GIUSEPPE SALIS X LIDIA FLAMIA
Giuseppe Salis (Cagliari, 1999) vive e lavora a Torino. Attualmente è iscritto al triennio di pittura dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino.
Lidia Flamia: Per cominciare, come ti sei avvicinato alla pittura? Ti andrebbe di raccontarci la tua esperienza accademica in termini di incontro, sperimentazione ed evoluzione pittorica?
Giuseppe Salis: Entrambi i miei genitori sono stati dei pittori amatoriali e io ho sempre disegnato, fin da piccolissimo. Ho disegnato per anni dinosauri e mostri quasi ossessivamente, poi dopo una breve fase di copie da cartoni animati ho frequentato il liceo artistico. Là ho cominciato a dipingere, mi sono avvicinato subito a una pittura astratta, quasi decorativa; ho saltato tappe, non avevo delle buone basi tecniche. In accademia ho sentito il bisogno di tornare indietro; per dare una forma più nitida alle immagini ho scelto un percorso più tecnico e pratico, volto al realismo. Partendo da studi di opere classiche, ho finalmente imparato a strutturare meglio le immagini mentali. Pur mantenendo l’approccio figurativo, ho eliminato la figura umana; volevo usare un linguaggio accessibile, quasi descrittivo, per creare ambiguità e dissonanza tra i soggetti protagonisti difficilmente interpretabili e la tecnica rappresentativa naturalistica.
L.F.: Quali artisti sono stati particolarmente determinanti nello sviluppo della tua ricerca?
G.S.: Una parte imprescindibile della mia pratica è stata proprio lo studio e la rielaborazione di opere di artisti storicizzati. Avrei una lista infinita di nomi da citare, ma penso non abbia nessun senso gerarchizzare stimoli di natura diversa. Quindi, completamente a caso, dico: la miniatura e la pittura tardogotica, Jean Delville, Arnlod Böcklin, Alfred Kubin, Edward Burne Jones, Leonor Fini, Hans Bellmer, Dorothea Tanning, Yves Tanguy, David Lynch, Francis Bacon, Albrecht Dürer, Michael Maier.
L.F.: Il reale deformato, manipolato e mistificato è centrale nei tuoi lavori. Le tue opere sembrano indagare la sottile soglia che apre lo scivolamento tra il reale e l’onirico, sottomettendo al capriccio del sogno la realtà mancata…
G.S.: Sì. Mi piace l’idea di cercare di immobilizzare nel tempo e nello spazio un momento rarissimo, segreto, incomprensibile. È bello immaginare un ipotetico osservatore sentirsi vagamente a disagio per aver appena visto qualcosa che forse non doveva vedere. Il disagio della rivelazione, la sensazione di non essere all’altezza di un certo sapere. È tutto molto naturale, le immagini vengono fuori grazie a questo spontaneo desiderio di creare una cosa che prima non c’era e che non somigli a nulla, che non abbia troppi riferimenti, che viva grazie alla sua incomprensibilità. Il riferimento all’onirico è puramente esplicativo, per fare un esempio pratico di quale vuole essere il tipo di sensazione ricercata. In realtà non mi ispiro mai ai sogni, le mie esperienze oniriche sono molto ripetitive e naturali, niente dal quale si potrebbe trarre ispirazione.
L.F.: In Solaris (2020) e in Sleep Tight (2020), una nube silenziosa prende forma e si aggira tra architetture desolate dal retrogusto metafisico, invitandoci a seguirla in un altrove concettuale…
G.S.: L’ ambientazione di Solaris è direttamente ripresa da Architecture au clair de lune di Magritte, mentre quella di Sleep Tight è di una miniatura medievale francese raffigurante il concepimento di Merlino che è stata trovata in un manoscritto anonimo francese del XV secolo, intitolato Le Maître d’Adélaïde de Savoie. Si tratta di un processo che ho usato diverse volte per stimolare il cortocircuito in modo efficace. Lo scarto nasce quando l’immagine già esistente offre delle ottime potenzialità per ospitare un nuovo protagonista. Questo cresce e si sviluppa spontaneamente attorno all’immagine, la abita in autonomia, si adatta ai suoi spazi e li trasforma. Quella “nube silenziosa” si configura come entità concreta, figlia diretta dell’ambiente che occupa, capace di spostare l’attenzione verso le infinite possibilità di adattamento e di trasformazione, contenitore universale di significati, porta spalancata verso l’ignoto.
L.F.: Un’aura misteriosa avvolge i tuoi ultimi dipinti. In particolare mi riferisco ad Annunciazione (2021). Quale visione ha scaturito tale scenario?
G.S.: In Annunciazione ho di nuovo usato dei riferimenti visivi molto precisi per ambiente e certi dettagli. Si tratta però di una ricerca nuova che continua tutt’ora, focalizzata maggiormente sulle forme e la loro possibilità di emanciparsi dagli ambienti e occupare maggiore rilevanza visiva. Lasciando loro la libertà di imporsi come entità spontanee e irripetibili, queste diventano frutto diretto dell’ispirazione momentanea, autentiche figlie del caso, generatrici indipendenti di infiniti mondi non progettabili.
L.F.: Osservando i tuoi lavori, lo sguardo si posa su ricorrenti leit motiv pittorici – mi riferisco a nubi, stelle, architetture austere – a cosa devi questa scelta?
G.S.: Non si tratta di una scelta ma piuttosto di una inevitabile direzione del caso che mi ha condotto a muovermi attorno a situazioni simili e ripetitive. Il senso della presenza di queste ricorrenze sta infatti nella loro coerenza con il tipo di sensazione finale desiderata. Poi esiste tutta una serie di ossessioni personali per le cose brillanti, gli ambienti bui, le trasparenze, i luoghi stretti e angusti, le stelle, le uova, le mosche, il blu, il magico, l’arcaico. Potrei perdermi a spiegare nel dettaglio il significato di tutti gli elementi, ma non aiuterebbe affatto la fruizione delle opere. Spesso avere la risposta significa interrompere la ricerca, bloccare le possibilità, mettere un punto, stabilire una fine, uccidere.
L.F.: In conclusione, stai lavorando ad un progetto? Vuoi svelarci qualcosa a riguardo?
G.S.: Sto lavorando a diverse cose contemporaneamente, ci saranno probabilmente tante novità a partire dall’anno prossimo. Non posso ancora annunciare nulla, ma ne sentirete parlare presto.