STATI ECCITATI

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ELENA DELLA CORNA X VIRGINIA VALLE

Elena della Corna (Vicenza, 1993) ha conseguito la laurea in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia nel 2022. 

Tra il 2019 e il 2021 è stata assegnataria di uno degli studi dell’Istituzione Fondazione Bevilacqua La Masa e dal 2021 fa parte dello studio condiviso e artist-run space veneziano BARdaDino. Inoltre, sempre nel 2021, è stata vincitrice del Premio Carapelli For Art nella sezione Accademia.

Le opere che realizza, servendosi di materiali organici e industriali, riflettono sulle trasformazioni del mondo che ci circonda e sulla realtà interiore dell’essere umano, nel costante tentativo di instaurare un legame con lo spazio che le ospita.


V.V.: Ti sei laureata quest’anno in Pittura all’Accademia di Venezia. Mi ha colpito come la maggior parte dei tuoi lavori sia più installativa e veda l’utilizzo di materiali particolari, spesso organici, come ad esempio in Private Starry Sky (2018-2022) o Di tutte le sue merende (2021). Come hai maturato questo genere di ricerca? 

E.D.C: Senza dubbio il mio lavoro è stato fortemente influenzato dall’esperienza con la pittura che è materia, luce ed è fatta di imprimitura, supporti, passaggi, tempistiche, sperimentazione e tutta una serie di condizioni che fanno sì che possa esistere. Andando a scomporre e analizzando separatamente ognuna di queste componenti, rivalutandole sotto diversi punti di vista sono arrivata alla scultura e all’installazione. In particolare il mio interesse si è focalizzato da subito su l’imprimitura, quel passaggio intermedio tra supporto e colore che ho sempre sentito molto evocativo. Ero interessata alle origini e al concetto di imprimitura come canovaccio in senso psicologico/teatrale, cioè quell’impronta che ci aiuta a muovere i primi passi nel mondo, una sorta di copione su cui si costruisce l’identità. Tecnicamente si è sviluppata con la pratica quotidiana all’interno dell’Atelier F in accademia a Venezia. Iniziai sperimentando le imprimiture tradizionali che richiedevano materiali organici. Spesso avanzavo un po’ di composto che sedimentava in barattoli di vetro, da cui poi si staccavano, come spellandosi, delle forme che collezionavo e utilizzavo per fare dei collage sulle tele.  Successivamente capii che dalla stessa materia riuscivo ad ottenere sia l’imprimitura che il colore, inoltre, poteva avere vita propria senza bisogno di ulteriori supporti, ho portato all’estremo questa pratica fino ad ottenere un materiale plastico indipendente, scoprendo poi di avere molti punti in comune con il mondo della cucina e della produzione di materiali sostenibili come le bioplastiche. Col tempo ho perfezionato le mie pozioni inizialmente rudimentali e intuitive grazie alle ricette di alcuni ricercatori del settore oltre che studiando alcuni testi di tecniche pittoriche, infatti in pittura e in generale nelle arti applicate questi ingredienti sono sempre esistiti, ma richiedono delle tempistiche lente e hanno una resa talvolta imperfetta, perciò sono state sostituite, come in ogni altro ambito (anche se oggi stanno piano piano tornando sotto altre forme), mi interessa molto anche riuscire a conservare questo tempo lento e tutto ciò che ne consegue. 

Elena Della Corna, Di Tutte Le Sue Merende, 2020-2021
Elena Della Corna, Di Tutte Le Sue Merende, 2020-2021

V.V.: Spesso queste forme di derivazione naturale si accostano però a materiali industriali come il poliuretano. Come hai pensato questo incontro?

E.D.C: A volte l’incoerenza è una necessità nel mio lavoro. Mi piace usare questa modalità di pensiero che mi permette di arrivare a soluzioni nuove, giocando d’azzardo, dandomi alcuni ingredienti di partenza da rielaborare spontaneamente e poi ritrovandomi a razionalizzare ciò che è accaduto. Credo sia necessario mettersi in discussione per evolvere, voglio che ci sia questa tensione continua di ambiguità e ripensamenti, oltre che una linea di pensiero coerente proprio su queste tematiche, accompagnata dalle forme spontanee che ne derivano. I materiali industriali diventano fondamentali anche solo per delle strutture occasionali, come potrebbe essere usare un chiodo per appendere un quadro. Servono esattamente a questo, sono proprio il contrario della mia pratica che segue un ritmo lento e naturale di essiccazione e non bada alle scadenze in tutti i sensi. Sono come dei corpi estranei da affrontare con la loro complementarità, hanno una funzione di supporto che in ogni caso cambierà sempre in base allo spazio in cui andrò ad installare il lavoro. 

V.V.: In Private Starry Sky la riflessione si sposta anche sull’aumento dell’inquinamento luminoso. Ci racconti quest’opera e come l’interesse per l’ambiente si inserisce nel tuo lavoro?

E.D.C: La serie è composta da 25 calchi di un contenitore quadrato di legno, era la scatola di un puzzle per bambini, fatto di tessere che rappresentavano da un lato un paesaggio invernale e dall’altro uno estivo. La composizione e le dimensioni dell’opera sono variabili in base al contesto espositivo come nella maggior parte dei miei lavori. L’idea è quella che si possa possedere un piccolo pezzo di galassia/costellazione portatile, una sorta di universo in scatola da portare appresso o appendere nella propria abitazione. È una rappresentazione analogica di una dimensione che conosciamo solo tramite speculazioni ma non possiamo davvero esperire fisicamente. Un universo polveroso, gelatinoso e organico che potrebbe sgretolarsi da un momento all’altro, è un insieme di corpi non celesti ma secchi, premonitori di reliquie del futuro maturate troppo presto. Come dei souvenir di un universo scomparso diventano dei piccoli notturni in scatola da guardare sotto una luce. La volta stellata e più in generale il cielo, sono stati da sempre panorama di forti suggestioni e fa affiorare tutta una serie di riflessioni legate all’illuminazione eccessiva nelle grandi città che influenzano il complesso ecosistema di cui facciamo parte, tra gli altri organismi, anche noi esseri umani. Secondo alcuni psicologi ricercatori, mi riferisco in particolare agli studi di Julian Jaynes sulle origini della coscienza, le catastrofi climatiche e altri eventi traumatici legati alle condizioni ambientali, scatenarono l’evoluzione di forti stati emotivi che furono la scintilla per il passaggio dalla mente bicamerale alla coscienza come la esperiamo noi contemporanei. Mi chiedo fino a che punto stiamo perdendo questo modo di osservare, non solo il cielo, ma in generale l’ambiente che ci circonda e come viviamo il contatto con la materia, l’intensità con cui percepiamo le trasformazioni, e quanto velocemente il nostro sguardo sul mondo verrà condizionato dal modificarsi di queste circostanze e di conseguenza come si evolverà la nostra coscienza in base ai prossimi traumi che ci riserva il cambiamento climatico. Per cui, posso dire che in generale l’ambiente nel mio lavoro si esplicita nella materia stessa che per le sue caratteristiche intrinseche si fa specchio di una condizione di precarietà.

Elena Della Corna, Private Starry Sky, installation view, composizione e dimensioni variabili, 2018-2022, 15×15 cm. cad. ph Marco Reghelin
Elena Della Corna, Private Starry Sky, 2018-2022, dettaglio, ph Marco Reghelin
Elena Della Corna, Private Starry Sky, dettaglio, 2018-2022, ph Marco Reghelin.

V.V.: In Stati Eccitati (2019-2021) ci si trova invece davanti a un paesaggio colorato e composto da oggetti eterogenei che si relazionano tra loro in un ecosistema in espansione. Qui il rapporto con lo spazio sembra diverso rispetto agli altri lavori, che ruolo ha nelle tue installazioni il luogo in cui vengono inserite?

E.D.C: Stati Eccitati è un lavoro concepito per essere ibrido e in continuo adattamento come un ecosistema in stato di emergenza che si espande per trovare il proprio equilibrio in cui fisiologicamente alcuni elementi potrebbero sparire e altri prosperare in base alle caratteristiche del luogo. Sono come dei pezzi logorroici che troveranno il modo di insediarsi e dialogare ad ogni costo, scarti che si ribellano al loro stato e arrivano ad avere la stessa qualità dei lavori apparentemente finiti. Il titolo fa riferimento alla realtà atomica in cui alcune condizioni possono portare un elettrone ad un livello di energia superiore rispetto a quello del suo stato fondamentale (eccitazione atomica).  Vuole anche suggerire una modalità di azione frenetica, di eccitazione e surriscaldamento che porta ad essere in un limbo, pronti per fare un passo atemporale. Idealmente il mio lavoro sarebbe sempre aperto al dialogo con l’ambiente, di solito infatti lo installo concentrandomi sulle peculiarità dello spazio e mi piace che i pezzi si confondano e si insinuino nel lavoro di altri artisti. 

Elena Della Corna, STATI ECCITATI, installation view, 2019-2021, PREFERIREI DI NO, ph Giacomo Bianco
Elena Della Corna, STATI ECCITATI (dettaglio), 2019-2021. MINICICCIOLI. Ph Marta Braggio. Courtesy ife collective

V.V.: Molte tue opere hanno una data di inizio ma non di fine. Come si evolvono questi continui work in progress?

E.D.C: Sono un po’ come delle aree tematiche in cui mi esercito e dipendono dalle motivazioni del lavoro. Ad esempio Stati Eccitati è concepita anche per essere un grande archivio di prove ed errori, per cui continueranno ad accumularsi e a prendere parte a questo nucleo tutti i pezzi che ne sono coerenti. Per quanto riguarda Private Starry Sky era importante arrivare al numero 25, per me è una cifra simbolica ed è necessario mantenerla anche se la serie dovesse per qualsiasi motivo essere separata. In Propedeutica invece, come si può intuire dal titolo, ho la necessità di continuare a testare e preparare il materiale a livello di legami e tensioni, quindi mi lascio la possibilità di andare ancora avanti con la sperimentazione. 

V.V.: Collegandomi alla domanda precedente, un altro particolare che si nota guardando i tuoi lavori è che spesso sono in serie, come per sottolineare l’intenzione di creare qualcosa di reiterato ma sempre nuovo e diverso dal precedente. È così?

E.D.C: Sì, è così, anche perché utilizzando materiali organici è praticamente impossibile ottenere sempre lo stesso risultato e non è quello che ricerco, faccio in modo che i pezzi si asciughino sempre in modo diverso in base a quanto si è deformato il contenitore di partenza che solitamente è una plastica morbida sagomata grossolanamente. Inoltre i composti da me preparati hanno sempre al loro interno delle variazioni nelle componenti che mi permettono di avere diverse consistenze, è come avviare una sorta di campionario del lavoro, mi serve per tenere a mente i momenti di passaggio tra una trasformazione e l’altra. L’interesse per le piccole variazioni su uno stesso tema, è legato al ritmo e alla probabilità, un gioco di combinazioni possibili generate da uno stesso nucleo di partenza cioè la materia organica di base. La serialità per me è strettamente legata al work in progress, mi interessa lasciare la materia il più libera possibile, in un limbo tra controllo e imprevisto, per tentare di esaurire delle possibilità che immagino mi portino ad avere accesso a nuove ipotesi. E’ anche una modalità che mi permette di avere un approccio di esecuzione spontaneo e primitivo all’interno di confini prestabiliti. 

V.V.: Quali sono stati gli ultimi progetti che ti hanno vista coinvolta e cos’hai in cantiere per il futuro?

E.D.C: A fine ottobre sono partite le 5 Valigie di Venice Time Case che contengono 50 tavole dipinte di 50 artisti di formazione veneziana, tra i quali sono presente anche io, queste faranno varie tappe in Europa, il progetto è un’idea di Luca Massimo Barbero. A gennaio sono stata invitata a prendere parte ad una collettiva dal titolo Miniciccioli del freschissimo gruppo curatoriale IFE Collective di Vicenza che per inaugurare il suo nuovo spazio ha esposto il frutto delle ricerche di 25 artiste e artisti del vicentino. Dopo la tesi a marzo con cui ho concluso il mio percorso accademico, ho partecipato ad un progetto di collaborazione tra accademia e Biennale in cui ho avuto l’occasione di seguire e assistere durante il cantiere di allestimento alcune artiste e artisti, in particolare ho potuto conoscere e lavorare con le artiste Aki Sasamoto e Cecilia Vicuna. Durante il periodo degli opening della Biennale sono stata impegnata con il progetto BARAHONDA ideato con lo studio BARdaDino di cui faccio parte, è stata un’onda anomala che ha voluto coinvolgere anche per passaparola diverse realtà artistiche indipendenti del territorio italiano e non solo, chiedendo ai partecipanti di inviarci una manifestazione di presenza. L’intento è stato quello di fare rete e rendersi attivi e appunto presenti in un momento in cui tutti i riflettori erano puntati sulla grande Esposizione Internazionale. Per il momento, non avendo uno spazio fisico in cui lavorare mi sto dedicando principalmente alla ricerca e a capire che fine farò il prossimo anno, in attesa di tornare a BARdaDino a metà Luglio. 

V.V.: Hai detto di far parte dello studio BarDaDino, di cosa si tratta?

E.D.C: BARdadino è uno studio condiviso e un artist-run space nato dall’esigenza di trovare uno spazio di lavoro e confronto durante il primo lockdown, è attivo a Venezia da novembre 2020. Ospita un gruppo di artist* e professionist* dell’arte che considerano la loro decisione di rimanere in città una pratica di resistenza per contribuire alla ricostruzione di una comunità attiva in laguna. Quotidianamente lo spazio è uno studio multidisciplinare e irregolarmente uno spazio culturale aperto alla comunità. Attualmente è gestito da: Edoardo Aruta, Nicola Bertolo, Elena Della Corna, Silvia Faresin, Cosimo Ferrigolo, Melania Fusco, Edoardo Lazzari, Margherita Mezzetti, Tommaso Pandolfi, Giulio Polloniato, Marco Zilja. 

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