COSIMO CASONI X MATTEO GARI
L’arte ha innegabilmente un lato ludico, che la si intenda come gioco pratico oppure concettuale. Da bambino il mio gioco preferito, da fare da solo o in compagnia, era “facciamo finta che…”: un gioco senza regole, basato su un patto di fiducia non scritto, in cui ci si affida ciecamente a una realtà inventata in cui tutto diventa possibile. Parallelamente il potere dell’arte consiste nell’accompagnarci in un universo potenziale, a patto di “credere” a ciò che succederà. Interagire con un’opera d’arte significa prendere parte a questo gioco che, come tutte le buone finzioni, nasconde delle grandi verità.
La pittura di Cosimo Casoni (Firenze, 1990), che ho incontrato la prima volta durante la mostra Hortus Conclusus curata da Federico Piccari alla Fondazione 107 di Torino, lascia un senso di nostalgia, simile a quello del ritrovamento di un ricordo d’infanzia. Elementi della pittura tradizionale incontrano arredi urbani come scivoli, rampe e aratri. La tensione tra naturale e urbano, reale e artificiale si combina, per esempio, nelle ringhiere, veri e propri trompe-l’oeil, in cui piccoli interventi pittorici “fanno finta” di essere stickers.
In questa intervista Cosimo Casoni racconta il suo percorso, la sua prospettiva sull’arte e la formazione artistica. Prossimamente le sue opere saranno esposte a una mostra personale alla galleria PAL PROJECT di Parigi, e alle collettive alla Yudicone Gallery di Brescia, NBB Gallery di Berlino e Piermarq di Sidney.
Matteo Gari: Mi piacerebbe iniziare chiedendoti della tua poetica e dei tuoi riferimenti. Le tue opere pittoriche e installative fanno parte di un universo visuale, molto coerente, in cui si incontrano il mondo dei graffiti e quello della pittura classica italiana.
Cosimo Casoni: Mi fa piacere sapere che la mia pratica risulti coerente, ma anche se non lo fosse non me ne preoccuperei: siamo spesso spinti in più direzioni. Vedo la pittura come un esercizio continuo che mi piacerebbe rimanesse aperto.
Durante gli anni di accademia ho chiuso con il mondo dei graffiti e del hip-hop, pur mantenendo una forte attitudine allo skateboarding. Solo anni dopo mi sono reso conto che queste esperienze potevano tornare a essere una sincera fonte di inspirazione, attraverso un occhio più maturo e consapevole.
Mi interessa la psicologia della forma, per questo ripongo molta attenzione alla composizione. Trovo che la distribuzione decentrata, ma ordinata, degli elementi nello spazio sia sintomo di una ricerca spasmodica di ordine. Il mio umore svolge un ruolo importante rispetto a come affronto l’atto creativo: influenza la rapidità dei gesti oppure il gesto più lento di una pittura meditativa e minuziosa. Spesso nei miei dipinti sono presenti entrambe le modalità, che creano contrasto e armonia allo stesso tempo. Sono intrigato dalle ambiguità, che traduco per esempio nell’azione di simulare tracce di skater, utilizzando la tavola con le mani, ottenendo un segno gioca con la percezione visiva dell’osservatore. È una sgommata di ruote sporche o una vera pennellata di colore? La vita è mistero e la buona pittura anche.
MG: Le tue opere iniziali si inscrivono in un discorso puramente pittorico. In che modo hai deciso di introdurre l’elemento dello skateboard, fino ad arrivare a una dimensione installativa?
CC: Ho iniziato il mio percorso partendo dal disegno e dalla pittura figurativa, ma la prima volta che ho skateato su una tela è stato epifanico. Sognavo di farlo da tempo.
Non volevo abbandonare la figura, quindi ho cercato di metterla in dialogo con le mie azioni di skateboard, in una sorta di coreografia pittorica.
Non ho ancora realizzato nulla che considererei vera e propria installazione, ma piuttosto ho sperimentato la pittura su diversi supporti. Ho dipinto su Jersey, ringhiere di ferro, rampe, ma anche aratri o scivoli di pedalò: oggetti che sono prolungamenti dei miei quadri. Voglio continuare a ricercare nuove soluzioni, in cui convivano la tridimensionalità degli oggetti e la bidimensionalità della pittura.
MG: Nel 2013 hai terminato gli studi alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Come consideri questa esperienza di formazione artistica?
CC: Sono passati diversi anni, ma ancora oggi faccio tesoro degli insegnamenti di alcuni docenti, artisti tutt’ora attivi.
È stata un’occasione per sperimentare a 360° le discipline cardine delle arte visive, scoprendo la mia marcata inclinazione per la pittura, nonostante fosse considerata linguaggio di serie B. Ho allenato l’occhio critico, ragionando su quando un’opera “funziona” o “non funziona”, ma cosciente che il fascino dell’arte sia dato una buona dose di mistero.
Ho deciso di non proseguire gli studi accademici sentendo che quell’infarinatura potesse bastare, iniziando questo cammino eccitante e impervio, concentrando tutto me stesso nella ricerca pittorica.
MG: La tua vita si divide tra la Lombardia e la Toscana. Come ti influenza il continuo scambio tra queste regioni?
CC: L’alternanza di periodi spesi in luoghi differenti si è rivelata fondamentale nello scandire l’andamento creativo.
Nutro un forte amore per la mia terra, in particolare Firenze – città natale di mio padre – e Grosseto, dove è nata mia madre e dove possiedo uno studio. La Maremma è il posto dove ho coltivato le passioni, attività ed esperienze che tutt’ora condivido con amicizie sincere, estranee al mondo dell’arte. Qui trovo serenità, concentrazione e ispirazione nel paesaggio, negli odori e nei sapori.
Quando sono a Milano mi capita di lavorare a stimoli avuti in Toscana, e viceversa, ma non è la regola. Periodicamente passo periodi all’estero, insomma, non riesco a radicarmi in un posto in particolare, forse un giorno accadrà ma al momento potrebbe essere letale.
MG: La quarantena è stata uno stimolo a lavorare o hai preferito fermarti per riflettere?
CC: È stato un periodo in cui mi sono messo in discussione e ho trovato conferme in alcune scelte e idee.
Ho individuato elementi e approcci, ormai delineati nella mia pratica, sui quali vorrei continuare a lavorare con una buona dose di sperimentazione.
I momenti difficili nella mia piccola sala-studio a Milano si sono riversati sui dipinti, realizzati arrangiandomi con il materiale disponibile e concentrandomi su lavori di piccolo formato, cercando di darmi un ritmo. Ho scelto di non fermarmi con la pittura per non entrare in un circolo vizioso pericoloso in un momento come quello.
MG: Che progetto realizzeresti se avessi a disposizione risorse e tempo illimitati?
CC: Sogno di affrescare interamente uno skatepark e delle pareti d’arrampicata su cui far performare dei climber.