AFFINITÀ SELETTIVE

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LUCA RUBEGNI

Vorrei avviare questa nuova creatura editoriale impiegando parole auliche e gloriose, come «Addì giorno fortuito», oppure «Quest’oggi, lodando l’encomiabile spirito di sacrificio con il quale l’impavido intellettuale…»; però non mi va, anche se non mi dispiacerebbe una bella targa marmorea sulla mia casa natale, come Garibaldi o Cavour, peccato però che sono nato in un palazzo al quinto piano, chissà dove la potrebbero posizionare? Poi c’è anche il discorso di chi la leggerebbe in un quartiere popolare di Roma,  senza contare che per il momento non ho fatto imprese degne di nota, ne tantomeno ho peculiarità psico fisiche interessanti. Sono normale, ed uso questa forte parola dai toni inquisitori, perché semplicemente non ho specificità che mi consentano di essere subito memorizzato e anche perché non sono mai stato ne al MoMa di New York e tantomeno sono figlio d’arte, cosa che reputo una benedizione personalmente, ma che ammetto non possiede quel fascino genealogico che rende unici, speciali, diversi e bellissimi. E non provo affatto invidia in tutto ciò, mi va benissimo la mia noiosa e mediocre normalità, una coperta di Linus che mi salva ogni volta che mi tocca argomentare tematiche complesse ed attuali e delle quali veramente non ho conoscenze particolari, come post-colonialismo, questione di genere, trans-qualcosismo, post-modernismo, e via dicendo. E senza offesa per nessuno, ho rispetto per chiunque, e potrei anche sfoggiare la carta “dell’anch’io ho amici omosessuali e frequento ebrei e musulmani”, però mi guardo bene dall’essere così velleitario. Semplicemente quando guardo le cose, non ho proprio nessun retropensiero o etichetta politica o  di partito.  

Mi piace osservare le cose nella loro semplicità, nella loro normalità e spesso scopro dei dettagli fantastici e sorprendenti che le caratterizzano. Recentemente, ad esempio, sono stato alla Quadriennale di Roma, e assorto e catturato dalla metodica attenzione data alla comunicazione dell’evento, alle parrucche svolazzanti, ai fiori giganti, alla sensibile accuratezza sulle tematiche sociali che intendono mostrare al pubblico comunemente esperto per educare ad una visione più matura del futuro, ho notato che i pannelli in cartongesso non avevano le vie di fuga stuccate. E l’ho trovato veramente fuori-luogo, visto che tutto era perfetto e ben realizzato. Poi ho letto su Instagram che è stato fatto volutamente per lasciar intravedere la struttura che sta sotto alle cose, così da non soffermarsi sul giudizio estetico e formale delle cose, ma bensì sul peso e sul ruolo che esse hanno nel mondo. Ed anche il cartongesso, cito testuali parole, è diventato queer. Non so voi, ma ho subito pensato ai piloni autostradali malcurati, che mostrano le armature del  cemento armato. Forse anche loro puntano a farci vedere la sostanza della materia, forse anche loro sono fuori dalle formalità, ci vogliono far ricordare la fragilità dell’essere nei confronti del tempo.  

Oppure un giorno, ascoltando il telegiornale, e confortandomi sulla palese sconfitta del tirannico ciuffo biondo americano, ho avuto un piccolo cortocircuito mentale, quando ho sentito la nuova vicepresidente Kamala Harris, donna fotonica e lo dico seriamente, dire «facciamo tornare l’America a guidare il mondo». Non mi è sembrato tanto differente da MAKE AMERICA GREAT AGAIN, però io sono un profano di politica estera, e probabilmente lei ha espresso queste parole in buonafede totalmente esente da ideologie colonialiste da XXI secolo. Però a me ha fatto pensare.  

Mi ha fatto pensare a quanto fragili e complessi siamo nell’ordinario, a quanto abbiamo bisogno di porre delle aggiuntive etichette settoriali specifiche per rimuovere le precedenti etichette generaliste. Spesso ci  acutizziamo e ci fermiamo ad analizzare e discutere tematiche complesse ed accademiche, dimenticandoci di osservare l’atto iniziatico delle cose, la parte atomica delle volontà. E questo genera tensioni costanti, distrazioni, sproloqui, falsificazioni di realtà banali.  

Non dico di distruggere e di ridurre all’ovvio la realtà, solo che forse occorre ripensare ad un nuovo modo di osservare, essere sì coscienti e consapevoli del tempo nel quale viviamo, ma di non dimenticare l’origine, il  punto di partenza, e soprattutto la vera qualità dei contenuti. Dobbiamo essere attenti, e sinceri, prima di tutto con noi stessi. Anche perché l’arte non ha bisogno di appiattimenti, ma di unicità. O poi magari ho visto  troppo Maurizio Costanzo Show.  

Qualora avessi urtato la vostra fragile sensibilità, o stimolato la vostra latente curiosità, vi inviterei (parlo al  plurale così almeno mi illudo di avere qualche anima pia che mi legga) tutti a rimanere connessi, tanto già lo siete/siamo, visto che a Gennaio avrò il piacere di ospitare, in una futura video-conferenza (che poi sembra vero) due cervelli nostrani piuttosto interessanti, che onestamente, ne sanno più di me al riguardo.  

Detto ciò, vi auguro un Buon Natale in isolamento fiduciario e vi ricordo di comprare del buon panettone. Il  pandoro è per bambini, magnateveli i canditi e che cazzo.

 - Anna Franceschini, Villa Straylight, 2019 - collage dell'artista Luca Rubegni
A sinistra: Marisa Merz “Untitled” 1966, MoMa – a destra: Anna Franceschini, Villa Straylight, 2019 – collage dell’artista Luca Rubegni