DECOLONIZZARE IL MUSEO

MARTA M. ACCIARO

Autrice: Giulia Grechi

Titolo: Decolonizzare il museo

Editore: Mimesis

Pagine: 307

Prezzo: 22,80 euro



È solo un caso tempistico che io per ora stia studiando la Shoah e, per dirla con Valentina Pisanty, la banalizzazione e la sacralizzazione di questo evento come unico nella storia del mondo. Se prendiamo “I sommersi e i salvati” di Primo Levi leggiamo: “[…] nonostante […] le molte guerre atroci e stupide a cui abbiamo in seguito [alla seconda guerra mondiale] assistito, il sistema concentrazionario nazista rimane tuttavia un unicum, sia come molte sia come qualità. […] Nessuno assolve i conquistadores spagnoli dei massacri da loro perpetrati in America per tutto il XVI secolo […] agivano in proprio, senza o contro le direttive del loro governo, e diluirono i loro misfatti […] nell’arco di più di cento anni” [pp.11-12]. Tutto quello che ho letto fino ad adesso sul trauma, la memoria, il tramandare il ricordo, parla certamente (e a ben donde) dell’Olocausto, ma vi è veramente pochissima traccia, anche in alcuni libri di antropologia, della questione coloniale. E qualora si trovasse qualcosa, su libri anche di altra natura, l’opinione sentita comunemente è esattamente quella di Levi. Questo forse per una questione temporale e perché il ‘900 è solo una faccenda di attimi rispetto a noi e certe pratiche xenofobe e antisemite continuano a perdurare ed è corretto decostruirle. Ma ecco che, in un contesto che fa detenere alla Shoah un primato intoccabile che quantomeno metterei a critica, più che in discussione, un libro come quello di Giulia Grechi diventa molto importante perché affronta la colonizzazione che è, di fatto, evento contemporaneo a quello dell’antisemitismo nella costituzione degli stati nazione e nella differenza tra un “noi” e certi “altr*”. Altr* che non possono riconoscersi nella normatività statale imposta ideologicamente come spirito santo sceso sulle nostre teste. Questo spirito è ciò a cui, tuttora, tendiamo ad essere associati, per grazia umana, per non dover mettere in discussione la nostra persona, retta e giusta, se non altro rientrante nel canone, al confronto tanto degli ebrei quanto dei neri. 

Ma se l’ebreo è fatto dall’antisemita, per dirla come Sartre, ed è biblicamente senza patria da sempre, tanto da sentirsi sempre esule persino dal popolo dove è nato (penso ad Amèry), per le persone africane la questione patria è più spinosa perché la patria l’avevano e sono state prese a spese della loro vita e dalla loro terra. Persino chi si schierò contro il massacro degli indigeni da parte di spagnoli e portoghesi nel XVI secolo nelle nuove americhe, Bartolomè de Las Casas, suggeriva il trasporto degli africani nelle nuove terre per essere mess* a disposizione dei bianchi. 

Cosa rimane agli afrodiscendenti del loro patrimonio se non nazionale certamente culturale? Poco. La razzia bianca ha sradicato tanto le persone quanto il loro patrimonio per farne oggetto di culto di quella che era considerata una popolazione minore, inferiore, selvaggia. Ma non è già nel mio dire AFRICANI sto che sto riproducendo una colonizzazione bianca, eliminando quello che dell’Africa era la costituzione, cioè le tribù e le diverse realtà che formavano l’africa intera? Tendiamo, noi bianchi, ad accomunare comunque gli e le african* sotto lo stesso nome, come se per “europei” potessimo tanto definire gli italiani quanto gli svedesi. Cosa mi fate fare? Accomunare tutto in uno o risolvermi nei nazionalismi? Il binarismo non è certo la strada e questo è quello che ha ben capito Grechi in questo splendido libro che è “Decolonizzare il museo”, edito da Mimesis. 

Grechi punta a una descrizione della situazione coloniale ad oggi, gli strascichi rimasti nell’occidente che vedono come punto di raccolta, necessariamente, i musei, proprio i luoghi in cui i bottini, dalla loro istituzione, sono stati conservati per essere fruiti e mangiati con lo sguardo da un pubblico non sempre capace di porsi le domande giuste o semplicemente stare ad ascoltare ciò che un manufatto, decontestualizzato, non ha più la forza, la vita, di dire.

Libro tripartito attraverso la figura dello specchio, ho pensato subito a Grechi come Alice “attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”. Grechi trova e ci offre una critica al museo soprattutto etnografico, ci offre la sua esperienza nei musei e davanti ad opere che cercano di decostruire criticamente la questione dello sguardo nella fruizione e nel rapporto “io-l’altr*”; ci dona un resoconto dettagliatissimo della storia otto-novecentesca delle esposizioni universali e di quello che, in termini umani, questo ha comportato a livello di spettacolarizzazione delle persone di colore, di qualunque parte dell’Africa facessero parte e “dei corpi violati in nome della scienza e dell’antropologia”[p.175]. L’autrice ci rende partecipi di come si stanno attualmente muovendo alcuni musei ad oggi, aggiornandoci su come “Molti musei etnografici e antropologici stanno ridefinendo il loro ruolo sociale, le loro narrazioni e le loro pratiche espositive anche entrando in relazione con comunità diasporiche e/o “originarie”, sia operando all’interno dello spazio museale, sia rimuovendo gli oggetti dallo spazio museale, semplicemente spostando quelli particolarmente sensibili […] oppure […] restituendoli […] [p.175].

Un libro intelligente, interessante e di cui certamente avevamo bisogno.

Vorrei fare un unico appunto.

Alle pagine 182-183 vi è la descrizione del Museo della Mente (www.museodellamente.it).

Leggiamo: “Il display museale qui costringe il visitatore e la visitatrice a incorporare letteralmente e pubblicamente alcune posture e ritualità del soggetto psichiatrico, perché è proprio attraverso la ripetizione di questi gesti – il dondolio ritmico del busto avanti e indietro, il chiudersi in se stessi con le mani sulle orecchie per isolarsi – che le installazioni si attivano […].

Ecco. Credo che troppo poco spesso la stessa empatia che proviamo per altre persone non sia vissuta per le persone che hanno un problema mentale. Il solo fatto che si debba scimmiottare un comportamento stereotipato che si immagina sia quello comune di una persona con problemi mentali, come suddetto, è veramente sgradevole. Portare come esempio quello del museo della mente è stato sbagliato e la reputo una dinamica museale ridicola. Se io, persona con malattia mentale, andassi a visitare questo museo dovrei scimmiottare me stessa (anche se i miei movimenti sono di altro tipo) per far partire l’installazione? Diventerei una meta-malata? Cosa sarei agli occhi di me stess* e agli occhi indagatori del resto del pubblico?

Purtroppo questo libro, di cui consiglio assolutamente la lettura, fa un grosso scivolone su questo punto. E consiglio di non scimmiottare le posture di nessuno per far partire nessuna installazione. Che l’installazione rimanga ferma, piuttosto.