DOMENICO RUCCIA X FEDERICO PALUMBO
Domenico Ruccia mi parla del suo colossal all’italiana e già qui mi rendo conto di quanto una certa cultura cinematografica sia fondamentale per lo sviluppo di una propria ricerca pittorica. I suoi lavori, infatti, non subiscono nessun peso dettato da un richiamo nostalgico verso un’infanzia estetica che risulterebbe non del tutto riconoscibile. L’artista, piuttosto, prende spunti – cita – e rimpasta tramite segni a grafite taglienti come le battute che incalzano gli attori ne Il Settimo Sigillo e sfodera pennellate cromatiche leggere ma allegre, come le scenografie dei cinepanettoni italiani. Allo stesso modo, rimescola stili differenti ma potenzialmente stabili se appositamente dosati: un pizzico di Peter Blake, una sfumatura alla Salvo e una citazione dechirichiana postmoderna, il tutto inserito in un ambiente che ricorda i celebri lavori di Hockney (solo per citarne qualcuno e per fare un canovaccio utile per l’introduzione).
Non c’è solo citazione, ovviamente. Perché la pittura è divertimento, diletto, cultura – popolare e intellettuale, se mai ci sia una differenza o distinzione fra e due – e come tale va trattata. Domenico pare divertirsi. Noi pure.
Per lo meno io.
Federico Palumbo: Sei un pittore instancabile, che ama dipingere e questa gioia nel e dell’atto si esprime benissimo all’interno dei tuoi lavori. Questi, a loro volta, la restituiscono al pubblico con forza, lasciandola esplodere definitivamente ma dolcemente.
Vorrei però far partire la nostra chiacchierata da un altro elemento, che ritengo possieda comunque una forza disarmante – tanto quanto i lavori pittorici – ovvero il disegno. Perché se è vero che il colore aiuta a far emergere l’edonismo di cui tutti parlano quando citano il tuo lavoro, mi sembra che il disegno esprima una forza espressiva pungente, netta e lineare, proprio come l’ironia che permea l’intero tuo lavoro.
Domenico Ruccia: Il disegno è il punto di partenza del mio percorso, è alla base del mio lavoro pittorico. Non potrei assolutamente concepire un’immagine senza lo strumento del disegno. Mi è inoltre indispensabile per sintetizzare gli elementi compositivi e a dare una direzione certa e definita all’immagine che voglio creare.
È il vero banco di prova, dove sperimento i soggetti ed il loro contesto, e dato che il mio segno è spesso deciso ed essenziale, è solo attraverso questo strumento che mi accorgo davvero se un’idea funziona o meno.
Considero i miei lavori su carta e i miei disegni come opere a sé, che non hanno necessariamente bisogno di evolversi in un dipinto o di sfociare nel colore. Ultimamente utilizzo molto il mezzo digitale e disegno spesso con la tavoletta grafica.
F.P.: Alle volte il colore può addolcire una forza espressiva in realtà tagliente che invece i disegni esprimono inequivocabilmente.
D.R.: Immagino sia vero, ma più che addolcire direi ampliare. È evidente che il disegno, grazie alla sola presenza della linea, riesca in molti casi ad essere diretto e immediato, ma allo stesso tempo il colore può amplificare l’idea originaria in molteplici aspetti che con il solo disegno sono inevitabilmente sottesi.
Forse è proprio questo il fascino delle due pratiche, e lo subisco completamente: ho bisogno di entrambi i linguaggi per poter definire un’immagine, o perfezionare un concetto. A volte per approfondire un’idea ho bisogno di lavorare su carta e su tela contemporaneamente, producendo più lavori sullo stesso tema, e in questo percorso la linea e il colore sono entrambi essenziali per me.
F.P.: Leggendo il testo di Federica Fiumelli e l’intervista a cura di Alberto Ceresoli e Carmela Cosco vengo a conoscenza delle diverse influenze artistiche che hanno avuto un peso nel tuo lavoro. In particolare vengono citati Hockney, Salvo e Casorati. Tutti riferimenti visivamente riconoscibili e facilmente digeribili. Si parla anche parecchio di un’italianità iper presente che muove dalle fondamenta la tua ricerca. Vorrei quindi approfondire il tema insieme a te.
D.R.: Gli artisti che hai citato fanno sicuramente parte della mia formazione in maniera imprescindibile, li ho osservati e studiati sin da quando ero bambino e credo abbiano definito
quelle che sono poi diventate le coordinate della mia pittura: la linea che definisce le figure e la composizione, l’importanza e la vivacità del colore.
L’italianità di cui parli è invece qualcosa di cui ho sentito il bisogno nel prosieguo, quando cercavo una direzione definitiva nel mio percorso: ho cercato di valorizzare il mio dato biografico, di non ignorarlo ma al contrario di farne un punto di forza; credo che questa consapevolezza possa rappresentare un valore aggiunto nella mia ricerca.
Il mio immaginario ed il mio atlas sono totalmente influenzati dalla cultura anglofona, in particolare dal mondo della moda e dello spettacolo americano. La mia generazione è cresciuta con quelle immagini, e la versione nostrana dello star system e della cultura pop internazionale aveva sempre qualcosa in meno, era pur sempre una versione “all’italiana”: ricordo in tv il nostro “Top of the Pops”, o il format di programmi e trasmissioni nate in America e poi riproposte nei nostri canali.
Ho pensato che evidenziare questi aspetti potesse essere interessante dal punto di vista estetico, proprio perché proposti da un artista italiano che subisce inevitabilmente il peso del nostro passato artistico: credo che si possa creare del bello mettendo a paragone queste due realtà, evidenziando il limite del mondo dello spettacolo italiano a recepire modelli stranieri.
F.P.: Pensi che esista ancora – oppure ci sia una nuova – italianità nel fare artistico e soprattutto nella pittura contemporanea?
D.R.: Penso che non ci sia stato un reset completo ma che al contrario, come in tutte le cose, la pittura italiana contemporanea sia cambiata e in alcuni casi si sia adeguata – nel senso non negativo del termine – al contesto internazionale: se si pensa ad artisti come Guglielmo Castelli o Patrizio Di Massimo ci si accorge di quanto questi siano attenti al contesto internazionale, e di quanto la loro pittura sia spendibile in tal senso.
E’ un pò come nel mondo della musica: è inevitabile che il rap sia diventato tra i generi più ascoltati in Italia; è anche ovvio che lo stesso non abbia origini nostrane, ma è assolutamente normale parlare oggi di rap italiano. Lo stesso discorso può esser attuato, con le dovute precisazioni, alla pittura.
F.P.: Parli anche molto spesso di ‘citazione’. Tale termine credo sia sempre di più un’arma a doppio taglio. I detrattori della pittura la reputano ‘accademismo svogliato’, mentre alcuni artisti ne abusano. Io credo invece che sia uno strumento molto importante se usato con criterio. Che rapporto hai con questo elemento?
D.R.: Credo che la citazione sia tuttora un elemento estremamente presente nell’arte, e in particolar modo nella pittura: abbiamo in gran parte ereditato il suo uso dal post moderno, nonostante sia stata sempre presente; ora è diventata parte integrante del meccanismo creativo e del linguaggio contemporaneo.
Immagino di utilizzarla nel modo a me più consono, ovvero nella misura in cui possa rendere ancora più completo e sofisticato il mio lavoro: mi accorgo di quanto la citazione possa influenzare i miei progetti, ma ho sempre cercato di bilanciarla al meglio, evitando una dipendenza completa e al contrario trasformandola in una delle molteplici caratteristiche del mio lavoro.
F.P.: Noto anche che è presente un’auto-citazionismo – figlio dell’ultimo periodo dechirichiano? – all’interno dei tuoi lavori. Mi sembra sia in sintonia con il tuo indiscutibile piacere nel dipingere, con questa evidente gioia nel rappresentare un periodo volutamente cool e a tratti trash. È così?
D.R.: Assolutamente sì. L’idea di abbracciare quel mondo – intendo l’immaginario anni 70’ e 80’ dal quale spesso attingo – mi ha necessariamente posto di fronte al problema di gestire le diverse modalità della citazione. Credo che l’auto-citazionismo sia una naturale evoluzione di questo processo: è la consapevolezza di aver raggiunto un linguaggio autonomo dal quale paradossalmente, riproponendolo, se ne prendono le distanze.
L’utilizzo in nuovi dipinti di immagini e personaggi già rappresentati in passato è per me il modo di chiudere un cerchio, di cristallizzare temi già affrontati precedentemente e di trarne del buono per avere continuità. Penso che ci sia anche una tendenza autocelebrativa in tutto ciò, ma la reputo funzionale alla ricerca e mai fine a se stessa.
F.P.: Fantozzi, la Morte de Il Settimo Sigillo, la commedia sexy all’italiana o il cinema d’autore sono alcune delle tematiche e dei riferimenti visivi rielaborati nella tua opera. Non ci leggo né una critica e neppure un
“quello è il meglio; quello è peggio”. Noto, piuttosto, un interesse per un preciso periodo storico che può stridere se paragonato con l’altro, ma che non crea collisioni. Come scegli gli accostamenti che dipingi?
D.R.: Alla base della scelta degli accostamenti c’è la volontà di non creare delle gerarchie tra le immagini, ma al contrario di porre sullo stesso piano citazioni del passato eterogenee e non facilmente sovrapponibili: questo perché non vi è la necessità di un giudizio, né l’obbligo di veicolare un messaggio; percepisco al contrario la voglia di fondere diversi elementi che sono presenti nel mio atlas, e di collegarli esclusivamente mediante il mio linguaggio ed il mio modo di dipingere.
La scelta è spesso intuitiva, ma solo poiché a monte c’è già stata una selezione generale delle immagini e dei temi da includere nei miei lavori.
F.P.: I titoli sono un altro elemento fondamentale all’interno del tuo lavoro. Ne parlavo già diversi mesi fa con Giulio Saverio Rossi, vedendo nella cosa un legame con un preciso periodo storico e uso che alcuni artisti italiani ne hanno fatto. Vorrei dunque approfondire con te il discorso.
D.R.: Domenico Ruccia: Ripongo molta attenzione nei titoli, per diverse ragioni. Pur scegliendo il nome sempre dopo aver completato un dipinto, molte volte ho già un’idea di quale possa essere il titolo di un work in progress. Mentre dipingo immagino dei riferimenti musicali o cinematografici, e li cerco di collegare all’immagine e ai soggetti che ne fanno parte … mi piace inventare delle storie che abbiano dei riferimenti reali, che si colleghino ad episodi, vicende o opere che intendo omaggiare.
Il mio modo di intitolare i quadri è poi un sincero omaggio al cinema italiano degli anni 70’: sono stato sempre affascinato dal modo di intitolare alcune commedie e polizieschi in quegli anni, cito tra tutti “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” di Lina Wertmüller, ma ce ne sono tantissimi altri. Ho pensato: perché non farlo con i quadri? Credo che oltre all’omaggio a quegli anni sia un modo divertente di lavorare.
F.P.: Stai lavorando a qualcosa di nuovo? Qualche cambio di rotta oppure conferme di cui ci vuoi parlare?
D.R.: Sto lavorando ad una mini serie che intitolerò “Spiritus Mundi”. È qualcosa di diverso rispetto ai miei ultimi lavori, eppure c’è una forte continuità. Nasce dalla volontà di racchiudere in un’unica immagine riferimenti che caratterizzano la mia ricerca.
Ci sarà l’immaginario che mi caratterizza e anche alcune autocitazioni, ma l’obiettivo principale è quello di realizzare un collage interamente dipinto che ricorda la grafica digitale degli anni 90’.
F.P.: Se avessi spazi e budget illimitati, che cosa realizzeresti?
D.R.: Probabilmente un film, anzi un colossal con tutti i miei personaggi ed il mio mondo… un Dune dell’84’ che sembra più una commedia all’italiana