IL FUTURO DELL’ARTE

MARTA M. ACCIARO

Autore: Luca Marchetti

Titolo: Il futuro dell’arte

Casa Editrice: Mimesis

Pagine: 112

Prezzo: 12 euro



Troppo spesso vi è un uso, anche da parte degli addetti ai lavori, di parole che caratterizzano l’arte che non vengono profondamente pensate e ripensate all’interno del contesto in cui viviamo.

Parole come mediale, contemporaneo, forma, estetica sono entrare in un vocabolario comune quasi in modo non pensato, preso per buono nelle conversazioni negli spazi addetti all’arte.

È per questo che è importante fare il punto delle ultime pubblicazioni inerenti arte ed estetica, per poter darci modo di ripensare – o pensare – concetti che prendiamo per buoni senza averli davvero metabolizzati tanto nella prassi quotidiana, tanto teoricamente.

Reputo che il libro di Luca Marchetti, “Il futuro dell’arte”, sia da leggere per comprendere il senso della parola e del concetto di “contemporaneo”, sebbene non dia una panoramica ampia, ma si rifaccia a due autori soltanto, Belting e Osborne, paralleli tra loro, che possono comunque aiutarci a comprendere le posizioni differenti che si possono avere davanti a un concetto così complesso e che troppo spesso diamo per scontato. Vengono di tanto in tanto citati altri autori, soprattutto Danto, ma credo che 112 pagine siano insufficienti per sviscerare un discorso davvero critico sulla questione. È presente una bibliografia troppo scarna e l’idea di un binarismo, che non entra neanche in dialettica interna, non mi convince del tutto.

Le domande che Marchetti si pone per introdurre il lettore (che per il modo di scrittura è un fruitore necessariamente all’interno del discorso artistico teorico) all’analisi delle posizioni degli autori, sono varie:

  • L’arte ha un futuro o è destinata a scomparire?
  • Che rapporto ha l’arte con la storia?
  • Cosa accade se è la storia dell’arte a finire?
  • È possibile un’arte senza storia?
  • Cosa significa “contemporaneo”?
  • Che rapporto sussiste tra arte moderna e arte contemporanea?
  • Quale statuto ha l’immagine?

Sono queste tutte domande che partono dal presupposto di base per cui è necessario, oggi più che mai, un ripensamento generale dello statuto dell’arte (e per questo la presenza di due soli autori mi sembra insufficiente).

Il libro è diviso in quattro parti: un’introduzione, due capitoli interamente dedicati a Belting e un ultimo capitolo dedicato a Osborne. Questa distribuzione asimmetrica mi fa un po’ storcere il naso, perché reputo il discorso di quest’ultimo meritevole di spazio tanto quanto il primo autore. Non mi convince la posizione di Marchetti di scegliere e utilizzare una storicità lineare delle opere di Belting, autore contro la storia lineare. Sarebbe stato a mio avviso più incisivo procedere per macrotemi, concentrando maggiormente l’attenzione sull’opera più importante, perché più matura, di Belting: “Antropologia delle immagini”.

Ad ogni modo, Belting (e l’autore gli fa eco) individua due punti di vista e posizionamenti: “quello di chi ritiene che per comprendere un’opera d’arte è necessario innanzitutto comprendere che cosa significhi essere un’immagine (1)” e “il punto di vista di chi ritiene che è possibile comprendere cos’è un’immagine soltanto a partire dalle opere d’arte stesse, giacché sono queste il luogo in cui si manifesta esemplarmente il carattere di immagine delle immagini”. Belting appartiene alla prima categoria.

Senza entrare troppo nel dettaglio, per non eliminare il piacere della lettura di questo testo, Belting parte da una critica interna della disciplina storico-artistica in quanto non più in grado di affrontare i grandi problemi sollevati dall’arte stessa. Egli si schiera fortemente contro un’idea di arte universale che ha di fatto reso possibile una narrazione di storia dell’arte lineare e dunque necessariamente progressiva. 

Ma tre sono i problemi principali di Belting. 

Il primo è “l’incompiutezza di una fine [della storia dell’arte]: una fine che non riesce ad arrivare a compimento (2)”. Marchetti ci ricorda come il fatto di parlare di fine della storia non deve essere confuso con l’idea di una fine dell’arte stessa, esattamente come quando si pensa, e per me è importante ricordarlo, alla posizione della fine dell’arte per Hegel, che intendeva fine dell’arte come luogo e ambito in cui ritrovare certa veritatività. La fine dunque, per Belting, riguarda la narrazione lineare e progressiva: un modello narrativo che deve essere ripensato. 

Il secondo problema per Belting è l’idea di un’arte moderna profondamente europea: “Belting evidenzia la caratura europea della storia dell’arte tradizionale, per far emergere i limiti di questa prospettiva di fronte a una produzione contemporanea che si muove su scala globale e che non è più interamente ascrivibile alla modernità (3)”. Analizzando l’istituzione museale, si pone il problema che il museo “ha accolto sotto il nome di arte quei reperti di un passato prima dell’arte così come quelle produzioni di altre culture, ovvero artefatti e prodotti che, sradicati dal loro contesto, si trovano a dover rilucere all’interno di una dimensione categoriale a loro estranea (4)”.

Il terzo problema si ricollega al primo: l’arte contemporanea si pone come modernità incompiuta perché non riusciamo a fare a meno dei modelli categoriali propri della modernità. “L’arte contemporanea sembra infatti conservare le istanze progressive dell’arte moderna – con la sua pretesa di un percorso storicamente connotato – e, allo stesso tempo, sembra consegnarsi a un eterno presente nel quale tutte le forme e tutti gli stili sembrano possibili e leciti (5)”. È per questo che si parla di ipermodernità, come una modernità che sopravvive nella contemporaneità.

Dunque, è necessario ripensare alla storia delle immagini, ripensare alle immagini stesse, alle immagini della storia dell’arte, all’arte e agli artefatti, agli “spostamenti geopolitici” dell’arte che da europea si fa globale, fermi nella consapevolezza che le immagini sono dall’essere umano, prodotte e pensate per la fruizione umana: l’essere umano si pone come luogo per eccellenza dell’immagine, ed è questo a mio avviso l’aspetto più interessante di Belting che si evince nella sua opera più matura, in cui il contemporaneo è pregno di fratture e non si presta a una narrazione lineare, né omogenea né uniforme, passando dall’universale al glocale. Il termine “essere umano” non è presente all’interno del testo: è una mia correzione volontaria. Compare solo la parola “uomo”. Analizzando un autore come Belting, che si interessa ai manufatti non reputati artistici dalla storia, sottolineando come non debbano essere richiamate certe etnicità, mi sarei aspettata una posizione di Marchetti molto più attenta alle minoranze o, quantomeno, a non rivendicare una posizione eteronormativa che Belting stesso rifiuta, rifiutando l’eurocentrismo e certo occidentalismo.

Differente da quella di Belting è la posizione di Osborne.

“È, dunque, necessario ripensare storicamente e categorialmente il concetto di ‘arte contemporanea’, per valutare se c’è una vera e propria ‘differenza’ o discontinuità tra la produzione artistica moderna e quella contemporanea o se quest’ultima, pur nell’innegabile diversità stilistica e procedurale, è ancora riconducibile alle categorie del moderno (6)” .

Nel percorso dall’arte moderna all’arte contemporanea, Osborne delinea tre fasi: una prima fase geopolitica caratterizzata dalle differenze occidentali di produzione tra Europa occidentale ed Est europeo (7); una seconda fase ontologica caratterizzata dallo sconfinamento dell’arte nella vita, con uno spostamento occidentale ulteriore dal baricentro europeo al nuovo baricentro statunitense; una terza fase post 1989 in cui vengono meno le spinte avanguardistiche, le biennali divengono la forma più appropriata della globalizzazione e transnazionalizzazione delle pratiche artistiche, e il mutato rapporto dell’arte con l’industria culturale.

Vi è dunque un rapporto di continuità-discontinua dell’arte contemporanea con il moderno. 

Inoltre l’arte contemporanea si pone per Osborne come arte post-storica e soprattutto postconcettuale. 

Post-storica con una configurazione di eterno presente nel quale tutti gli stili, tutte le mode, tutte le forme sono possibili: “un’epoca, dunque, nella quale l’arte conquista la sua massima libertà di azione senza, però, poter più contare su una storia lineare, così come tradizionalmente l’abbiamo intesa (8)”.

Ma in che senso è postconcettuale?

Qua si apre l’aspetto più interessante del pensiero di Osborne.

“ ‘postconcettuale’ non indica il nome di una corrente, di un movimento o di una poetica, ma è un carattere che determina tutta l’arte contemporanea. […] non è il nome di un particolare tipo di arte, quanto la condizione storico-ontologica per la produzione dell’arte contemporanea in generale (9)»”. 

Importantissimo è il rapporto tra la necessità estetica e l’aspetto concettuale dell’opera: “«il fallimento di un’assoluta anti-estetica» a cui è andato incontro il concettualismo analitico ha dimostrato «l’ineliminabilità dell’estetico come componente necessaria, sebbene radicalmente insufficiente, dell’opera d’arte». Se l’arte concettuale ha messo in luce la natura necessariamente concettuale dell’arte, mostrando che la prensione estetica non è (più) sufficiente alla determinazione e alla comprensione delle opere d’arte, il fallimento del suo programma anti-estetico ha dimostrato anche che la dimensione estetica è però necessaria. L’arte ha sempre bisogno di una qualche forma di presentazione o di manifestazione che si produce sul piano dell’aisthesis. Di qui la tesi di Osborne che l’arte contemporanea, pur non potendo più prescindere da una dimensione concettuale – in assenza della quale non solo un’opera d’arte non sarebbe interpretabile, ma non sarebbe neppure individuabile in quanto tale – non può, però, essere del tutto ricondotta soltanto a questa dimensione. Insomma, se l’arte contemporanea è irrevocabilmente concettuale, è tuttavia anche necessariamente estetica (10)” .

Parlando di Osborne, Marchetti parla molto della posizione di Kant. Mi chiedo perché lo stesso spazio non sia stato riservato ad Hegel nella sezione su Belting e sulla fine dell’arte. Trovo incoerente approfondire un punto nodale dell’estetica storica, tralasciando l’altro, non per porre un binarismo dialettico, ma per far comprendere maggiormente le posizioni diverse anche all’interno di questo libro. Se è così importante il concetto di estetica all’interno di questo discorso, è necessario rapportarsi con chi aveva già pensato ad una fine dell’arte, sottolineando i parallelismi, le continuità, le discrepanze tra le varie posizioni, in questo caso di Belting e Hegel.

Dopo aver analizzato i due aspetti teorici dei due autori in studio, tra cui anche il rapporto manufatto artistico come merce, industria della cultura e industria dell’arte, vi è un piccolo paragrafo sulle immagini digitali, troppo poco sviluppato a mio avviso, ed è un gran peccato.

Consigliamo comunque di leggere questo libro perché lo riteniamo utile, soprattutto alla luce degli accadimenti del 2020, in cui certe minoranze hanno iniziato una lotta per storicizzare la propria arte e i propri manufatti, per troppo tempo eliminati dalla visione eurocentrica dell’arte storica e moderna.


1 Cit. p. 22

2  Cit. p. 17

3  Cit. p. 21

4  Cit. p. 30

5 Cit. p. 36

6  Cit. p. 73

7 L’est europeo rimane all’interno della “produzione occidentale”

8 Cit. p. 77

9  Cit. p. 81

10 Cit. p. 82