IL MONDO DALLA VASCA

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FRANCESCA MUSSI X FEDERICO PALUMBO

Qualche mese fa abbiamo preso contatto con Spazio Infernotto. Fin da subito abbiamo cercato di instaurare un modello collaborativo, in modo da intrecciare le nostre (comuni) ricerche. Ci hanno presentato Francesca Mussi, artista milanese che avrebbe realizzato una personale nel loro spazio sotterraneo torinese. La situazione pandemica ha però posticipato l’apertura di questo progetto espositivo. Ma non ha interferito con la nostra voglia di  collaborare, sia con loro che con l’artista. Ecco che sono iniziate le conversazioni con Mussi: mi ha raccontato la ricerca che si cela dietro il suo lavoro, le sue idee in merito al fare artistico e le relative influenze “esterne”. Ne è nato un primo approfondimento a mo’ di botta e risposta tra me e lei, intenzionato a fare una panoramica, quanto più globale possibile, sul suo lavoro e sulla sua esperienza personale.  

A questo articolo ne seguirà un altro, quando finalmente, superata l’attuale situazione, torneremo a vivere in un mondo fatto di mostre, contatto umano e fruizione dal vivo. E a quel punto saremo tutti invitati da Spazio Infernotto a vistare la mostra di Francesca Mussi.

Francesca Mussi

Federico Palumbo: Partirei subito chiedendoti di spiegare il tuo rapporto con lo spazio. Nei tuoi lavori c’è sempre un grado site-specific. Come declini i materiali – sempre eterogenei – che compongono le tue opere a questa tua esigenza di riconciliazione spaziale?  

Francesca Mussi: La fascinazione per lo spazio è spesso la prima scintilla che avvia i miei progetti. Il fatto che lo spazio di concepimento coincida con quello espositivo mi permette di pensare a dei lavori in armonia con il volume della stanza, come degli elementi complementari. È molto importante per me guidare questo equilibrio. I materiali molte volte vengono prelevati direttamente dal posto. Per esempio in La Fuite (2019) avevo tinto quattro tele di cotone utilizzando un estratto naturale ottenuto dalle piante circostanti allo spazio espositivo. Nella mostra Deriva che ho tenuto l’anno scorso con John Mirabel alla Basilica di San Celso a Milano  avevo utilizzato alcune pietre ritrovate nel giardino del battistero che ho integrato a delle fotografie che immortalavano il variare della luce all’interno del sarcofago-altare vuoto della chiesa. In questa mostra non c’era solo un’aderenza fisica dei lavori allo spazio, ma anche una ricerca  storica del luogo.  

Tuttavia ci sono lavori come Never seen performance (2020) in cui registro privatamente un’azione in un luogo molto specifico per me, ma tramite il gesto e la tecnica che utilizzo faccio fuoriuscire l’immagine dal contesto spaziale, il mio corpo assieme all’oggetto a cui “aderisco” vengono come  trasportati in uno spazio più universale e astratto. 

"La Fuite", Natural dyeing on cotton, 150 x 120 cm, Premio Piero Leddi, 2019, Francesca Mussi
“La Fuite”, Natural dyeing on cotton, 150 x 120 cm, Premio Piero Leddi, 2019 – courtesy of the artist
"La Fuite", Natural dyeing on cotton, 150 x 120 cm, Premio Piero Leddi, 2019, Francesca Mussi
“La Fuite”, Natural dyeing on cotton, 150 x 120 cm, Premio Piero Leddi, 2019 – courtesy of the artist
"La Fuite", Natural dyeing on cotton, 150 x 120 cm, Premio Piero Leddi, 2019 - Francesca Mussi - courtesy of the artist
“La Fuite”, Natural dyeing on cotton, 150 x 120 cm, Premio Piero Leddi, 2019 – courtesy of the artist

F.P.: A proposito dei materiali: la tua ricerca è partita analizzando tecniche “tradizionali”, legate soprattutto alla grafica, per poi sviluppare un discorso rivolto a tecniche maggiormente “sperimentali”. Raccontaci il tuo percorso.  

F.M.: Si, ho iniziato la mia formazione artistica con una grande passione per la grafica d’arte, interessandomi fin da subito al concetto di impronta. All’Accademia di Belle Arti di Brera ho avuto modo di sperimentare in grande scala le tecniche più tradizionali. Poi l’eccessiva tossicità di alcuni materiali e il limite che imponeva il foglio mi ha spinto a intraprendere una ricerca più sperimentale; già con il monotipo mi potevo espandere più in dimensione e con altre tecniche più “DIY” potevo lavorare con maggiore freschezza. In lavori come Frame (2018) la stampa d’arte si riconcilia a dei volumi nello spazio creando un percorso percorribile. In questi lavori ho cominciato a inserire la mia figura tra le sgranature e i contrasti che ottenevo con la tecnica di stampa gum print, diventando io stessa un segno grafico. Ricordo di essere stata colpita dalle fotografie di Giacomelli, i preti sulla neve, vedendo la figura umana che si dissolveva in segni astratti. Utilizzo la gum print in molti lavori perché mi permette di giocare con questo effetto di dissolvenza in cui il  mio corpo può apparire e scomparire e di fare fluttuare l’immagine in una temporalità indefinita.  

“Frames”, Ten gumprints on wood structures, various sizes, 2018 - Francesca Mussi - courtesy of the artist
“Frames”, Ten gumprints on wood structures, various sizes, 2018 – courtesy of the artist

F.P.: Spesso realizzi performance. Allo stesso tempo, però, non ti definisci performer. Penso a opere come: Never Seen Performance (2020) oppure The Unseen Performance series (dal 2016). Mi piacerebbe parlare di questo aspetto più nello specifico, poiché mi sembra si ricolleghi nuovamente alla tua esigenza di lavorare a tu-per-tu con lo spazio circostante, di cui parlavamo  prima.  

F.M.: Nonostante chiami i miei lavori “performance” non si tratta mai di performance vere, esibirmi in pubblico è piuttosto lontano dalla mia natura. L’appellativo serve a sottolineare che “qualcosa è accaduto” e quindi a spostare l’attenzione sul gesto, un gesto fruibile indirettamente, filtrato dallo schermo o dal foglio. Never Seen Performance (2020) è un’azione che ho eseguito registrandomi privatamente sul divano di un museo, a porte chiuse. Nell’azione scopro il divano che avevo ricoperto precedentemente con della carta velina, strappo la carta riducendola pian piano in tante palline bianche. Creo un progredire di squarci in cui il mio corpo si confonde sempre più con l’oggetto del divano, quasi dissolvendosi. Stampare le imagini in gum print col colore rosso aggiunge una nota di irrequietezza, la carta velina si trasforma in tessuto lacerato, io appaio e  scompaio all’interno di questa sequenza stratificata. Penso che il tutto sia cominciato riflettendo sul rapporto tra artista giovane e istituzione museale, è per questo che in Never Seen Performance (2020) c’è un rapporto a tu-per-tu con lo spazio. L’azione è per me una matrice, che ha un valore generativo più che performativo. Helena Almeida concepiva le sue azioni fotografiche come lavori plurali, anche se al centro delle sue fotografie c’era sempre lei nel suo studio. Mi  piace questa idea di essere presente nei miei lavori senza per forza mostrare la mia soggettività, ma esprimere piuttosto un qualcosa comune a tutti. Mi piace che la posa e il gesto, semplice e  intimo, rimandino a qualcosa di più universale e profondo, comune a tutti come lo sono le forme, o i miti.  

Nella serie The Unseen Performance per esempio ho inscenato un’azione all’interno di una vasca da bagno trovata in strada a Lipsia quando vivevo lì. Mi trovavo nello studio di un altro artista. Anche qui c’era un gesto molto semplice: riproducevo l’azione generativa dell’impasto. 

"Never seen performance", Gum prints on paper, 40 x 50 cm, 2020 - Francesca Mussi - courtesy of the artist
“Never seen performance”, Gum prints on paper, 40 x 50 cm, 2020 – courtesy of the artist
"Never seen performance", Gum prints on paper, 40 x 50 cm, 2020 - Francesca Mussi - courtesy of the artist
“Never seen performance”, Gum prints on paper, 40 x 50 cm, 2020 – courtesy of the artist
"Never seen performance", Gum prints on paper, 40 x 50 cm, 2020 - Francesca Mussi - courtesy of the artist
“Never seen performance”, Gum prints on paper, 40 x 50 cm, 2020 – courtesy of the artist

F.P.: Visto che abbiamo citato l’opera The Unseen Performance series credo sia utile parlare anche dell’oggetto ‘vasca’ e del ruolo (oltre che della sua valenza simbolica) che esso assume all’interno del tuo lavoro. A questa, infatti, si ricollegano miti e simbolismi antichi che tu riesci a declinare, di  volta in volta e in base alle tue volontà, a narrazioni differenti facendole assumere significati assai diversi. Come nasce l’attenzione nei confronti di questo oggetto? E come riesci a inserirlo in molti dei tuoi lavori?  

F.M.: La vasca da bagno è un dispositivo a direzione multipla. È un oggetto che rigenera il corpo tramite un momento meditativo con sé stesso. È una forma pre-fabbricata di circoscrizione, per niente lontana dalla forma di una bara. Essa richiama quindi una fonte di vita e di morte allo stesso tempo. Utilizzo la vasca da bagno giocando con la sua versatilità simbolica eludendo la mera funzionalità dell’oggetto. La cosa interessante è che la sua presenza visiva può caricarsi di valenze diverse a seconda del contesto. In La Fuite facevo riferimento alle vasche da bagno nel contesto rurale della località in cui avevo esposto i lavori, usate spesso dai contadini come  abbeveratoio per il bestiame. La vasca da bagno ha il ruolo di essere un remainder dei valori basici e di sussistenza della nostra essenza. Nel 2016 ho cominciato The Unseen Performance perché stavo leggendo i miti cosmologici dei Cherokee, una popolazione del Nord America. Mi sono quindi ispirata al gesto del Dio scarabeo Dâyuni’sï che avrebbe dato inizio alla creazione della terra ferma cospargendo argilla in superficie. Così in The Unseen Performance mi filmo mentre impasto argilla con le mie mani, la cospargo ripetutamente all’interno della vasca attorno al mio corpo. Donna Haraway diceva che il mito ha una funzione molto importante: quella di rispondere al bisogno di vedere oltre le rappresentazioni dominanti, di tessere un discorso comune e di ribaltare il dualismo (gerarchico) del pensiero.  

F.P.: La mitologia, i racconti popolari e l’importanza simbolica che questi esercitano mi pare siano altri topoi della tua opera. Forse il lavoro che più esprime questa fascinazione è Che Mangia II. Ma anche il progetto pensato per le pagine Instagram di Sciame project: The Book of Beth è intriso di  rimandi (tra l’altro spesso fittizi) al racconto mitologico. Siccome si tratta di due lavori molto diversi tra loro, mi piacerebbe provare ad approfondirli.  

F.M.: Che Mangia II è un lavoro che ho presentato da Amy-D Gallery a Milano nel 2019 per un progetto ideato dal Collettivo Flock basato a Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Nella collettiva presentata in queste due città – e in due tappe diverse – ciascun artista restituiva un’interpretazione personale della marionetta: il pupo veniva affidato ad ogni artista che, a seconda della propria ricerca, poteva modificarlo a suo piacimento.  

Il mio intervento era basato su un’azione divisa in due momenti distinti: il seppellimento e la conseguente estrazione. Appena ricevuto il pupo mi sono infatti filmata mentre lo sotterravo in una vasca trasparente utilizzando dell’argilla rossa, che impastavo con gesti lenti e meditativi, sempre asettici. Nella seconda mostra presentavo il video con la stessa inquadratura ma, questa volta, ero ripresa mentre disseppellivo il manufatto, come se fosse un momento di ritrovamento archeologico. Mi interessava che l’oggetto subisse un pernottamento nel sottosuolo, come se la terra gli restituisse importanza. È stata una delle poche azioni che ho mostrato direttamente  tramite video. The Book of Beth è il lavoro che ho mostrato per la prima volta durante la residenza su Instagram Sciame Project Mobile Residency perché si sposava bene con lo spazio immateriale del social network. Si tratta di un mito inventato da me. In questo lavoro immagino un tempo in cui per abitare occorre coltivare campi da cui nascono enciclopedie temporanee, i cosiddetti Libri di Beth, dai quali chiunque può selezionare un ambiente domestico che dopo 28 giorni però, come i cicli della luna, si trasformerà in succo di barbabietola, costringendo gli uomini a tornare a  coltivare. Ho inscenato l’ipotetico libro utilizzando delle pagine di pane al latte sulle quali sono intervenuta stampando delle immagini usando succo di barbabietola rossa. L’idea è nata in seguito a una riflessione sui metodi accelerati di coltivazione agricola, come risposta utopica di un “abitare-senza-inquinare” ciclico.

F.P.: So che hai partecipato a Walk in Studio (MI). Come e cosa hai proposto per l’occasione? E come hai vissuto il clima di incertezza e immobilismo che oggi, purtroppo, siamo costretti a vivere?  

F.M.: Ho partecipato a Walk-In studio inaugurando il mio nuovo atelier che condivido con il mio compagno, anche lui artista. Abbiamo quindi approfittato dell’occasione nonostante molti lavori di ristrutturazione siano ancora in corso. Ho presentato alcune incisioni più vecchie che avevo  esposto poco (Twelve Mouths) assieme a gum print più recenti. È stato come fare un riassunto degli ultimi sei anni di produzione. Abbiamo scelto di presentare i nostri lavori personali affiancati all’esposizione di alcuni pezzi di Bidet à Boire, un progetto di incisioni su bicchieri che abbiamo co-fondato assieme al nostro collega Thomas Ferembach meno di un anno fa. Non abbiamo potuto fare altro che affrontare questa situazione di immobilismo bevendoci sopra! 

F.P.: A tal proposito so che è stata posticipata la tua prima personale torinese presso Spazio Infernotto. Senza spoilerare – visto che è in lavorazione un approfondimento più strutturato fra noi e voi in vista dell’opening – puoi lo stesso svelare qualcosa a riguardo?  

F.M.: Sì, questa posticipazione, come anche quella di un’altra mostra che avrei dovuto avere a Lecce, sono state piuttosto demotivanti. Mi prenderò per lo meno più tempo per pensarci. 

Per la personale di Spazio Infernotto mostrerò un lavoro inedito. Lancerò alcune parole chiave: impressione, argilla e suono. Inoltre, ci sarà un personaggio dall’identità incerta… Non spoilero altro! 

F.P.: Ultima domanda-suggestione che mi piace sempre porre agli artisti che intervisto: qual è il tuo desiderio “utopico” o più semplicemente il cosiddetto “sogno nel cassetto”?  

F.M.: In questo momento desidero semplicemente che l’arte e la cultura mantengano salda la loro responsabilità, che vengano prese ed intese sempre più come esercizi etici. Questo può portare a una visione meno negativa del futuro che ci attende.

John Mirabel e Francesca Mussi - INTERMEZZO / Spazio Fico, Milano, 19/03/2019.  //  Ph: Fabrizio Stipari - courtesy of the artist
John Mirabel e Francesca Mussi – INTERMEZZO / Spazio Fico, Milano, 19/03/2019. // Ph: Fabrizio Stipari – courtesy of the artist