ELENA CAMPUS X VIRGINA VALLE
Elena Campus, artista nata a Bosa in Sardegna nel 1995, ha conseguito un diploma di laurea triennale in Scultura all’Accademia di Belle Arti di Sassari prima di seguire, nel 2016, attraverso la borsa Erasmus, i laboratori di gioielleria e scultura dell’Escuela de Arte de Murcia in Spagna. Dal 2018 inoltre, frequenta un biennio magistrale a Milano presso l’Accademia di Brera.
Elena, con l’ausilio di differenti mezzi espressivi, indaga le relazioni intersoggettive e i rapporti tra soggetto e ambiente.
Le ultime mostre cui ha partecipato, nell’anno appena trascorso, sono state: Ants, mostra di fine residenza presso lo spazio NonRiservato a Milano; Incontro presso lo Spazio PR 46, sempre nel capoluogo lombardo e Sinestesie Condivise a Villa Cantaluppi-Giuliani a Brunate
Virginia Valle: La tua formazione è iniziata all’Accademia di Belle Arti di Sassari dove hai frequentato un triennio di Scultura, per poi specializzarti all’Accademia di Brera nello stesso indirizzo. Perché hai scelto Milano come città per proseguire i tuoi studi? È una scelta che rifaresti?
Elena Campus: Milano è sempre stato un centro culturale molto attivo sia a livello nazionale che internazionale. Ne conosciamo la storia e sappiamo delle grandi personalità che hanno vissuto qui e ne hanno arricchito il tessuto culturale. Per cercare di investire nell’arte e nella scultura ho voluto scegliere un luogo che mi permettesse di sentirmi “dentro” la contemporaneità. Benché abbia la Sardegna nel cuore, mi rendo sempre più conto di quanto rimanga isolata e lontana da tutto il sistema che gira intorno alle gallerie e anche alla vita frenetica della metropoli. Milano ha aperto dei mondi conoscitivi e delle possibilità che mai avrei pensato di raggiungere. Qui e a Brera sento di essere parte di qualcosa di più grande e la possibilità di poter incontrare tante persone che come me cercano di vivere l’arte e stanno intraprendendo una carriera artistica è fondamentale per poter confrontarsi e crescere. Purtroppo la situazione non mi ha permesso di sfruttarla a pieno e di questo ho sempre un grande rimorso, ma ho idea che la mia vita e la mia crescita a Milano continuerà anche al di là del percorso accademico.
V.V.: Al 2016 risale invece il tuo Erasmus dell’Escuela de Arte de Murcia in Spagna, dove hai frequentato i laboratori di gioielleria e scultura. Puoi raccontare qualcosa di questa esperienza?
E.C.: L’Escuela de Arte è stata un’esperienza fondamentale della mia educazione artistica. Oltre la possibilità di poter visitare e guardare mostre, musei e luoghi totalmente differenti rispetto all’immaginario italiano, ho potuto approfondire diverse tecniche all’interno dei laboratori della scuola, completando così le mie lacune. Qui ho seguito diversi “taller” tra cui ceramica, pietra, modellato, gioielleria. Ho nutrito l’interesse e scoperto diverse mie capacità come la manualità nel realizzare vasellame con l’utilizzo del tornio ceramico, pratica che ho cercato di replicare anche in Sardegna con i pochi strumenti offerti dai laboratori universitari.
Ho anche avuto la possibilità di approfondire le tecniche di microsaldatura per la realizzazione di manufatti in filigrana. Ho potuto conoscere diversi artisti locali e non, attraverso i seminari proposti dai professori, e approfondire così i miei orizzonti sia stilistici che culturali.
V.V.: Quali credi siano le differenze più sostanziali tra le accademie italiane e l’istituzione spagnola che hai frequentato? E che conseguenze credi abbia avuto sulla tua pratica artistica?
E.C.: La scuola dove ho frequentato gli ultimi mesi del mio secondo anno del corso triennale, a Murcia, non è burocraticamente al medesimo livello delle accademie italiane. Si chiama “escuela de arte”, “scuola d’arte” ed è comparata a ciò che noi definiremmo una scuola professionale. La durata dell’intero corso sarebbe di due anni con la consegna di un diploma. Questo fa intendere già delle grandi differenze. Tutti i programmi sono prettamente incentrati verso gli insegnamenti pratici. Ogni aula della scuola era un laboratorio destinato a un materiale o a una tecnica diversa. Benché fosse abbastanza piccola, era perfettamente adeguata al numero degli studenti, fornita di ogni materiale e strumento. Dopo i miei primi due anni passati in una piccola stanzetta fredda dell’Accademia di Belle Arti Mario Sironi a Sassari, a saldare ogni pezzo di ferro che trovavo, è stato un grande salto di qualità a livello di organizzazione. Il problema principale era però l’interesse verso l’arte contemporanea. Il percorso formativo spagnolo non prevedeva corsi come storia dell’arte e non analizzava le pratiche artistiche contemporanee. I manufatti finali erano più di esercizio che di espressione. Sicuramente formativa a livello tecnico, meno a livello poetico.
V.V.: Il tuo lavoro prende forma soprattutto tramite video-installazioni come ad esempio in Battito (2020) e Tracce, (2019). Com’è nato l’interesse per questo medium?
E.C.: Il mio primo, e aggiungerei turbolento, anno a Brera, è stato pieno di cambiamenti sopra ogni fronte. Ho colto subito la differenza sostanziale con la mia vecchia accademia. Frequentando il corso di scultura con il prof. Mauro Folci ho potuto approfondire diversi aspetti espressivi e artistici che avevo solo studiato in modo distaccato. Da un piccolo laboratorio a Sassari dove tagliavo e saldavo pezzi di ferro per creare forme alla Melotti, mi sono ritrovata in un’aula disordinata a guardare i cortometraggi di Samuel Beckett come “not I”, discutendo del percorso artistico di Vito Acconci. É durante questo periodo che ho imparato a progettare, ricercando la sintesi di ogni concetto che intendevo esprimere, cercando quella “parete di schiuma risultante dallo scontro tra Moby Dick e la nave del Capitano Achab”. Così è nata la mia prima video-performance “Tracce”, in quel periodo la mia ricerca iniziava ad avvicinarsi ai temi di ecologia e cambiamento climatico. Un tentativo per prendere coscienza del continuo scontro tra arte e natura in cui le tracce umane, il nostro passaggio nel mondo che sembra solo essere più contaminato dalla nostra presenza, vengono cancellate in un loop in cui io stessa entro a far parte per poi trovare pace solo ricongiungendomi a quella corrente fluida in cui viviamo e siamo immersi. Questo mio primo esperimento ha aperto un mondo espressivo che avevo totalmente sottovalutato. Grazie alle difficoltà tecniche di rappresentazione dovute alla mancanza di laboratori all’interno dell’accademia, ho potuto sperimentare un nuovo medium con cui attualmente trovo molta soddisfazione. Anche “Battito” nasce sempre il primo anno di specialistica a viene effettivamente realizzato solo a termine del 2019. Avevo necessità di lavorare con il corpo. Il desiderio iniziale era quello di avvicinarmi alla performance, ma sarebbe stato un passo troppo precoce. L’immagine che ho sintetizzato attraverso questo frammento mi era giunta ben chiara. Volevo cogliere quella distanza che spesso ci separa dall’aprirci con gli altri, dall’entrare in relazione. Ci irrigidiamo. Blocchiamo l’altro in difesa di quello che conteniamo. Non ci facciamo penetrare. Ne risulta solo un battito, un suono sordo di scalpello che prova a trapassare questa corazza di epidermide per avvicinarsi alla tenera carne. In questo ripetersi, lento e continuo, con questo piccolo gesto di rivoluzione si cerca di capirsi attraverso il tocco e di conoscersi attraverso il battito. Il risultato di questa condizione diviene sinestesia tra gesto, suono e immagine, elogio della fragilità più che della resistenza.
V.V.: Al 2019 e 2020 risalgono anche due lavori scultorei: Infiltrati (2020) e Connessioni (2019). Ce ne parli?
E.C.: Sulla stessa linea di ricerca del video “Battito” nasce “Infiltrati”. Il suono dello scalpello che compare nel video è già citazione del lavoro realizzato in tridimensione. Volevo rendere visibile questa “ferita” o meglio “serratura” prodotta dal battito della mano. Il lavoro attualmente è composto da 5 massi, di cinque tipi di rocce differenti, scelte e raccolte in un sentiero in Sardegna e trasportate a Milano per essere lavorate. La pietra si è configurata come materiale perfetto per continuare il discorso poetico di questa epidermide che diviene muro. Ma qui, al contrario, la solidità, lo scudo, si apre concedendoci già un passaggio d’ingresso in cui penetrare. Così diviene quasi imperativo il gesto di infiltrarsi all’interno di questa cavità aperta pronta ad accoglierci. Nel compenetrare, le punte delle dita si accorgono di un altro elemento, l’acqua, zampillo che proviene dal cuore del sasso.
L’immagine che spesso ricollego al perché di questo liquido è legata alla mia infanzia: uno dei giochi che solevo fare in riva al mare era quello di scavare buche per poter osservare i vari strati di sabbia che cambiavano colore per via dell’umidità proveniente dal suolo e evaporata in superficie a causa del calore estivo; per poi acclamare con tutti i vicini di ombrellone il termine dello scavo con l’arrivo della paletta alla ricerca dell’acqua che iniziava a sgorgare sul fondo della buca. Al medesimo modo volevo intendere lo scavo nella pietra, con la stessa meraviglia di bambino che ha finalmente colto la vera essenza di quello che pare un semplice e freddo sasso. “Connessioni” del 2019 è invece un tentativo che precede “Infiltrati”. Sempre sulla scia dell’interesse verso ciò che ci collega e congiunge agli altri, del legame che ci tiene insieme, al di là delle estreme differenze tra superficie e densità. Utilizzando dei ciottoli, rinvenuti sempre nelle campagne sarde, ho cercato di unirli utilizzando del piombo. La fusione, realizzata attraverso una tecnica che prevede l’impiego della sabbia, mi ha permesso di creare queste concrezioni che raccolgono i due massi, aggregandoli attraverso un legame apparentemente solido, in realtà fragile come il legame ionico che lega le particelle di sodio e cloro: così forte nel cristallo e contemporaneamente volubile al contatto con l’acqua.
V.V.: In una delle tue ultime mostre del 2020, hai realizzato, come risultato della residenza presso lo Spazio NonRiservato, l’installazione ANTS (2020), percorsi ricreati con teli di cotone agganciati a una rete di fili d’acciaio, che, grazie all’installazione luminosa di Vittorio Corsini, mutavano continuamente colore. Come nasce questa idea?
E.C.: Ants è un lavoro che ha aperto una collaborazione con la scultrice Benedetta Lucca. Abbiamo deciso di sfruttare l’ospitalità concessa da Vittorio Corsini e dalla galleria Non Riservato proprio Durante il periodo di esposizione della sua installazione luminosa. Avendo assistito alle residenze artistiche precedenti, è stato complicato decidere che direzione percorrere. I curatori, in particolare Rossana Ciocca, avevano impostato il tema del lavoro in modo che comprendesse la vita del quartiere e il periodo che avevamo vissuto durante la quarantena di marzo 2020.
Dopo svariati tentativi progettuali abbiamo determinato dei punti in comune tra me e Lucca che prevedevano l’utilizzo dell’intero spazio interno e la partecipazione attiva dei fruitori. Analizzando poi le nostre intenzioni espressive, figlie di una stasi sociale e fisica, il sentimento di smarrimento comune, dovuto alla situazione di ibernazione che stiamo vivendo, ha permesso la realizzazione dell’installazione e la sua visualizzazione nella forma di labirinto. Al percorso confuso che ribalta la condizione spaziale della galleria è stato associato un audio nato da alcuni appunti scritti nei giorni precedenti alla residenza. Le indicazioni randomiche espresse dalla voce che si dissolve tra i teli bianchi, produce ulteriore confusione in chi attraversa lo spazio. Gabriella lo Ricco, docente di Architettura Virtuale presso l’Accademia di Belle Arti di Brera scrive riguardo il nostro lavoro “L’installazione lavora sull’aggiornamento di uno degli archetipi più potenti dello spazio fisico e interiore (il labirinto) e ne aggiorna le caratteristiche. In sintonia con l’ambientazione di Corsini, il labirinto lavora sulle cosiddette “virtù piccole” (soavità, trasparenza, suono, ecc): tessuti e trasparenze sostituiscono la corporeità dei muri, e indicazioni sonore come echi della mente, accompagnano e si sovrappongono ai movimenti dei corpi nei percorsi delle possibili vie”. Il titolo “Ants: Away from their colony, atrophied by reality“ vuole sottolineare quel momento in cui le formiche perdono la via di casa. La via tracciata dagli ormoni che viene seguita con diligenza, può svanire. Rimane una frenetica ricerca della giusta strada in un intrico di sentieri e scie già segnate. Allo stesso modo siamo costretti a percorrere strade già percorse, scelte per noi, trovando con difficoltà una via d’uscita. “Ci si palesa una rotta, ma non è la strada corretta. Non la vediamo più, ma se teniamo in mente l’obiettivo, la ritroviamo. Sta a noi scegliere se perderci o ritrovare la bussola. Seguiamo la scia lasciata da altri, come le formiche seguono con l’olfatto la via di casa. Nella loro individualità non contano nulla. Il gruppo è fondamentale, la collaborazione le fa lavorare, gli dà un fine vitale. Lo stridolio delle antenne che a ogni tocco creano corrispondenze qui è assente. Non ci si può toccare, non si può sapere dove andare”.
V.V.: A cosa stai lavorando in questo momento? Hai dei progetti per questo nuovo anno?
E.C.: É da quasi un anno che in concomitanza a miei lavori sul contatto, procedo verso una ricerca incentrata sui contemporanei temi della botanica, dell’ecologia e dell’importanza delle piante in un mondo in cui vengono distrutte e maltrattate. Questo tema penso sia alla base di ogni mio lavoro. L’idea di ricercare i materiali per le mie sculture nei sentire e in natura è già un primo approccio che indica una strada verso quella rotta. Venendo da un’isola con una bassa percentuale demografica e di urbanizzazione, il contatto con i boschi, le campagne e la natura è sempre stato alla base della mia educazione. A Milano ho sofferto parecchio di questo distaccamento dalla madre verde attraverso cui sono cresciuta raccogliendo sassi e osservando cicale, con la coscienza di ciò che mangiavo e di ciò che cresceva intorno a me. Attualmente ho realizzato dei frammenti video in cui ricerco questa connessione con la terra, ma è ancora in fase di elaborazione.
Contemporaneamente procedo con altri “tentativi” sperimentali, approcciandomi ad altre tecniche, come nebulose in un universo caotico, prima o poi ne capirò il senso.