SIMONE SCARDINO X VIRGINIA VALLE
Simone Scardino, artista classe 1995, focalizza la sua ricerca sulle tematiche ecologiche capaci di approfondire la relazione tra gli esseri viventi e i loro ambienti. In particolare analizza il modo in cui queste due entità si contaminano, in un’epoca in cui tessere dei legami (making kin, direbbe Donna Haraway) è diventata l’unica soluzione per imparare a co-abitare e tutelare la salute del nostro pianeta.
È stato protagonista nel 2017 di una personale nella Galleria Raffaella de Chirico a Torino e successivamente di svariate collettive. Dal 6 giugno invece potrete vedere il suo ultimo lavoro, You and I see the same way, negli spazi della Reggia di Venaria Reale all’interno della mostra RigenerArti.
Virginia Valle.: Iniziamo dalla tua formazione. Nel 2018 ti sei laureato all’Accademia di Belle Arti di Torino in Grafica d’Arte e ora stai frequentando il biennio di Scultura e Arti Visive nel medesimo ateneo. Come ti sei approcciato all’arte e perché questo passaggio alla scultura?
Simone Scardino: Sì, ho sempre percepito l’incisione e l’atto che ne consegue come qualcosa di primordiale, primitivo, e allo stesso tempo intimo, come disegnare sulla sabbia con un legno trovato a fianco a sé. Ciò che mi ha sempre affascinato dell’incisione è il suo rapporto con il tempo, la relazione tra l’immagine rappresentata ed il lasso di tempo da cui essa dipende. Utilizzo un lavoro calzante al discorso iniziato per introdurre il passaggio che mi ha avvicinato alla scultura. Ero in Sardegna, ospitato da una cara amica del tempo, Sara, con la quale abbiamo passato insieme una fantastica estate. In questa piacevole cornice realizzai il lavoro Masua, un’incisione realizzata mediante l’immersione della lastra nelle acque salate del mare, accarezzata da dolci onde di giorno, completamente sommersa durante la notte. Il sale e la salsedine hanno eroso lentamente la superficie, onda dopo onda, producendo una volta in stampa un effetto grafico del tutto inaspettato. Il mio desiderio era quello di imprimere sulla lastra il respiro del mare, l’amore perpetuo tra il mare e la Luna, la marea. Questo fu il primo lavoro ad introdurre un interesse nei confronti dell’atto performativo, dell’installazione, del lavorare sul-luogo e con-il-luogo, e soprattutto fu attraverso questo lavoro che capii la potenza del minimo, la ricchezza del fare il meno possibile. Per questa ragione mi iscrissi alla scuola di Scultura. Non mi è mai interessata la Scultura in sé, anzi, non possedendo alcun tipo di preparazione accademica riguardo le attività scultoree, non mi definisco uno scultore, utilizzo però il linguaggio installativo come mezzo espressivo.
V.V.: Centrale nella tua ricerca è l’interesse per l’ecologia. Come ti sei approcciato a questo tema e perché hai scelto di inserirlo nel tuo lavoro?
S.S.: Mi sono interessato alle teorie ecologiche relativamente di recente, esattamente un anno fa, coincidendo con il primo lockdown e l’inizio di un corso di Ontologia della Progettazione presso il Politecnico di Torino, a cura del professore e filosofo Leonardo Caffo, a cui porgo ancora oggi i miei ringraziamenti. L’interesse verso l’ecologia è nato cercando di spiegarmi la situazione di pandemia alla quale eravamo e siamo ancora oggi sottoposti. Molte persone quando sentono parlare di ecologia, pensano immediatamente alla sostenibilità, al riciclo, alle campagne green che lapidano ogni utilizzo di materiale non organico o sintetico. Beh, è tutto corretto, ma l’ecologia non è solo questo. Una filosofa contemporanea al centro di questo dibattito, Donna Haraway, si è espressa molto su questo argomento, sottolineando l’esasperato utilizzo della parola sostenibilità: Sostenibile a cosa?, rimarcando il fatto che, per quanto si possano utilizzare materiali alternativi a basso impatto ambientale, la grande macchina di cui facciamo tutti noi facciamo parte, resta sempre una ed una soltanto, quella capitalistica. Ed è da questa da cui dovremmo fuggire.
L’ecologia in sé studia le profonde relazioni che intercorrono tra le specie e l’ambiente in cui esse stesse vivono. Pensare che l’ecologia tratti solo della specie umana, delle sue strane abitudini e di tutto ciò che ne consegue è un eufemismo, un altro tentativo di narcisistico egocentrismo specifico. Un modo efficace di operare oggi penso sia quella di fare rete. L’ecologia in questo caso ha tanto da insegnare, così come alcune forme di antropologie; trovo che studiare il diverso, inteso come tutto ciò che non è umano, serva a comprendere il profondo significato della biodiversità e le ecologie dei diversi ecosistemi. Il mio tentativo è quello di restituire importanza a questi concetti, i quali sono stati elusi o sostituiti con altri più aderenti al modello di vita occidentale. Fare arte tenendo gli occhi aperti su quelle che sono le urgenze e le emergenze ecologiche mi aiuta ad avere un quadro della situazione più netto e definito. La mia missione è dunque quella di destrutturare il modello antropocentrico di abitare Terra utilizzando ciò che più mi piace fare, cioè arte.
V.V.: Quali sono i tuoi punti di riferimento su questa tematica?
S.S.: Fortunatamente oggi il tema dell’ecologia sta avendo una forte risposta e l’ambiente artistico riesce ad amplificare bene, come una cassa armonica, il messaggio di filosofi e antropologi che da generazioni cercano di sensibilizzare le persone alla forte crisi di senso a cui il genere umano non sa ancora rispondere. In Italia osservo attentamente gli studi di Emanuele Coccia, penso che il suo lavoro sia un enorme punto di forza per chi, come me, si occupa di questo tipo di ricerca, legata sia alle più recenti pratiche artistiche, tanto quanto alla difesa ideologica ma altrettanto pratica di fondamenti ecologici. Tra tutti i concetti di Coccia quello che più mi affascina è quello della trasparenza, e qui cito un passaggio del saggio La vita delle Piante – Metafisica della mescolanza (il Mulino, 2018, p.116): “Tutto ciò che vive su Terra ha natura astrale. Non v’è che cielo, ovunque, e la terra ne è una porzione, uno stato di aggregazione parziale.” Le piante si fondono in modo così omogeneo col cosmo (astri) da rendere impossibile vedere la sutura, diventando un tutt’uno indistinguibile. Le piante si fanno attraversare dalla luce, non sono ostacoli né limiti, ma autostrada, incubatori di vita.
Un altro studioso che incontro spesso nella mia ricerca è Stefano Mancuso, direttore del LINV (Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale) di Firenze, i cui studi offrono risposte, da un punto di vista più scientifico, alla forte crisi di senso accennata poc’anzi. Il nocciolo della questione è il fatto che il genere umano ha da sempre escluso dal grado di vivente il mondo vegetale. Abbiamo sempre pensato che le foreste fossero semplicemente il mondo esterno, inerte, il mondo fuori dalle città. Infatti la parola foresta significa al di fuori, fuori dalle mura del castello. (Da qui forestiero, colui che viene da fuori).
Il grave problema risiede proprio in questa sottile distinzione, delineando un interno ed un esterno ha fatto sì che si generassero muri ideologici e luoghi di appartenenza. Capire che fondamentalmente tutto il disastro ecologico è mosso da un problema di spazio fa riflettere molto. Infatti oggi ne paghiamo il prezzo: il confinamento, la quarantena, uno dei tanti aspetti non felici che può offrire il futuro a cui stiamo andando incontro. Avere coscienza dell’altro, umano e non-umano, è la cosa più importante in questo momento. Mancuso dà libertà alla conoscenza che ci sono altre forme di intelligenza e di comunicazione, quella vegetale. Penso che sia doveroso ascoltarle. Ritornando per un istante a Coccia, in una conferenza intitolata Foreste Plurali tenuta un paio di anni fa al Pirelli HangarBicocca di Milano ha concesso un punto di riflessione molto acuto riguardo il paesaggio artistico contemporaneo. Coccia definisce la mostra come dispositivo di avvicinamento di oggetti (inteso come saperi) che nella realtà sono distanti, o almeno, così ci appaiono. In questo senso il luogo espositivo diventa il luogo che studia e diffonde i saperi in modo interdisciplinare contemporaneamente, in cui gli oggetti comunicano tra loro in maniera interdipendente con lo spettatore. L’arte in questi termini funziona esattamente come un ecosistema, dimensione orizzontale in cui tutti gli esseri viventi occupano un luogo e vivono in modo simbiotico lo spazio, condividendolo con le altre specie che ne fanno parte. Arte-foresta.
V.V.: Nel progetto From my mistakes I have made a garden (2020) rifletti sulla relazione tra l’ambiente naturale e quello umano e sulla necessità di pensare un futuro che ne presupponga una coesistenza più pacifica. Ci puoi raccontare questo lavoro?
S.S.: Esattamente, come giustamente hai elaborato, il progetto From my mistakes I have made a garden nasce da questi presupposti. Ogni fiore è costituito da un eccesso di materiale prodotto, frutto di un mio errore di proporzione. Durante il 2020 ho lavorato, per pagarmi studi e bollette, a fianco di un abile artigiano specializzato in ceramiche. La terracotta era diventata la mia quotidianità, e realizzavo moltissimi stampi in gesso per la formatura di grandi vasi, comignoli, e qualsiasi altro genere di oggetto che ci veniva richiesto di realizzare. Il gesso (così come il cemento) è un materiale in origine amorfo, quasi subdolo, trae sempre in inganno, e le quantità che vengono prodotte possono variare quasi inspiegabilmente. Lo spiego con questa ironia perché il lavoro nasce da questa leggerezza, anzi, mi accorsi solo dopo, in corso d’opera, di star realizzando qualcosa. Il titolo del progetto è giustamente esplicativo, da ogni mio errore ho fatto un giardino: ogni volta che producevo un eccesso di materiale, gesso o cemento, invece che gettarlo via, davo origine ad un fiore per mezzo di vecchi stampi floreali. Un fiore fittizio, certo, ma è proprio lì che sta il punto. Non ho prodotto un giardino di profumi, di colori, un allegro parco giochi per insetti e piccoli uccelli, ho realizzato l’idea concreta di un giardino, incarnata dallo spirito ecologico. Il giardino, o l’attività del giardiniere, come spiega Gilles Clément è un esercizio quotidiano, e per me e per chi ci crede, anche l’attività artistica lo è. Mi piace pensare che l’esercizio artistico sia per il più delle volta inutile, non richiesto. Assolutamente parallelo alla vita di tutti i giorni, se non in qualche episodio in cui le due linee, arte e vita, si incontrano. In quel periodo scelsi di iniziare un percorso che mi avvicinasse alla ceramica, da cui trarre naturalmente anche sostentamento economico. In quella dimensione non mi era richiesto di non gettare via nulla o di non produrre materiale di scarto. Nell’ambiente lavorativo umano è giustificabile pensare che ci sia sempre una percentuale di materiale scartato. Anzi è allarmante il fatto che questo indice di valori è sempre più crescente. Al contrario, la Natura opera esattamente l’opposto. Pensare che ogni foglia della chioma di un albero muoia per contratto annuale d’autunno e si vada a depositare alla sua base per divenire humus, ovvero sostanza nutritiva per il fabbisogno dell’albero stesso. In questi termini il sistema albero è un riciclo continuo, anzi, si può dire che fondamentalmente l’albero è composto sempre dalle stesse foglie, nel tempo, ovunque. Nel progetto From my mistakes I have made a garden ho voluto operare esattamente come fa un albero: ognuno di noi ha il proprio autunno, sta a ciascuno decidere che forma dare o in che forma rinascere la prossima Primavera.
V.V.: La coesistenza sopra citata diventa totale nell’opera Cercavo il cielo in una pianta (2020).
S.S.: Sì, è esatto. In tanti lavori cerco di applicare un modello alternativo di azione, basato su rapporti orizzontali e di collaborazioni, piuttosto che di elaborazioni. L’oggetto della mia indagine è la costante ricerca di nuovi modelli di adattamento, prendendo spunto da forme di vite altre, come nel caso del progetto Cercavo il cielo in una pianta, in cui è per l’appunto una pianta apparentemente comune a raccontare una storia singolare. Per me è molto importante cercare di evitare il più possibile il fare – contro qualcosa, ed invece fare il più possibile con la cosa stessa, istituendo così nuovi rapporti i quali sedimentano intimamente reciprocità. Il fare-insieme, un dare e ricevere. È il principio stesso dell’ecologia, comprendere che ad ogni nostra azione, dalla più insignificante alla scelta più radicale, è corrisposta una diretta conseguenza. È nostro il compito di valutarne preventivamente l’impatto.
Il progetto Cercavo il cielo in una pianta parte da questi presupposti, e ricrea uno spazio minimo, un modulo a misura d’uomo, in cui all’interno è custodito un altro me vegetale. In questo lavoro intendo rivalutare lo stile di vita dell’essere umano, ponendolo in un’ottica nomade, modello complesso da comprendere, quello del nomadismo, e difficilmente adattabile alla sempre più sedentaria vita del genere umano. In uno dei suoi più recenti film-documentari, Nomad (2019), Werner Herzog, dedica la sua pellicola all’amico, nonché noto scrittore e viaggiatore, Bruce Chatwin, personaggio che abbraccia totalmente l’alternativa nomade. Il motore che azionava il suo movimento era dettato da una costante irrequietezza, cosa in cui non mi rispecchio, però condivido con lui l’idea che il nomadismo stesso sia il genoma primordiale, la nostra intelligenza primitiva che ci spinge alla conoscenza. Non parlo di Google Earth o Streetview, ma un conoscere vero. Il sacco a pelo è una forma archetipica del viaggiare, è un oggetto leggero, trasportabile per brevi o lunghi spostamenti, ed incarna perfettamente il messaggio che volevo inviare con questo lavoro. Intendo valutare la possibilità di vivere senza lasciare tracce, un vivere gentile, un concetto di invisibilità e, come abbiamo già detto, di trasparenza. Mi spiego meglio con l’aiuto di un esempio: quando arriva la sera (o per alcuni, il mattino) ognuno di noi torna a dormire in quella che possiamo definire la propria dimora. Se fossimo abituati a portarci la nostra casa con noi, sulle nostre spalle, e dopo aver riposato, pensare di riavvolgere la casa su se stessa e continuare il nostro cammino, ci aiuta a capire meglio cosa intendo quando parlo di vivere senza lasciare tracce. Senza la necessità che ci siano luoghi o istituzioni fisse in cui rispecchiarsi, ci aiuta a comprendere che non esiste un interno ed un esterno, ma un tutt’uno, insieme ben collegato. Come la luce che attraversa il corpo della pianta e dà inizio al meccanismo, che dà origine a tutta la vita che abbiamo intorno, la fotosintesi: agli occhi del sole, la pianta è trasparente, completamente attraversabile. L’opera si identifica pienamente nel pensiero ecologico contemporaneo, intende cioè abbattere categorie concettuali di natura e di cultura, individuando nella loro distinzione e separazione l’origine dell’ostile relazione dell’uomo con il mondo. Con questo lavoro intendo ripensare un oggetto comune come nuovo dispositivo di contatto con l’ambiente abitato dall’essere umano, specie oggi – più che mai – complessa, da inserire all’interno di un contesto plurale.
V.V.: In lavori meno recenti hai invece indagato le dimensioni spaziali e temporali. Mi viene in mente l’opera Pietra solare (2019) dove la ricerca si rivolge alla lettura di un tempo minerale, primordiale, reso attraverso l’incisione di un blocco di marmo o l’opera Solstizio d’estate (2017) in cui l’indagine sul tempo si riduce all’arco temporale delle 15 ore e 45’ durante il solstizio d’estate, attraverso il tracciamento del passaggio del sole. Come si è evoluta la tua ricerca in questi ambiti?
S.S.: In precedenza, ho accennato al concetto di trasparenza, in proporzione al senso comune che abbiamo di vivere, descrivendo il rapporto endemico tra la pianta ed il Sole. Ecco, la trasparenza è un fenomeno che mi ha sempre affascinato, e sinteticamente, è direttamente connessa con la capacità dei corpi di farsi attraversare dalla luce. Nei lavori che hai citato, quelli di Pietra Solare e Solstizio d’estate, la relazione con la luce è molto forte, anzi direi che è il pilastro su cui regge l’intera ricerca. Come hai ben individuato, l’indagine della dimensione spaziale e di quella temporale è scaturita e messa in atto dalla stessa luce che li anima. In entrambi i lavori ci si trova davanti a degli oggetti, fisicamente opachi, ma contemporaneamente attraversati da una fonte di energia, la luce. In questo senso, ho sempre visto la luce come mordente del reale, esattamente come l’acido morde la superficie della lastra di incisione. Intravedo questi due lavori come dispositivi azionati da un ventriloquo molto lontano, il Sole: non parlando attraverso organi vocali, il sole traveste la sua voce con una pellicola che avvolge il mondo per come lo vediamo. Questo leggero film che si adatta alla realtà percepibile è la luce. Pietra Solare funziona esattamente come un’antica meridiana, condividendo un tempo con chi la guarda, ma vive al contempo da sola come forma impura, una scaglia di marmo. Ritengo il lavoro come un pesante punto aleatorio, il che rende l’enunciato quasi una sfida: l’immagine della pietra, pesante, ed il suo difficile collocamento ontologico, di pietra, di scultura o di orologio, la rende appunto semanticamente leggera. Invece Solstizio d’estate è la sintesi totale, una linea blu, la quale registra la passeggiata del Sole più lunga dell’anno sulla crosta terrestre, appunto il solstizio d’estate, la giornata con più ore di luce. Questi due lavori, così come altri progetti di quel periodo, mi piace inserirli in un momento in cui ho deciso di dare inizio ad una lontana collaborazione in sinergia con il Sole, un lavorare insieme che fa rivalutare il senso della distanza fra i corpi, sensazione che oggi nel 2021 si fa molto stretta, e claustrofobica.
V.V.: Cosa ti aspetti dal futuro? Hai dei progetti che prenderanno forma quest’anno?
S.S.: Sì! In questo momento sto lavorando a due progetti interessanti. Il primo è un progetto che avrà sede nei Giardini della Reggia di Venaria, in cui praticherò un piccolo intervento focalizzato sul senso del vedere. Il secondo è un progetto più ampio, il quale coinvolge due ragazze fantastiche, Irene Coscarella, amica e collega che stimo molto, e Giuliana Meirano, specializzata in Fashion Design alla NABA di Milano. È ancora un progetto work-in-progress, avrà l’aspetto di una video installazione in cui si relazionano tessuti organici e clorofilla.
Quest’anno concluderò il lungo percorso in Accademia Albertina e sono aperto all’ipotesi di continuare il percorso iniziato qui a Torino riguardo gli studi delle teorie ecologiche e le pratiche artistiche, in altri ambienti. Prima però voglio concludere una serie di progetti a cui sto lavorando, i quali mi terranno occupato a Torino ancora per un po’. Colgo l’occasione per ringraziare tutta la redazione di Osservatorio Futura per avermi concesso ampio spazio per esprimere il mio pensiero ed esporre la mia ricerca.