A CURA DI FEDERICO PALUMBO
«[…] l’assiduità, in qualche misura la centralità, del tema ermetico ed alchemico in un tratto della storia dell’arte, che va dal rinascimento ai nostri giorni. Più in generale, essendo l’alchimia parafrasi della creazione (dar forma alla materia attraverso un processo) e, ad un tempo, concentrato di mito, sua organizzazione paradigmatica e cardinale, essa è stata spesso per l’arte una sorta di parallelo o addirittura di consapevole modello, suscettibile d’infinite metafore» .1
Leggo, affascinato, del tuo rapporto viscerale con l’elemento architettonico – che sia esso oggetto o luogo/non-luogo – e le prove insite e in diretta nel e con il materiale utilizzato. Per questo scambio epistolare, ho scelto di partire con un estratto di un testo di Maurizio Calvesi che mi ha accompagnato per diversi anni causa tesi. L’elemento alchemico mi ossessiona da parecchio tempo; in particolare se messo in relazione con la pratica artistica. L’artista, ai miei occhi, ricopre un po’ il ruolo dell’alchimista “contemporaneo”. Nel senso che da sempre smussa un’esigenza interiore mediante l’utilizzo dei materiali per forgiare l’oro, e quindi l’opera (Opus alchemico?). Ciò che mi affascina è inoltre la creazione in sé, e ciò che spinge l’artista a creare qualcosa. L’alchimista, d’altronde, altro non fa che lavorare sull’ignoranza che lo attanaglia. Di conseguenza la chimica – e più in generale la conoscenza – e lo studio dei materiali, lo porta a modellare il masso (da qui massoneria), e dunque a fondare una “cultura” in grado di elevarlo interiormente. L’oro è simbolico. L’oro è la fuga dall’ignoranza.
L’arte e l’alchimia / l’artista e l’alchimista sono la stessa cosa. Anche solo simbolicamente e formalmente.
Calvesi è tra gli studiosi italiani che più ha analizzato questo aspetto, individuando in molte figure cardine della storia dell’arte un riferimento – più o meno palese – alla simbologia alchemica.
Questo lungo giro di parole, insomma, per intavolare una discussione con te, Bernardo. Fra i materiali che mi hai mandato da leggere c’è qualcosa che mi ha fatto scatenare i riferimenti sopracitati: “Questa trasversalità di tecniche nasce da uno studio approfondito dei materiali che si evolve spesso in vere e proprie sperimentazioni chimiche. La combinazione di diverse sostanze mira a indagare vari aspetti dell’esperienza umana a livello della sua storia e dei suoi contenuti, per poi racchiuderli in un’unica narrazione. Creare un’armonia fra sostanza, forma e luogo è ciò che permette al mio lavoro di riflettere non solo un mondo che esiste in me, ma anche al di fuori” . 2
Vorrei sapere cosa ne pensi, in generale, sulla questione, per poi addentrarci in maniera più diretta nel tuo lavoro.
Un caro abbraccio,
Federico
Torino, 5/04/2022
M. Calvesi, Duchamp invisibile. Un’estetica del simbolo tra arte e alchimia, Maretti Editore, Imola (2016), p. 18. 1 Estratto dal portfolio dell’artista Bernardo Tirabosco. 2
Ciao Federico.
L’estratto di Calvesi che hai selezionato come introduzione per la nostra conversazione è molto azzeccato, lo reputo perfetto ai fini del nostro colloquio.
Nei testi che ti ho inviato, hai potuto comprendere quanto la fase di sperimentazione “alchemico/ chimica” faccia parte della mia ricerca. Sono sempre stato affascinato dalla possibilità di intervenire direttamente sulla materia con manipolazioni che possono cambiare/trasformare i materiali che utilizzo. Questi interventi hanno trovato la loro massima espressione negli ultimi due anni di produzione, da quando ho cominciato il ciclo di installazioni realizzate con il sapone.
Fin da subito ho sentito che con queste sculture c’era una possibilità quasi infinita di progettazione e composizione che mi ha trasmesso uno stimolo costante nel pensare sempre a nuove idee di creazione e allestimento. Inutile dire che per fare ciò la componente chimica è stata essenziale, elemento chiave che ha permesso lo sviluppo e la riuscita di questa idea.
Al momento il lavoro che secondo me è riuscito a esprimersi meglio in maniera più completa è stata l’installazione presentata da Spazio Volta a Bergamo. La forza e la mole dei lavori esposti e la possibilità di interagire con un ambiente architettonico tanto particolare hanno avuto un ruolo fondamentale nella riuscita.
Come ricordavi tu nel testo introduttivo, l’architettura degli ambienti dove vado ad intervenire gioca un ruolo importante che permette di progettare e ideare installazioni site specific sempre più particolari. Chiuse le ultime mostre e visto il periodo intenso appena trascorso, mi sono ritagliato il tempo per poter finalmente avviare delle riflessioni sul lavoro in vista delle prossime esposizioni. Sento il bisogno di chiarire alcuni punti su quello che ho prodotto e presentato fino a ora, pensare a idee future e soprattutto capire se la parte alchemica farà sempre parte del mio processo creativo.
Non vorrei che alla lunga diventasse un limite, che la parte tecnica sovrasti il lavoro finale come se alla fine diventasse più importate lo sviluppo e il processo di elaborazione che tutto il resto, sarebbe scadente e ingiusto e non darebbe merito alle installazioni.
Piccole preoccupazioni che meritano di essere approfondite per esorcizzarle.
Un caro saluto,
Bernando
Arezzo, 03/07/2022
“[…]Bernardo Tirabosco è la spina dorsale, il punto focale e denso della mostra, su cui tutto si riflette e tutto si condensa. Elementi fisici e al contempo così effimeri, questi monumenti di sapone restano in tensione nello spazio modellandolo con delicatezza. La sua imponenza accetta la contaminazione visiva degli altri interventi, attenuandosi o esplodendo a seconda delle mutate condizioni del giorno. […] ” 3
Caro Bernardo,
mi hai parlato e sottolineato l’importanza del lavoro esposto da Spazio Volta ed effettivamente, con l’estratto che ti allego adesso in apertura, posso capire il perché. Il valore, soprattutto, ai fini del discorso alchemico trattato nelle lettere precedenti, è quanto mai qui emblematico. Sono presenti infatti molti riferimenti a queste tematiche: l’uno nel tre (tre sono gli interventi, tre gli artisti) che si fondono in un un unico grande intervento (Opus/Grande Opera? in ogni caso si forma un quarto elemento che contiene al suo interno i precedenti, andando ad esaltarli). Infine, la spina dorsale, la scala berniniana, il centro di e del tutto.
Voglio però assecondare il tuo desiderio, per evitare speculazioni critiche eccessive, tralasciando altri possibili riferimenti al tema alchemico, e quindi andare oltre. Vorrei chiederti ora di approfondire insieme il tema legato alla tensione: mi sembra sia una tematica implicita/esplicita all’interno del tuo lavoro. O comunque sia ciò che porta al matrimonio/scontro tra materiali dalle impressioni e sensazioni opposte. In questo caso, sempre da Spazio Volta, il sapone, arpionato da alcuni ganci in acciaio fissati a loro volta al muro. Pare che alle ossa di una spina dorsale corrisponde una morbidezza e una finitezza data dal materiale che compone l’opera: il sapone, fisiologicamente delicato ed effimero.
Vorrei soffermarmi sull’importanza della sospensione, del ‘collegamento’, del fissaggio e della fisicità, ma anche della fragilità, della delicatezza e della ‘casualità’, che mi pare siano questioni centrali nella tua ricerca.
La scultura è ciò che più di tutti i medium – nella storia dell’arte, tolta l’architettura – fa riferimento a una sacralità dei materiali e un’immutabilità formale che ne evidenzia l’atemporalità.
Come coincide tutto questo nella tua opera? Stanno insieme come i saponi e i ganci? Oppure c’è qualcos’altro?
Nel mentre, attendendo tue, ti saluto.
Federico
Torino, 05/07/22
Estratto preso dal portfolio realizzato in occasione di Baleno, mostra collettiva tenutasi da Spazio Volta, Bergamo. 3 Artist_: Arianna Pace, Bernardo Tirabosco, Max Mondini.
Caro Federico,
sicuramente la sperimentazione alchemica nel lavoro presentato a Spazio Volta gioca un ruolo fondamentale per la riuscita dell’installazione, sono contento che tu l’abbia colta in pieno anche solo guardando le foto che ti ho mandato.
Come ti raccontavo nella lettera precedente è subito dopo questa esposizione che sono nati i primi interrogativi riguardo la parte tecnico/alchemica nel mio lavoro.
Nella tua risposta hai citato la tensione come elemento chiave del mio lavoro d’installazione: su questo hai pienamente ragione, dato che ne fa parte fin dalle prime sperimentazioni (faccio riferimento alla serie di In Sospeso, 2017). Qui, utilizzando delle corde elastiche incrociate tra loro, riuscivo a tendere e mantenere in equilibrio dei fogli di piombo dipinti ad olio.
Agli occhi di chi osservava per la prima volta il lavoro (scambiando il foglio di piombo per carta), pareva un lavoro “leggero” che giocava tutto su questa presunta armonia dei materiali utilizzati, una sorta di effetto ingannevole non volutamente cercato da me.
Nel corso degli anni c’è stata un’evoluzione dove il fattore tensione è diventato più chiaro e leggibile, come hai potuto notare anche tu dal risultato del lavoro Pace nel mondo tra i boschi, 2022 (l’installazione per Spazio Volta).
Le masse di sapone vengono sorrette da dei ganci che perforano la scultura penetrandola fin dentro la sua struttura. Una sorta di richiamo alla carne da macello se volgiamo, dove gli uncini accentuano ancora di più il peso e la massa dei pezzi di sapone. Una tensione quindi non solo percepita dalla pesantezza delle sculture ma anche dagli stessi dispositivi di ancoraggio. Dispositivi che inducono una sorta di cautela in chi osserva, proprio per la loro particolarità di far parte di un gioco di forze, trazioni e tensioni, che rendono la stabilità e l’equilibrio di questi lavori molto precari.
Anche la disposizione dei singoli elementi scultorei favorisce una lettura particolare di questo lavoro. L’installazione sembra fluttuare nello spazio mimetizzandosi perfettamente con l’architettura circostante, come se ne volesse richiamare in qualche modo le forme. La posizione degli elementi scultorei richiama una sorta di reperto archeologico, come quelli che si possono vedere nei musei di scienze naturali (da qui la definizione di “spina dorsale” suggerita da Max Mondini nel testo di sala). Solo che in questo caso al posto delle ossa fossilizzate di chissà quale animale preistorico le sculture sono fatte con il sapone che è malleabile, effimero e molto propenso alla degradazione.
Materiale insolito per la scultura che, come precisavi tu nella domanda, è forse la cosa più immutabile che abbiamo come forma d’arte ma che si presta in maniera incredibile per questo tipo di lavoro ambientale, raggiungendo una resa molto forte e d’impatto.
Un caro saluto,
Bernardo
Arezzo, 07/07/2022
Ciao Bernardo,
sono contento di aver approfondito con te i progetti più recenti e i vari influssi provenienti da altri campi del sapere, annotando infine alcune tematiche che si rifanno a invece lavori più ‘datati’.
Mi piacerebbe adesso ragionare con te sull’elemento architettonico, che in qualche modo ha fatto da sotto-trama nelle precedenti lettere. In particolare, noto che si è espresso maggiormente nella mostra curata da Elena Castiglia da voi a Sottofondo Studio, In nessun luogo (Arezzo, 2021). Qui, leggendo il testo di Elena, viene evidenziata ancora una volta la tua passione per quanto riguarda la sperimentazione e, in merito a ciò, l’utilizzo nuovamente di materiali che abbiamo già analizzato, come il sapone e il ferro. Come la rielaborazione dell’ambiente architettonico (che può partire e/o dislocarsi e adattarsi allo studio, alla casa o ad altri luoghi) gioca un ruolo di interesse nella tua ricerca? È un qualcosa che si proietta direttamente all’interno della dimensione scultorea a livello di medium o questo tuo interesse è dato da qualcos’altro?
Inoltre, noto con piacere una costante voglia di alternanza fra tri/bidimensionale: in particolar modo, per rimanere su questa mostra, nell’opera Sintesi. Anche se, nello stesso ciclo di opere che dà il titolo all’esposizione, c’è comunque un’attenzione verso questo aspetto: l’utilizzo di materiali tridimensionali diventano spesso elementi (quasi) bidimensionali poiché allestiti a parete, facendoli sembrare finestre, quadri… cornici. Credo sia tutto un flusso continuo che si genera e ri-genera all’interno del ciclo del lavoro stesso. Anche Senza titolo (Maschera tribale) – che in qualche modo riprende quanto detto nella precedente lettera in merito al retrogusto arcaico e preistorico di ritrovamento – e la stessa serie Sintesi mi sembra dimostrino un approccio e una metodologia volta al ragionamento del lavoro e all’importanza dell’esposizione. Quest’ultima serie, infine, ha un altro elemento che può collegarsi bene rispetto a quanto detto prima: di nuovo il bidimensionale e il tridimensionale, la ‘pittura’ e la ‘scultura’; ma soprattutto l’utilizzo e il mixaggio di elementi effimeri o che comunque portano con sé un elemento di deterioramento fisiologico (la pianta) e quindi naturale, proprio come il sapone, affianchiate a qualcosa invece di ‘rigido’, fisso, immutabile, qui rappresentato dalla tela — mentre prima dai ganci e dalle strutture metalliche.
Spero che le nostre conversazioni possano continuare ancora e che tu possa svelar, man mano, altri punti in merito alla tua ricerca e sul lavoro, che apprezzo molto.
A presto,
Federico
Torino, 08/08/2022
Ciao Federico,
quando con Elena cominciammo a pensare alla tipologia di allestimento per la mostra In nessun luogo, avevo appena iniziato a sperimentare le prime sculture in sapone.
La nostra idea era di inaugurare a novembre 2020, questo comportava l’esclusione dei nuovi lavori con la saponificazione, ancora in fase di sviluppo e di fatto troppo acerbi per essere inseriti all’interno di una personale. Decidemmo così di presentare solo i lavori pittorici, le installazioni fatte con le tele cerate e le marmorizzazioni su carta.
Poi con le problematiche legate al Covid e l’avanzare di restrizioni sempre più ferree si decise di posticipare tutto a primavera 2021 nella speranza che la situazione migliorasse. Passai la maggior parte di tutti quei mesi di attesa a mandare avanti il lavoro in studio praticamente in maniera no stop, ripensando completamente tutto, sia i lavori che le tematiche da affrontare.
In nessun luogo per me è stata uno spartiacque tra quello che era la mia arte prima e quello che è adesso. Ho vissuto il periodo di chiusura legato alla pandemia come una sorta di opportunità per concentrarmi su quello che realmente volevo fare, cosa pretendevo io dal mio lavoro, quali erano le mie intenzioni a riguardo e come potevo riuscire a evolverlo.
La mostra è fortemente legata al ricordo, alla nostra capacità di pensare e interpretare gli elementi che fino a poco tempo prima della pandemia facevano parte del nostro quotidiano, risultando a volte scontati e banali e che invece di colpo si sono allontanati, distanti e faticosi da raggiungere per tutti. Ho cercato di creare un continuo tra le installazioni e i lavori pittorici soprattutto tra gli elementi architettonici e quelli naturali, un dialogo tra bi e tridimensionale.
L’installazione scultorea era ispirata a forme/stili architettonici del nostro passato (mi riferisco in particolar modo all’installazione a muro che ricorda un architrave di un tempio e la scultura sopra la base d’appoggio con le forme di un’urna cineraria etrusca).
Qui ho voluto far interagire lo spazio espositivo (Sottofondo Studio), che ha già di per sé delle caratteristiche architettoniche particolari e ben riconoscibili con i miei interventi scultoreo/ architettonici. Un equilibrio tra forme, colori e geometrie dove lo spazio e le sculture si plasmano e riadattano a vicenda.
Mentre nei lavori pittorici come Sintesi e Maschera Tribale, sono più espliciti i rimandi ad una dimensione animalesco/floreale.
Nelle Sintesi sono presenti come complemento alle tele delle composizioni floreali allestite con vere foglie di magnolia che richiamano quelle dipinte. Mentre in Maschera Tribale le corna in sapone applicate sopra alle “pelli” (le tele cerate color carnato), fanno riferimento ai corredi da cerimonia di antichi popoli ancestrali.
Poco prima dell’inaugurazione mi sono preso del tempo per osservare la mostra in completa solitudine: questo momento di raccoglimento mi è servito per confermare alcune riflessioni riguardo l’allestimento. Avevo notato come all’interno dello spazio fosse presente una costante contraddittoria tra le tematiche affrontate e la scelta dei materiali con i quali avevo lavorato.
La contraddizione, se così la possiamo definire, era quella di aver affrontato tematiche dove l’elemento “storico” inteso come lascito del passato, qualcosa che è sopravvissuto allo scorrere del tempo ed è riuscito a arrivare fino a noi, veniva tradotto in chiave artistica utilizzando materiali facilmente deteriorabili e fragili.
Questo appunto non l’ho mai trovato banale perché (a parte i dipinti su tela), il resto dei lavori con il passare del tempo è destinato a scomparire, a non durare e a non lasciare traccia della sua esistenza.
Tutto questo avvalorò ancor più l’idea del titolo che volevo dare alla mostra, che scelsi dopo essermi letto un saggio di Kafka “La tana”, un testo che ho trovato essenziale per la mia ricerca e che raccontava perfettamente il periodo e le emozioni che avevo provato durante i mesi chiuso in studio.
In Nessun Luogo come titolo, come una delle poche certezze che avevo presentando la mostra. Non sono da nessuna parte, non vado in nessuna direzione, sono in nessun luogo.
Un caro saluto,
Bernardo
Arezzo, 11/07/22