PLEASE DON’T TELL #4

FEDERICA FIUMELLI

Istruzioni per l’uso: Scegliete un manuale o un libro di storia dell’arte, lasciatelo cadere su un piano. Esso si aprirà come fato vuole. Osservate l’immagine. Ecco ora sedetevi e iniziate a immaginare quello che osservate. Preferibilmente da consumarsi con un drink ghiacciato.


Un vizio è sempre così forte, e poi arriva puntuale, quando meno te lo aspetti o semplicemente quando le tue voglie recondite si manifestano ribelli a tuo dispetto.

Ci ritroviamo qui, vicini all’albeggiare a riflettere sulle nostre fragili esistenze. 

Che palle – qualcuno potrebbe pensare.

Hanno forse stufato tutti questi questi da intellettuale borghese?

A volte la realtà è più semplice di come ce la immaginiamo – ma abbiamo bisogno di complicarla, infittirla, renderla diversa dalla propria natura. Allora esplodiamo in mille astrazioni bizzarre.

Bizarre Love Triangle suonerebbero i New Order.

Sì a volte c’è bisogno di nuovo ordine, nuova lucidità. Una Nuova Oggettività.

Tutto questo per dirvi che il libro questa volta si è aperto proprio al centro del mio cuore, nella Germania intorno agli anni venti e trenta. Una Germania spaccata e in procinto di invidiare il mondo. Una Germania che dall’inferno da dove proveniva sarebbe tornata.

Di fonte alla mia vodka tonic – con tonica rosa (di cui vado fiera) mi chiedi di Otto Dix.

L’Otto rovesciato è simbolo di infinito, come la mia profonda ammirazione verso una pittura così capace di leggere le peculiarità malsane contemporanee come nessuno mai.

Come se uno schizzo di limone di compisse l’occhio.

Otto Dix, Sylvia von Harden, 12

E non è un caso. Non è mai un caso credo. Davanti a noi come un’apparizione, o forse come un mio autoritratto inconscio si materializza “Sylvia von Harden” – uno dei capolavori di Dix del 1926.

Proprio nel 1926 Dix tenne una mostra personale da Neumann-Nierendorf a Berlino, dove oltre esporre uno dei suoi ritratti più importanti, come quello del fotografo Hugo Erfurth con il cane, espose proprio quello della giornalista Sylvia von Harden – l’allora nota penna del “Berliner Tageblatt”. Il pittore la conobbe al Romanische Café, un luogo di incontro per artisti, poeti, scrittori – intellettuali. 

Otto Dix, ritratto di Hugo Erfurth con il cane, 1926

Chissà perché da sempre i migliori incontri si fanno ai Cafè. Ma questa è un’altra storia.

Anche Sylvia sta seduta la suo tavolino, fumando e bevendo un raffinato cocktail rosa – proprio come il nostro vodka tonic. Ostinata come le intellettuali del tempo a mascherare la propria femminilità a favore di un’androginia dichiaratamente mascolina. Taglio di capelli corti, monocolo, espressione digrignata – tutto sembra intinto in un vivido rosso allucinato con tonalità rosa sprezzanti – dal cocktail – alla macro scatola di fiammiferi per finire ai collant / carne. 

Tutto è favoloso disprezzo. E la vivacità isterica, e innaturale del colore ce lo sta urlando.

Il vestito rosso a quadri neri sfacciatamente lineare, geometrico, ritmato e semplice richiama alla memoria la forma mentis di Prada durante gli anni Novanta – ripresa anche in collezioni postume come nell’autunno 2011. Le donne delle prime pubblicità di Prada cercavano di fatto di essere vicine a quelle del mondo reale. Prada rifiuta le convezioni e regole precostituite, proprio come l’atteggiamento virile della nostra Sylvia Von Harden. Tra minimalismo e apparente banalità c’è sempre grande preziosità di fascino per i dettagli.

Prada fall, 2011

Le ossute e affusolate mani bianche, sproporzionate annaspano nel disagio esistenziale e tagliano a fette la rossastra atmosfera imperante erigendosi a macchie diafane ed esangui assieme al volto picassiano e conturbante. Quei residui di esistenza pallida ben dichiarano i lustri e le paturnie di un’umanità irrisolta, decadente – a tratti deceduta e posseduta da uno sconforto tragicomico a cavallo di due guerre mondiali che avrebbero cambiato per sempre il volto della storia.

Otto Dix fa parte di quel recupero della pittura volenterosa di rompere con i capricci dell’espressionismo e ossessionata dal rapporto diretto con le cose, con le persone, con la realtà – lucida, nuda e cruda. Tra critica e comicità – la Nuova Oggettività ci mostra il vero disgusto per una civiltà degenerata – senza giri di parole o illusioni. E lo fa distorcendo una forma che rimane smaccatamente vivida. La difforme deformità è coerente nell’atto di esistenza pittorica. 

Le deformità divengono iperbole visive più vere del vero, come nel celebre “Tre Donne” sempre del 1926 dove le “Tre Grazie” di fatto si rivelano per quello che sono: delle prostitute da quattro soldi – metafora di una Germania corrotta, priva di valori che ritroviamo anche nello splendido trittico “Metropoli” del 1927-1928 tra travestiti e reduci di guerra, un campionario di esemplari umani tra il grottesco e l’assurdo. Un teatro di vite pacchiane, e così finte da essere tristemente reali.

Regressione e mostruosità che ritroviamo anche nel lavoro di riflessione critica esercitato magistralmente dai travestimenti di Cindy Sherman – perturbanti e iperbolici al punto tale da deformare stereotipi in grado di riflettere una realtà implicitamente kitsch e caricaturale: dai clown, alle party girls, dalle valchirie alle casalinghe. 

Esempi di iperrealismo in grado di superare la realtà, mettendola sotto una lucida e fredda lente di ingrandimento, facendo un close-up su tutto l’eccesso del vizio, il degrado conturbante degli individui affetti da perdita di identità, buon gusto, garbo e ragione.

Cindy Sherman
Cindy Sherman
Cindy Sherman

Un’angoscia che ci accompagna dall’infanzia probabilmente, ed è doveroso quindi citare un’opera grottesca e surreale come l’Alice del regista ceco Jan Svankmajer – una rilettura dell’Alice di Lewis Carrroll dove inquietudine, oppressione stridore e fastidio si mischiano tutti insieme – proprio come nel nostro vodka tonic rosa, così amabile ma al limite di una paranoia infantile. Quello di Svankmajer è una paese delle meraviglie spietato, dove i corpi diversamente ricomposti, eterni mutilati, rivivono in diversa maniera – corpi posticci, anime afflitte da una guerra irragionevole e bizzarra proprio come i corpi fantoccio proposti da Grosz, Dix o Beckamnn (magistrale di quest’ultimo è “La Notte” del 1918-1919). 

Alice, Jan Svankmajer, 1988
Alice, Jan Svankmajer, 1988

Tante metafore lucide di come l’uomo adulto sia incapace di accettare molto spesso l’altro e se stesso, non tanto lontani dalle visioni di Nuova Oggettività.

Ma non ditelo in giro che sorseggiando un vodka tonic rosa abbiamo disprezzato il cattivo gusto attraverso i secoli, proprio noi, intellettuali irrisolti con una tonica rosa così kitsch e infantile.

Federica Fiumelli