ARONNE PLEUTERI X MATTEO GARI
Credo di andare sul sicuro quando dico che il sistema dell’arte guarda con totale snobismo l’universo dell’intrattenimento ludico, in particolare quello dei videogiochi. Nella quasi totalità, gli abituè degli opening e gli “art lovers” inorridirebbero o sghignazzerebbero imbarazzati se si trovassero coinvolti in una conversazione su Minecraft, Fortnite o qualsiasi altro prodotto videoludico degli ultimi anni. Ho visitato o sentito parlare di molteplici mostre su argomenti decisamente più noiosi, come il calcio o il “mito della motocicletta”, ma mai una sul gioco, digitale o analogico che sia. Con questo non intendo dire che non ce ne siano mai state, ma che senza dubbio per i vetusti curatori dell’arte questo non sia un argomento valido, o anche solo minimamente interessante.
La scorsa primavera l’algoritmo di Instagram ha deciso di farmi conoscere Aronne Pleuteri (Erba, 2001) bombardandomi con post e report del progetto The Colouring Book, curato da Rossella Farinotti e Gianmaria Biancuzzi per Milano Art Guide, che invitava artisti contemporanei di diverse generazioni a inviare disegni in bianco e nero, formato A4, al fine di realizzare una versione digitale del classico “libro da colorare”. Tra gli oltre 300 disegni, sono rimasto colpito dal #240, The only limit is the sky, raffigurante un enorme “ragazzo albero”, con uno smile stampato sulla faccia, intento a scalare una montagna di blocchi cubici.
In un paio di click sono finito nel sito web tutto rosa dell’artista, Aronne, dove una biografia stringata lascia spazio alle sue opere allucinanti e allucinogene: video come Il maschio (2021), “un’indagine antropologica sul corpo del maschio”, o Untitled (2021), in cui un uomo di latta porta al paradosso la dimensione della violenza in “un’improbabile dialettica tra serietà e scherzo, tra gioco e lavoro”. Che sia con una canzone, un disegno o un video, Pleuteri approccia l’arte come un bambino fa con la vita, con sguardo innocente e un’ironia tipica di chi, come molti di noi, passa parte della vita su Internet. La performance, l’installazione il video che compongono ANATOMIA VEGETALE non hanno che potuto farmi venire in mente le parole di Hito Steyerl, durante una conferenza alla Fundació Antoni Tàpies di Barcellona nel 2016, riguardo le possibilità di pensiero legate al videogioco: “le persone nella cultura pensano di non doverci avere a che fare perché è un soggetto minore per l’intrattenimento. Ma pensate alla guerra, se fosse proprio come un videogioco sarebbe molto meglio”. Anche se non sono i conflitti armati l’argomento dell’opera di Pleuteri, questa ci chiama prepotentemente a pensare a modi alternativi di pensare e vivere che, perché no, potrebbero nascondersi dentro a uno delle centinaia di giochi scaricabili dalla famosa piattaforma Steam.
Vi lascio all’intervista con una domanda, che ho posto anche ad Aronne, ma vorrei rimanesse aperta per i critici, i curatori, gli artisti o appassionati d’arte che ci leggono e che se vorranno potranno provare a rispondermi: Cosa può imparare il mondo della cultura da quello dei videogiochi?
Matteo Gari: Vorrei iniziare chiedendoti di raccontarmi come si è strutturato il tuo percorso artistico, e in particolare da dove nasce l’interesse per l’arte.
Aronne Pleuteri: Ho iniziato all’asilo imbrattando i muri di casa e disegnando fumetti con l’aiuto di mio nonno, tra i quali ricordo cane va al mare, che si conclude con l’annegamento del protagonista, ed ernesto va a pesca, la storia di un pescatore triste perchè non riesce a prendere pesci. Alla fine delle scuole elementari ho scoperto l’animazione: mi divertivo a realizzare cortometraggi con Paint e Windows Movie Maker, come to cow or not to cow, visibile ancora oggi sul mio canale YouTube. Durante il liceo artistico disegnavo compulsivamente sui miei taccuini soggetti antropomorfi, deformi e colmi di disagio. Avevo la necessità di trasportare il mio mondo di creature immaginarie nella realtà. Non mi interessava l’arte, ma piuttosto l’atto creativo.
Ora mi “ritrovo” a frequentare l’Accademia di Brera, luogo che ho sempre odiato e del quale vedevo male la “fauna”. Cercando di imparare qualcosa ho capito come destrutturarmi. Ho iniziato a guardare il mondo, sviluppando così un certo senso dell’ironia… non mi piace la poesia fumosa. In un certo senso, l’interesse per l’arte non c’è mai stato. Sono interessato piuttosto a esprimere la mia relazione con il mondo… e ogni tanto incontro qualcuno che mi si avvicina.
M.G.: Quali sono le tue aree di interesse? Come le trasporti nel tuo lavoro?
A.P.: Ho sempre avuto interesse per l’antropologia. Mi interessa studiare l’umano con mente lucida e distaccata. Osservare cercando di capirne profondamente i comportamenti, i movimenti e le posture. Vorrei scavare nella storia evolutiva dell’homo sapiens per trovare l’origine dei nostri comportamenti. Ho anche un debole per le scimmie, specialmente gli orangotango, a cui ho dedicato anche un’animazione – videoconferenza con un mio amico dal Borneo (2020). Capire l’uomo significa capirne i simboli, che sono l’emanazione della struttura del mondo. Nei miei lavori gioco molto sul simbolo e sull’immaginario collettivo.
Mi interessa la musica, ma ancor prima il ritmo, la pulsazione… il suono del cuore e il suono del tamburo, in ultima analisi: il corpo. Parlare di corpo significa parlare di movimento. Sono un appassionato di animazione e di cartoni animati, specialmente americani, dai primi corti della Disney degli anni ‘30, passando per la Warner Bros, i Simpson, fino ad arrivare alla Cartoon Network. Credo che siano proprio i cartoni, nelle loro estremizzazioni, a cogliere ed evidenziare gli aspetti più vero dell’umano. Alla fine si tratta di una mia visione del mondo, di come guardo le cose.
M.G.: Ci sono artisti visivi verso i quali senti un’affinità di intenti e di estetica?
A.P.: Philip Guston è il primo tra tutti. Non potrei non amare i video tanto stupidi quanto profondi del folle duo Paul McCarthy – Mike Kelley. Ho un’inspiegabile attrazione per i personaggi di Duane Hanson… gli Stati Uniti sono un posto assurdo. Infine Erwin Wurm, Bas Jan Ader, Georg Baselitz, Otto Dix, un pò di Die Brucke . Ciprì e Maresco.
Ma a essere sincero, chi sento più vicino, chi penso di capire, si trova al di fuori dell’arte istituzionale. Parlo di artisti “outsider” che si muovono nella libertà e si nutrono di questa. Di loro riesco a comprendere l’atto semplice e naturale del creare, che a volte diventa un peso, un vizio da soddisfare.
M.G.: La tua produzione è estremamente diversificata e all’insegna della multimedialità, qual è, se c’è, il filo conduttore?
A.P.: Forse il gioco. Il rimettere in discussione la serietà delle cose. Anche quando disegno un corpo lo faccio con l’approccio del bambino che giocando si scopre. Cerco il divertimento, il sorriso e la risata, che è l’inefficace antidoto al trauma del mondo. E’ il tentativo di essere felici.
M.G.: Mi hai detto che ultimamente stai sperimentando con la scultura. Da dove nasce questo interesse?
A.P.: La scultura è un modo come un altro per formalizzare le immagini che penso. Per renderle vive. Uscire dalla superficie pittorica è un grande passo. La scultura introduce l’immanenza fisica, l’assurdità della forza gravitazionale… la pesantezza del corpo. Per questo motivo sto utilizzando il cemento, ma a gettate, in modo da non avere controllo totale sulle forme e riuscire così a svincolarmi dai modelli.
Mi diverte categorizzare le cose (come certi filosofi ottocenteschi) e in un’ipotetica gerarchia personale delle arti, la scultura sarebbe al terzo posto, dopo il teatro e il video. Cerco la realtà, l’immediatezza delle cose. La mediazione per me è un impedimento. In questo senso sono un nemico dell’arte: cerco di sfuggire al linguaggio. Lì si annida l’incomprensione. Il poeta austriaco Rainer Rilke scriveva che solo due innamorati riescono a non parlare e quindi a capirsi. Io aspiro a questo.
C’è un gigantesco salto tra idea e realtà. Il prodotto d’arte è sempre qualcosa di insoddisfacente, diverso e inaspettato. Sono giunto alla conclusione che l’accettazione del mal riuscito, dello sgangherato e dell’amatoriale, sia fondamentale. Lavoro raffazzonando. Duchamp diceva che il capolavoro sta nella coincidenza di idea e forma, ma io mi sono rassegnato al fatto che non possa esistere una mediazione riuscita.
M.G.: Dopo aver visto il tuo video ANATOMIA VEGETALE – tra spinoza, schrodinger e minecraft, mi è sorta spontanea una domanda: cosa può imparare il mondo dell’arte da quello dei videogiochi?
A.P.: Credo che arte e videogiochi siano due mondi in continuo dialogo, che crescono insieme. In quanto nativo digitale il mondo videoludico è parte integrante del mio immaginario. Nutre anch’esso la mia arte tanto quanto i cartoni animati, i video su YouTube e i culi.
M.G.: Qual è la tua opinione sulla Crypto Arte?
A.P.: Non sono molto informato sull’argomento, ma lavorando spesso con il video l’idea di poterne autenticare uno è $tuzzicante. Potrebbe essere un’occasione di ritorno dell’aura benjaminiana in una sua simulazione digitale o, forse, la sua definitiva perdita.
M.G.: Quale tra le tue opere ritieni meglio riuscita?
A.P.: In questo periodo rinnego molto di ciò che faccio e ho fatto. Non mi soddisfa nulla. Devo ancora consolidare un metodo di lavoro. Studiare arte da un lato ha ampliato i miei orizzonti espressivi, ma dall’altro, mi ha fatto prendere coscienza di me. Paradossalmente il motivo della mia crisi è proprio lo studio del linguaggio: cerco invano di partire dal medium, dal suo specifico, dalle sue necessità, ma così facendo finisco in una zona neutrale. Credo invece che il segreto per fare arte sia partire da sé.
Per rispondere alla tua domanda, mi hanno detto che L’orco (2020) è un buon lavoro, e in effetti c’è tutto: natura, ironia, antropologia, internet, demenzialità, corpo e gioco… ed è fatto male al punto giusto. Come me.
M.G.: Se avessi la possibilità di realizzare un’opera normalmente “irrealizzabile”, quale sarebbe?
A.P.: Dovrei pensarci un pò, ma forse sarebbe un film. Probabilmente con tutto il budget del mondo sarebbe sgangherato allo stesso modo dei miei lavori da squattrinato. È da un po’ che ho in mente un video sul rapporto servo-padrone. Voglio prendere dall’immaginario dei film americani lo stereotipo del bullo e inscenare un atto vessatorio contro un bambino triste, ma bloccando i bulli nei loro versi, nei loro movimenti caricaturali, creando una sorta di coreografia assurda, dove non succede nulla se non lo svelamento delle dinamiche di potere. Utilizzo lo stereotipo perché credo che lo stereotipo nasconda una verità. Sarebbe fondamentale la fisiognomica degli attori. Utilizzerei tutto il budget per il casting.
M.G.: Cosa auspichi per il futuro dell’arte in Italia?
A.P.: Auspico un’arte popolare, alla portata di tutti, che accompagni la vita. Un’arte che nasca da un sentire, che sia pure collettivo, e non da un’ideologia. Le mode soffocano l’arte. Vorrei si smettesse di concepire il fare arte come qualcosa di mitico ed eccezionale. L’arte è alla portata di tutti e l’autenticità dell’atto creativo è qualcosa di davvero semplice. Serve disimparare, slegarsi dalle costruzioni-costrizioni sociali, dalle mode e dal materialismo. Vorrei che si superasse l’elitarismo snob del sistema dell’arte per ritornare alla semplicità e all’individualità. Vorrei che le opere d’arte siano frammenti di trascendenza e non vuoti oggetti alla moda.
E poi, magari, finire in Biennale con la mia macchinina (2019) riprodotta affianco al padiglione albanese.