AL DUE PREFERISCO L’UNO + UNO

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GIULIA SERI X FEDERICO PALUMBO

Giulia Seri (Roma, 1988) è un’artista che vive e lavora a Firenze. La sua duplice formazione, mossa fra l’ambito scientifico e quello artistico (ma ha davvero senso  ragionare per comparti diversificati e separati?), oltre ad essere un fattore biografico, ci è servita per iniziare il confronto che segue. Questa chiacchierata si poneva infatti l’obiettivo di analizzare ciò che ruota attorno al lavoro dell’artista, cercando di toccare tutti i vari rimandi che nelle varie opere emergono.  

Un lavoro denso, ricco e composto da diverse tematiche che però non vanno mai ad opprimere l’esito estetico, sempre elegante e non caotico. Una ricerca, insomma, che volevo approfondire a tutti i costi e che l’artista ha raccontato con estrema semplicità.  

L’arte contemporanea ha più che mai bisogno di questa complessità. 


Autoritratto da bambina, 2021. Caffè, acquerello, pastello su carta. 23 x 30 cm – courtesy of the artist

Federico Palumbo: La prima domanda che vorrei porti è riferita alla tua formazione. Ti sei laureata in biologia all’università di Firenze e poi, dopo questi cinque anni, hai frequentato diverse scuole di specializzazione artistica. Quanto è importante questa duplice formazione nel tuo lavoro?  

Giulia Seri: Per molto tempo ho pensato di aver sbagliato semplicemente strada, di aver perso tempo. Solo ultimamente mi sono riappacificata col mio percorso di studi, riuscendo a introdurre la biologia all’interno delle opere. L’approccio prettamente scientifico non fa per me, credo che sarei davvero stata una pessima biologa. Ma ho amato molto tutto quello che ho studiato, forse da un punto di vista più filosofico che scientifico…la biologia studia la vita, e l’interesse nei confronti della sua formazione e del suo perseverare resta senza dubbio il centro di tutto il mio lavoro.  

F.P.: In particolare, la tua formazione ‘diversificata’ ci offre la possibilità di affrontare alcuni temi assai importanti per la ricerca contemporanea. A uno studio scientifico corrisponde una carriera artistica, dove due mondi (apparentemente) distanti, in realtà, vanno a fondersi insieme (penso soprattutto al tuo progetto Bios). Quanto credi sia importante, nell’epoca contemporanea in particolare, non ragionare attraverso comparti diversificati? Credi, insomma, che l’arte abbia bisogno di aprirsi anche a diverse altre metodologie e discipline che invece, forzatamente, vengono spesso considerate in antitesi o distanti?  

G.S.: Cedo che i “comparti diversificati” stiano già svanendo da tempo per molte discipline. Fisica e filosofia, ad esempio, sono nate assieme prendendo poi strade diverse e contrapposte nel corso dei secoli, per tornare poi a intrecciarsi in tempi moderni. 

L’arte non è una disciplina come queste: non utilizza il “logos”, di cui si servono le altre, è la manifestazione di qualcosa che il “logos” non può spiegare. Ma questo “qualcosa” può essere suscitato da tutto: lo si può trovare nell’osservare un fiore o ragionando su una serie numerica. Niente è in antitesi o distante dall’arte, nel momento in cui stimola quel “qualcosa” che muove la creazione.  

F.P.: La ricerca artistica secondo te dovrebbe essere considerata socialmente e culturalmente fondamentale tanto quanto quella scientifica?  

G.S.: La scienza “serve”, l’arte “bisogna servirla”. Viviamo in una società concreta, pragmatica. È ovvio che le necessità primarie siano di questo stampo. L’arte è inutile sotto questo punto di vista, e così deve essere. La ricerca artistica non potrà essere considerata al pari di quella scientifica finché non ci sarà un’evoluzione “spirituale” della società, una presa di coscienza sul valore dell’inutile derivante da un ragionamento profondo sulla nostra transitorietà.  

Detto questo, resta giusto educare e diffondere cultura, nonostante il mio pessimismo credo si debba ancora lottare per sostituire l’introspezione all’alienazione.  

F.P.: Nel tuo lavoro mi sembra che il tema del ‘contrasto’ giochi un ruolo fondamentale. Sofferenza, turbamento, spigolosità delle forme, rimandi a pulsioni ancestrali, si scontrano con un linguaggio ‘pulito’. La leggerezza dell’acquerello o la piccole dimensioni delle sculture amplificano tali concetti. Qual è la genesi “tipo” di una tua opera? E come scegli di utilizzare un medium piuttosto che un altro?  

G.S.: Il contrasto è molto importante, credo sia da questo stridere tra forma e contenuto che scaturisca quel fastidio, quel disagio inspiegabile che vorrei evocare. Il mio obiettivo è che le opere siano “delicatamente aggressive”. Credo che questa esigenza nasca dal mio passato di  bambina e adolescente fragile cresciuta in un ambiente piuttosto aggressivo, col quale non sono mai riuscita a entrare in contatto, e che ho subito. Ho notato che lavorando tendo a tornare a quelle sensazioni, e a posteriori rivedo nelle cose che faccio quei tumulti inespressi nascosti in una bambina silenziosa. Le cose nascono così, tornando piccola e pasticciando. La scelta del  medium spesso è parte di questo pasticciare: magari mi viene in mente di lavorare col pane, o con l’argilla, ma non c’è mai un’idea troppo precisa di cosa ne uscirà.  

F.P.: L’elemento mitologico è spesso solida base tematica nei tuoi lavori. A questa mi pare di capire vengano associati disturbi psichici – o meglio, esistenziali – umani. Le nevrosi vengono quindi sviscerate tramite rimandi simbolici. La serie Hungry e soprattutto Amduat risultano emblematiche in tal senso. Ce ne parli in maniera più approfondita?  

G.S.: Sono sempre stata una grande appassionata di mitologia, mi ha sempre affascinata il pensare che l’uomo di ogni civiltà abbia sempre avuto bisogno, là dove il “logos”, la razionalità, non bastava più, di creare e inventare la sua origine e il senso del suo esistere. La parola simbolo significa “mettere insieme”, ed è quello che fa l’arte: l’artista crea un oggetto caricato di un contenuto, al quale ognuno associa poi la sua parte, il suo vissuto, e questo “mettere insieme” è qualcosa di unico e irripetibile per ognuno.  

In Amduat ho ricreato degli oggetti interpretandoli secondo la mia visione: il percorso del defunto verso l’aldilà descritto dal libro dei morti degli antichi egizi è diventato il percorso attraverso la nevrosi. Le ushabti (trad: coloro che rispondono) erano statuette rappresentanti il defunto e che avrebbero risposto al dio Osiride sostituendosi al deceduto nei lavori nell’aldilà: le ho reinterpretate in un’installazione composta da 366 sculture, un’opera sulla depressione, nella quale immagino la persona affetta chiamata a compiere delle azioni quotidiane, a rispondere non a un dio, stavolta, ma alla vita di tutti i giorni. Ecco allora che le ushabti, ossia immagini della persona stessa, rispondono, sorridono, lavorano, parlano e sembrano vivere normalmente.  

Ushabti (coloro che rispondono), 2020. 366 sculture in creta dipinta, legno, filo d’acciaio. 150 x 180 cm – courtesy of the artist

La cera era il materiale utilizzato per la scrittura; le tavolette della mia installazione, però, si presentano illeggibili, riuscendo, con segni incomprensibili e inclusioni di capelli e polvere, a trasmettere solo la piena incomunicabilità del dolore. 

Anche il pane, simbolo di nutrimento e vita, è stato utilizzato per realizzare la sfinge, guardiana protettrice ma il cui nome ha la minacciosa etimologia di strangolatrice, e le tre sculture antropomorfe, che richiamano delle mummie, associate all’anoressia, al rifiuto del cibo come del proprio corpo, restando sospese tra la vita e la morte.  

Ad ogni modo, come per ogni opera, ognuno dovrà “mettere insieme” il suo significato. Dare una spiegazione univoca all’arte uccide il suo aspetto simbolico.  

Sfinge, 2020. Pane e cera. 87 x 38 x 53 cm – courtesy of the artist

F.P.: Durante la mostra Site-Specific Atto I/Presente Indicativo, organizzata da ViaGulli37, ho avuto modo di vedere alcuni tuoi lavori dal vivo. In particolare, gli acquerelli, mi hanno portato a pensare quali fossero i tuoi ‘riferimenti storici’. Ovviamente, a un primo sguardo, l’elemento espressionista –  privato però qui della violenza cromatica – emerge facilmente. E poi Egon Schiele o alcuni lavori  bidimensionali di Marisa Merz. Questa è una domanda che mi piace sempre fare agli artisti con cui parlo e, in particolar modo, con te, data la tua formazione. Hai qualche Maestro del passato che in qualche modo ti ha dato molto a livello formativo?  

G.S.: Ovviamente le influenze sono tante, consce o meno. Credo che abbia avuto influssi potenti su di me l’estremo simbolismo e la sintesi visiva dell’arte antica, egiziana in particolare. L’elegante austerità delle forme greco-romane. I colori e i volti di El Greco. Citi giustamente la potenza espressionista e i corpi deformati di Schiele, ma anche le atmosfere disagianti di Francis Bacon, James Ensor, Otto Dix. Voglio anche citare Miriam Cahn, con i suoi volti sfumati, e i lavori devastanti di Carol Rama.

 

Bambina, 2020. Pane e filo di cotone. 48 x 15 x 5 cm – courtesy of the artist
Tavola anatomica, 2021. Caffè, acquerello, pastello su carta. 56 x 76 cm – courtesy of the artist

F.P.: Hai progetti a cui stai lavorando dei quali puoi spoilerarci qualcosa?  

G.S.: Molti tutti insieme, come sempre, il mio motto ormai è “affannarsi senza un perché”! Al momento sto portando avanti un progetto sull’infanzia, in particolare sulle bambole. Pensare all’infanzia, a prescindere dal mio trascorso, mi fa pensare al tempo perduto, alla velocità con cui i giorni e gli anni si consumano, mi fa pensare inesorabilmente alla morte. L’opera che sto realizzando in questi giorni si chiama “ossa di bambola”: si tratta di uno scheletro in ceramica di piccole dimensioni, con dei dettagli in filo di cotone. Le ossa sono il simbolo della morte, ma essendo la parte più duratura del nostro corpo hanno sempre rappresentato anche la speranza nella rinascita. Ho voluto così associarle alla bambola, come tracce immortali di qualcosa di perduto, e dal ricordo amaro.  

F.P.: Come fan sfegatato delle tue Bambole anatomiche vorrei approfondire con te questa serie. Qui mi sembra esserci una perfetta fusione tra tutti gli elementi che nei tuoi diversi lavori si manifestano. La consideri una sorta di ‘evoluzione’ della tua ricerca?  

G.S.: Innanzitutto grazie dell’apprezzamento! Non so se si tratti di un’evoluzione, di sicuro sono  una sintesi, in forma e contenuto, di lavori e tematiche precedenti. 

Si ispirano alle riproduzioni mediche di organi e apparati, “nature morte” inquietanti che ci ricordano la materia di cui siamo fatti, e che, inevitabilmente, rimandano alla nostra finitezza. Ho  voluto usare un tono giocoso e infantile, come quello di un bambino che, stupito e affascinato, osserva le riproduzioni anatomiche in un museo di storia naturale facendo il suo primo minaccioso incontro con l’idea della morte.  

Bambole anatomiche, 2021. Ceramica smaltata, 5 sculture, 28 x 8 cm ognuna – courtesy of the artist

F.P.: L’ultima grande tematica lasciata forse in disparte è quella del ‘caso’. Essa, infatti, è onnipresente nel tuo lavoro. E mi piacerebbe in qualche modo analizzarla più nello specifico. Anche perché, visto che ne abbiamo parlato poco fa, anche qui mi sembra ci sia un gioco di contrapposizioni: nuovamente a un linguaggio pulito e leggero – che da l’idea di una metodologia studiata e precisa – si contrappone l’elemento casuale. Siamo forse di fronte, in tutta la tua opera, al perfetto equilibrio tra opposti — che è poi la vita reale ed universale?  

G.S.: Il caso è fondamentale perché mi aiuta ad eliminare la volontà, la parte razionale, il “logos” di cui parlavo prima. Molto spesso verso del caffè sui fogli o sulle tele, e semplicemente seguo con la pittura le macchie che si formano. Per la scultura, inizio a modellare l’argilla e la lascio prendere forma. L’idea nasce da sé, pian piano, attraverso le mani. Tutta questa parte “inconscia”, successivamente, viene analizzata e interpretata, e trovo sia fondamentale farlo per avere consapevolezza di sé, del proprio lavoro, e per farlo maturare. Ma è molto raro che io modelli un’opera su idea, avviene quasi sempre il contrario.  

Il linguaggio delicato, leggero, non è una metodologia, tantomeno studiata: credo sia più semplicemente il mio linguaggio naturale, il modo più intimo che ho di esprimermi e di interpretare, abbracciandolo, il caso. Non vedo l’elemento casuale come contrapposto, quanto come perfettamente assorbito e integrato. La contrapposizione, credo, risiede più tra la fragilità e il contenuto doloroso. E questo, sì, fa parte della vita reale e universale, e molto di rado è in perfetto equilibrio.  

F.P.: Come sempre, ultima domanda utopica: se avessi budget e spazi illimitati, che cosa andresti a realizzare?  

G.S.: Devo dire che lavorando felicemente a casa e col piccolo formato, non ho particolari  frustrazioni dovute alla mancanza di mezzi, ma sono sicura che se avessi una casa più grande, mi cimenterei in sculture di dimensioni maggiori. Oltre, ovviamente, al riempire in tempi record ogni spazio possibile!

La paura, la fuga, 2020. Cera, polvere, capelli, carta su mdf. 15 pezzi da 15 x 20 cm – courtesy of the artist
Bìos, 2020. Acquerello su carta, vetrini da microscopio, scatola di legno. 23 x 10 x 3 cm – courtesy of the artist