messa in scena svolge un ruolo fondamentale…
O.B.: Nel 2019 ho avuto la possibilità di addentrarmi nella Fictional site specificity di Ludovica Carbotta in occasione del workshop “Su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino. Un gruppo di persone provenienti da diversi ambiti di ricerca e lavoro aveva il compito di inscenare un vero e proprio processo all’unico abitante di Monowe, città utopica ideata dall’artista, il capo di accusa era di auto-segregamento e eccesso di auto-isolamento. Un’esperienza immersiva che ha palesato come una realtà illusoria possa radicalmente stravolgere il quotidiano sostituendosi ad esso e mantenendone alla stesso tempo la medesima veridicità. La messa in scena è parte integrante del progetto a cui sto attualmente lavorando, “Apologie di un bilocale”: un’abitazione che risiede altrove funge da palco per degli improbabili ospiti e inattese manifestazioni. Eventi transitori che mettono in discussione il concetto di spazio e di abitazione. L’appartamento si presenta come un territorio su cui si sovrappongono innumerevoli ambienti, un luogo di incontro fra noi le inaspettate possibilità dell’altro, un’ambiente di confronto e interazione con ciò che comunemente viene definito alterità.
L.F.: Tra le opere più recenti, realizzate nell’ultimo anno, ha catturato la mia attenzione Slippery corner (2021). Le lingue vorticose che presenziano sulla superficie della tela sembrano quasi invitarci ad un confronto sensuale con la materia pastosa che le compone – ma è ne L’ora delle visite (2021) che la materia pittorica assume una consistente de-formazione tridimensionale. Tale sperimentazione avrà una sua evoluzione?
O.B.: L’ora delle visite è un lavoro molto recente e in via di sviluppo, un prolungamento fisico del dipinto, un tentativo di rendere più fitta e spessa la trama della narrazione. Si tratta di una scultura che ho realizzato dopo aver prodotto una serie di disegni in cui, dati gli improvvisi incontri di innumerevoli insetti provenienti dai vari rubinetti o tubature del bagno, ho trasformato il soffione della doccia in una vera e propria tecnologia propagatrice di insolite e inaspettate intrusioni. Una porta di accesso per imprevedibili ecosistemi e realtà paradossali. Il progetto è tutt’ora in lavorazione, prevede un insieme di sculture che interagiranno direttamente nello e con lo spazio dove saranno accolte: una sovranarrazione che si prefigge di muoversi fra la realtà interna dell’immagine e la realtà fisica che la dovrà ospitare.
L.F.: Qualche anticipazione, ai lettori di Osservatorio Futura, riguardo i tuoi prossimi progetti?
O.B.: Di recente ho partecipato alla mostra collettiva “Lebenswelt” curata da Dobroslawa Nowak, insieme a Martyna Czech, Ewa Kubiak e Zuza Piekoszewska, nello spazio Bovisamare di Milano. Nei prossimi mesi mi concentrerò sulla produzione di un nuovo capitolo di Apologie di un bilocale.