NUN TE REGGAE PIÙ | EPISODIO 1

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FEDERICO PALUMBO

No, vi prego. Un’altra rubrica di satira sul mondo dell’arte non la vogliamo. C’è già Giulio Alvigini – nella nostra scuderia tra l’altro – che basta e avanza.
No. Infatti non è un’altra rubrica satirica. La satira mi piace gustarla da spettatore, non di certo farla. Non credo nemmeno di esserne capace.
Chiamiamo la cosa con il suo nome: nun te reggae più. Come nella celebre hit di Rino Gaetano, questo spazio virtuale verrà utilizzato ogni qualvolta avrò voglia (e bisogno) di celebrare un avvenimento di cui non ne sentivo il bisogno; ogni volta che vorrò togliermi qualche sassolino dalla scarpa; tutte le volte che penso ci sia il bisogno di evidenziare problemi che noi tutti conosciamo ma che non abbiamo voglia di affrontare pubblicamente.
Il rischio della ‘rosicata’ è dietro l’angolo, ma anche la paraculata del “non parlo che è meglio” è sempre in agguato. Pertanto, sarebbe interessante che queste problematiche che evidenzierò, volta per volta, possano servire da vero e proprio tavolo di confronto, dove ognuno possa esprimere ciò che pensa sull’argomento (vi invito pertanto a scriverci a info@osservatoriofutura.it).


Questo quindi non mira alla costruzione di un saggio critico. Nel senso che non ho voglia di snocciolare nessuna tesi specifica; nessuna teoria degna di nota; nessuna idea nuova a mo’ di agglomerato concettuale rifinito ad hoc per l’occasione.
Niente di tutto ciò.
Questo non è solamente uno sfogo, personale, ironico e istrionico. È soprattutto una presa di posizione; è una lamentela lanciata nel mondo con la speranza che non cada nel vuoto, in grado di creare un eco libero ma leggero.
Niente di più.

D’altronde fare critica non va più di moda, lo so. Ed è per questo che sembriamo tutti una massa di ipocriti che continuano a ringraziarsi a vicenda, complimentandosi per il lavoro svolto senza aver meriti apparenti o ben quantificabili.
Ciò che non reggo davvero più, ultimamente, sono coloro che si sono guadagnati il ruolo di protagonisti di questo primo episodio: i personal journalist.
In realtà loro sono figure mitiche che serpeggiano all’interno dei luoghi dell’arte da molto tempo, e non li scopro di certo io. Il personal journalist è questa nuova figura professionale (nuova perché conio il termine solamente ora) che svolge il mestiere di giornalista/freelance che scrive per le GRANDI testate italiane. Questo, però, lo trovi sempre e solo negli stessi spazi e nei medesimi posti.
A livello etico (lo so, per alcuni è veramente una parola desueta che non ha valore alcuno) il giornalista dovrebbe essere mosso da vero interesse, o comunque non assecondare secondi fini che assumono l’immagine di un bel baratto. Insomma, andare a vedere le mostre e scriverci su. I personal journalist si muovono invece nel proprio habitat naturale, ovvero gli spazi dove espongono gli amici o dove le curatele sono fatte da personaggi di rilievo (secondo loro, ovviamente, perché questo è sempre parere opinabile) che vale la pena conoscere e farsi amici.
Regola numero uno del fight club: fare public relations.
Siamo nuovamente di fronte al baratto perché magari, così facendo, salta fuori una bellacollaborazione, una mostra fighissima o chissà cos’altro. I personal journalist non si spostano mai dai loro habitat naturali se non per motivi che rientrano in queste logiche.
Se spostiamo il discorso nuovamente sul piano etico ci rendiamo conto della bassezza che assume la relazione così impostata. E di conseguenza dell’informazione che ne deriva. Ma d’altronde è questo il meglio che la comunicazione – troppo spesso – è capace di offrire. Forse il problema principale è che molti di questi personal journalist non hanno mai lavorato per davvero, e non sanno che svolgere una professione vuol dire rispondere a determinati doveri che vanno al di là di una bella puntura di steroidi dritta al centro nervoso che alimenta il proprio ego e presenzialismo.

Perché ce l’ho così tanto con i personal journalist? Perché penso che uno dei principali problemi che affligge il mondo dell’arte sia come l’informazione dello stesso circoli. E i personal journalist sono tra i principali esponenti di questo male cronico che ci affligge, insieme a molti direttori di giornale che determinano le uscite grazie a un parere inequivocabile: quanto paghi. Ma questo sarà sicuramente motivo di un altro episodio, non temete.

Come risolvere il problema? Di buoni giornalisti e freelance grazie a Dio ne è piena la penisola. Affidarsi solo a loro e boicottare le recensioni usa e getta che escono quotidianamente mi sembra già un bel passo avanti. Invitare i giornalisti a vedere le mostre e raccontargli il proprio progetto, anche. Così facendo può anche non arrivare la recensione, ma si può iniziare a fare una scrematura: chi è personal journalist e chi giornalista vero.


P.S. — Per non fare la figura del sottone invito da Osservatorio Futura tutti i personal journalist che non sono mai riusciti a passare (so che siete in tanti e probabilmente timidi): se c’è bisogno del baratto, vi offriamo dei taralli buonissimi e tante pacche sulle spalle.