DAVIDE LA MONTAGNA X FEDERICO PALUMBO
Quando Sergey Kantsedal e Ilenia Berra ci hanno messo in contatto con Davide La Montagna abbiamo subito capito di voler fare un qualcosa in grado di mettere in evidenza i focus tematici che compongono la sua opera. A tal proposito, risulta quanto mai emblematico ai fini del mio discorso citare per prima un’opera in particolare che mi ha permesso di comprendere meglio l’attitudine e gli interessi dell’artista. Worry (Teaspoon, fork, glass, stem glass, teacup, saucer, bottle) (2019) materializza un romanticismo invisibile ma non per questo assente — ed ecco i primi due termini che iniziano a formare parte del puzzle: romanticismo e invisibilità. Come in La Bella e La Bestia gli oggetti (tazze, bicchieri, posate) prendono vita diventando vecchi saggi di paese che raccontano la propria storia. Ci dicono con quante persone, inconsapevolmente, hanno avuto una storia d’amore. A quanti individui hanno rubato baci fugaci, da quante mani sono stati delicatamente sfiorati e accarezzati. E così, un gesto quotidiano e apparentemente sgombro di poesia rivela, al contrario, tutta la sua potenza fascinosa. D’altronde, per noi che crediamo che la quotidianità sia in realtà carica di poesia e di storie inedite, pronta a essere prima letta e poi raccontata, è inevitabile e quasi un brutto vizio, non iniziare qualsiasi discorso critico-artistico da un rimando alla nostra ‘biografia’. Ed è proprio ciò che questi oggetti fanno: si liberano dall’immobilità passiva legata alla loro funzionalità e finalmente rivelano la loro intima connessione con noi, troppo spesso inconsapevoli di ciò che viviamo.
Capiamo fin da subito che La Montagna si situa nei meandri e negli anfratti piuttosto che nei loft lussuosi. I simboli diventano quindi gli oggetti apparentemente più insignificanti, o meglio con i quali abbiamo maggiore dimestichezza, più quotidiani o, in alcuni casi, maggiormente fragili e/o umili.
A tal proposito, ecco comprendere lavori come Talk To Me (Like Lovers Do), Untitled (Lovers Amassed on the Square) del 2019 o Scream relaxes me so e Beauty’s summer del 2018. Object trouvé degradati vengono ‘adottati’ dall’artista e custoditi con cura: i primi coperti come una madre farebbe con il figlio prima di metterlo a dormire, proteggendolo dalle insidie della notte; gli ultimi lavati per l’ultima volta, piegati con attenzione e impreziositi con perle inserite fra le pieghe. Ecco enfatizzata nuovamente una faccenda quotidiana, intima, congelata all’interno della sua fine ma pronta per esplodere di nuovi significati.
La cura rappresenta un’altra delle tematiche fondamentali per leggere correttamente il lavoro di La Montagna. Essa si esprime al meglio di fronte a elementi fragili, che realmente hanno bisogno di essere trattati con delicatezza. La fragilità è dunque un qualcosa da difendere, al costo di nascondere le cose alla vista, al tatto e all’olfatto. Opere come A2, C3 e B8 calcano tali questioni. Gli oli e le essenze profumate estratte dai fiori (altri elementi cardine del lavoro dell’artista) vengono custoditi in scrigni che donano al tutto un alone di preziosismo ancora più forte. Diventa impossibile sentire l’odore di queste essenze, il loro profumo si nasconde e ciò che rimane in noi è la consapevolezza che l’assenza si è fatta ora presenza. Diversamente – all’opposto – succede invece nel trittico B8 C3 (2018): l’artista, su alcune tele monocrome, utilizza l’essenza ricavata come se fosse un pigmento. Il profumo rimane e si consuma alla fruizione, come se fosse un essere vivente che compie il suo ciclo vitale, fino a scomparire.
In noi, adesso, rimane soltanto il ricordo (immortalità?) di ciò che era, e la consapevolezza che è svanito (moralità?).
Cosa scegliamo: custodire in scrigni preziosi che non ci permettono di percepire l’essenza ma soltanto immaginarla oppure annusare il profumo in tutto il suo splendore ma destinandolo a una fine precoce?
Credo che anche la questione del recupero e della morte rientri efficacemente nel lavoro dell’artista. Scream relaxes me so (2018) si muove su questi confini labili. O, ancora, September, October, November (2018): che cosa resta a un soldato in guerra in Vietnam se non scrivere sul proprio casco ciò che gli passa per la testa? Brevi dediche o frasi che raccontano i potenziali ultimi attimi della propria vita. E questo aggrapparsi all’arte, per sopravvivere o per dare un briciolo di plausibilità alla sopravvivenza, è ciò su cui verte l’intera opera di La Montagna. Eccolo, infatti, prendere un rossetto e riscriverle su uno specchio, come farebbe probabilmente un adolescente nel privato, all’interno del proprio bagno. Allo stesso modo si muove l’artista in galleria. Proprio come il soldato in guerra.
Volontà di vivere nonostante la fugacità della realtà, del tempo e dell’esistenza. Come il profumo che è destinato a svanire che ma che proprio per questo si carica di poesia. Come le rose appassite che nonostante si deteriorino velocemente col tempo sono ugualmente degne di uno sguardo romantico da parte nostra.
Beauty’s summer (2018) loda proprio la fragilità piuttosto che la bellezza del fiore perfettamente maturo, andando così a costruire inedite composizioni formali, cromatiche e poetiche. Un po’ come John Coplans che scatta autoritratti ritraendo la bellezza passata di un uomo ormai di mezza età.
L’arte, insomma, ha nuovamente il compito di mettere in scena l’invisibile. O, per lo meno, di collegare il visibile al suo (apparente) opposto. E che cos’altro se non l’amore può assumere il ruolo prescelto per veicolare queste due dicotomie? L’amore è ciò che prima di tutto si manifesta in astratto e che poi carica di fisicità ogni cosa. Muovendosi su un filo sottile tra concreto e immateriale l’amore può caricare tutto di simbolismi inediti o archetipi che portano il peso della storia collettiva e personale. Ce lo dimostra il libro d’artista dal retrogusto simbolista che La Montagna ha realizzato su La Sirenetta, metà donna-metà pesce eternamente sofferente a causa della sua forma ibrida, che la porterà a sacrificare la sua essenza per conquistare l’amato-essere umano, trasformandosi in spuma.
Amore, sofferenza, tragicità: la letteratura e, in particolare, la poesia traggono ninfa vitale da questi concetti. Non a caso l’artista ama e scrive poesie e anche le opere che realizza sono da leggersi come tali.
Cosa chiediamo noi all’arte se non questa messa in scena dell’invisibile in grado di donarci l’essenza stessa della vita. L’arte è in grado di mostrare la realtà con occhi inediti, di situarsi nel momento in cui il sipario è sia aperto che chiuso. E infatti Kaya, performance pensata e realizzata per ArtVerona (2019), è ancora una volta un’enfatizzazione di un momento privato e intimo reso ora pubblico ed esposto sotto i riflettori. Gianmarco Marabini, dragqueen in arte Kaya Mignonne, effettua di fronte al pubblico la propria ‘trasformazione’, rendendo pubblico ciò che solitamente non lo è. Così facendo, ciò che viene rappresentato non è il prima, né il dopo, ma il momento più carico di intimità e apparentemente meno interessante agli occhi del pubblico. Né il piatto e nemmeno la digestione, ciò che interessa è l’intermezzo: la masticazione. Mi viene in mente l’ultima celebre performance di Bas Jan Ader, In search of the Miraculous (1975), in cui ciò che veniva enfatizzato era proprio la sparizione, il momento tra la partenza in barca e il possibile attracco alla terra ferma — ciò che non avverrà mai, come ben sappiamo. Forse, a pensarci bene, gran parte della sua produzione e attitudine possono suggerire alcuni collegamenti tra le due personalità. La fragilità e la tragicità romantica che anche nell’artista olandese, proprio come in La Montagna, fanno da grimaldello critico.
Enfatizzando il giramento di testa prima dello svenimento. Non ci resta che iniziare a osservare la realtà con occhi diversi.
Una realtà coadiuvata dall’esperienza artistica: così, una stanza arricchita da glitter (tecnica ormai sgombra da rimandi decorativi e di genere) e pittura diventa il cosmo intero (No More Simpathy for Melancholy, 2020). Costellazioni o paesaggi innevati ora si offrono al nostro sguardo. Una potenza, quella sprigionata dall’arte, che ci permette di creare ponti con universi diversi e apparentemente lontani rendendo visibile ciò che non pensiamo sia tale. Milk for the Fairies (2020) realizzata anch’essa – come No More Simpathy for Melancholy – per la project room del Mufant — Museo del fantastico e della fantascienza visitabile a partire dal 19 settembre fino al 10 gennaio 2021, si riallaccia a una tradizione popolare irlandese secondo la quale, tazze di latte offerte in dono (qui posizionate sui davanzali della sala) dovrebbero essere in grado di avvicinare le fate. I microcosmi creati all’interno del Mufant ricalcano tutte le questioni di cui abbiamo parlato finora, strizzando l’occhio a tematiche che vado investigando negli ultimi anni. In particolare, un collegamento a I territori magici teorizzati da Achille Bonito Oliva sembra quanto mai calzante.
La magia, intesa come manifestazione e connessione tra mondo oggettivo e mondo immaginifico (ricalcando ancora un binomio di apparenti opposti), fa da padrona in gran parte della produzione di La Montagna.
Ed ecco spiegato il motivo dell’atlante visivo (che affianca questo testo) realizzato da La Montagna a infarcire il tutto di altri simbolismi. Un viaggio all’interno delle immagini che, direttamente o indirettamente, caricano di rimandi inediti il complesso teorico, mostrandoci e ripercorrendo la poetica dell’artista.
Il non voler pubblicare immagini delle sue opere (tanto meno quelle citate all’interno di questo testo) mi è parso all’inizio impensabile. Ma poi ho capito ciò che voleva dirmi La Montagna: evocare un sentimento, piuttosto che favorire l’esplicito, andando così a coronare ciò che avete letto finora. Preferendo far parlare, dunque, quell’atlante visivo dalle mille sfaccettature.
Ribadisco: la più grande ‘lezione’ che l’artista ci offre è quella di iniziare a osservare la realtà circostante con occhi diversi. Gli stalli del tempo e gli spigoli delle cose. Preferendo il dettaglio prima ancora del generale. La poesia piuttosto che il romanzo.