UNA SPARATORIA FINITA MALE, MALISSIMO!

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PIETRO DI CORRADO X FEDERICO PALUMBO

Pietro Di Corrado (1995, Comiso, RG) è un artista che vive e lavora a Milano. Tra i consigli di diversi artisti e una scrollata su Instagram, venni a conoscenza del suo lavoro ormai diversi mesi fa. Rimasi profondamente colpito da una ricerca che immediatamente sembrava strizzare gli occhi verso tendenze storicizzate della storia dell’arte, filtrate ovviamente dal prefisso ‘post’; e, allo stesso tempo, pareva muoversi su binari inediti profondamente intriganti e iconici. Come spesso (sempre?) però accade quando un lavoro contemporaneo sembra manifestarsi come ‘già visto’, in realtà subito dopo finisce per rivelarsi realmente. Dubito dunque fortemente che il lavoro di Di Corrado possa essere categorizzato in stilemi ormai vecchi, e dunque stantii. Non si tratta di ‘post’-pop art, ‘post’-surrealismo o ‘post’-qualsiasi-cosa-purché abbia-un-qualche-rimando-ad-altro. Lì, quindi, emerse la mia definitiva voglia di approfondire. Anche perché in tutte le opere di Pietro Di Corrado (nome dal retrogusto boettiano) è presente una struttura a più livelli che si muove per cortocircuiti: temporali, spaziali, formali, cromatici, estetici… Dunque ecco che trovare punti di contatto con altri filoni o maestri del passato può risultare alquanto insensato; a meno che questo non serva per poter andare più a fondo, all’interno del suo lavoro, andando oltre le apparenze e sfidando proprio tutti quei cortocircuiti-trappole che l’artista inscena. 

La chiacchierata che segue è dunque un mix di diverse questioni che ho voluto approfondire con l’artista stesso. Quello che leggerete, e le mie domande in particolare, sono infatti frutto di poco studio. Nel senso che il portfolio era sgombro di parole, critiche e testuali. E se questo inizialmente poteva sembrarmi un problema per studiare il lavoro di Di Corrado, in realtà, poco dopo, ciò mi ha permesso di lavorare in libertà, di muovermi “senza grazia”, e di osservare il lavoro – che è comunque ‘immagine’, anche se spesso lo dimentichiamo, noi curatori in primis –  con gli occhi increduli (o ingenui) di un bambino. Lasciandomi affascinare solamente dalle opere.  Assecondando, così, i vari cortocircuiti che l’artista mi aveva preparato. 


Easter Monday, 33 x 43 cm, acrylic on canvas, 2020 – courtesy of the artist

Federico Palumbo: Vorrei iniziare la nostra chiacchierata chiedendoti subito qualcosa in merito alla tua formazione. So che hai frequentato la Scuola di Design al Politecnico di Milano e, successivamente, l’Accademia di Brera. Inoltre, hai anche frequentato un workshop di Interior  Design, sempre presso il Politecnico. Vorrei soffermarmi su questa “duplice” formazione e chiederti che importanza ha avuto, in particolare, studiare design.  

Pietro Di Corrado: Studiare in una tra le prime scuole di design al mondo è stato davvero  importante per un ragazzo cresciuto in un paesino provinciale del profondissimo sud Italia, quasi nord ma di un altro continente [ride]. Mi ha proiettato verso il mondo di chi realizza cose (!), o comunque di chi le progetta, ma le progetta davvero! Inizialmente scelsi un percorso di Product Design, uscito dalle superiori disegnavo autovetture e volevo diventare un nuovo Pininfarina, poi mi resi conto che volevo occuparmi di qualcosa di più linguistico, meno immediato, meno strettamente funzionale… meno scientifico, insomma! E virai verso l’Interior design. L’influenza dell’architettura è stata la mia primissima esperienza alla progettualità – il passaggio fu spontaneo. Ricorderò sempre quella piccola (immagino) stanza, perché ai miei occhi era molto grande e piena di sostanza, piena di rotoli di carta, di carta velina, e righelli, e compassi, e squadrette, e mine infinite di matite-supereroi che tracciavano segni su quei rotoli altrettanto infiniti; e ancora plastici, e cartoni, e micromondi di un micromondo quale era quella stanza. Era lo studio di mio padre, lo studio di un architetto urbanista degli ultimi anni del secolo precedente, dove della progettazione  digitale aleggiava solo tramite un misterioso scetticismo.  

Cosa mi rimane di quella scuola? Penso alla metaprogettazione, la progettazione delle singole fasi che compongono un’operazione, se vogliamo, qualsiasi! Nella maggior parte delle volte, invece, pensando alla cultura in generale del progetto, me ne nutro per trasgredirla, per farne altro!

FP: Effettivamente, il design, l’architettura e, più in generale, l’oggetto in sé è un qualcosa che nelle tue opere acquista una potenza – e un’importanza – preponderante. Come nasce la ‘scelta’ degli ‘oggetti’ che vanno a comporre i tuoi scenari, protagonisti dei tuoi lavori?  

PDC: Più che oggetti ultimamente li sto visualizzando come soggetti, o forse lo sono sempre stati. La loro scelta o la loro creazione nasce da una ricerca continua sulle forme e sulla loro possibilità intrinseca di raccontare altro che, nuovamente ‘durante’ la mia scelta, a volte si ripetono ciclicamente, senza lasciare intendere cosa viene prima e cosa viene dopo. A volte sono cose che mi piacerebbe vedere fuori dalla tela, come del resto sta accadendo (spoiler), altre volte sono cose che mi piace pensare e basta! 

FP: Questi scenari – se così possono essere definiti – mi hanno immediatamente lasciato un  retrogusto onirico in bocca, e negli occhi. In effetti, spesso mi hai parlato di “cortocircuito  temporale” e di come questo si manifesti nelle tue opere. Mi piacerebbe dunque approfondire con te la questione ‘tempo’.  

PDC: Eh, il tempo… [Sospiro]. Quando parlo di ‘cortocircuito temporale’ lo intendo come una intromissione nella stratificazione che esso opera nel costruire storia, storie di oggetti, o storie di  uomini, o qualsiasi storia più o meno cara. Nella narrazione che strutturo e indago il tempo vuole essere una parentesi, tempo di un altro tempo. 

Andrij, 32 x 22 cm, acrylic on canvas, 2021 – courtesy of the artist

FP: Vorrei soffermarmi ancora un po’ sul termine ‘cortocircuito’: abbiamo parlato ora dell’elemento temporale. Però, mi sembra di osservare che il tuo lavoro verta continuamente su anche altri cortocircuiti: ad un’apparente allegria compositiva, dopo uno sguardo più attento, corrispondono diversi elementi ‘quasi’ incompatibili fra loro, o difficilmente accostabili. Penso a Cotton Candy  Snake (2020) o, ancora, Micheline (2021), solo per citarne qualcuna. Dunque, da quanti livelli è composta una tua opera?  

PDC: Chiaro! Tornando quindi alla parola ‘cortocircuito’ in senso generale, è qualcosa che, sì, viene ad operare anche per altri livelli, non solo per quello temporale. Sicuramente ne esiste un altro spaziale, e certamente ne esisteranno molti altri che volutamente cerco di non sapere. È qualcosa che si nutre di varie altre materie e che, così facendo, va a cuocere una bella zuppa, senza badare troppo alla grammatura di un ingrediente specifico. Come il cinema di Tarantino che, solo apparentemente, si serve di un determinato modus operandi, e che, come sappiamo, sotto quella patina nasconde potenzialità maggiori di una sparatoria finita male, malissimo! 

Cotton Candy Snake, 43 x 63 cm, acrylic on canvas, 2020 – courtesy dell’artista e Dimora Artica
Micheline, 123 x 83 cm, acrylic on canvas, 2021 – courtesy of the artist

FP: Abbiamo parlato dell’importanza dell’oggetto in sé e delle conseguenze che questo provoca nei comportamenti umani tramite la sua esperienza con esso. Sempre, però, in relazione alla tua pittura. Ora, invece, vorrei soffermarmi sull’esperienza scultorea e installattiva, e chiederti che ruolo hanno questi medium all’interno del tuo lavoro.  

PDC: Ho sempre guardato molto alla scultura, e lo faccio tuttora. La domanda che, di punto in bianco, ho deciso di pormi ultimamente è: posso affrontare lo spazio che mi circonda come affronto lo spazio pittorico? 

FP: In base alla tua risposta, allora, mi piacerebbe approfondire la serie Summers, della quale mi sembra ne avessimo parlato meno durante questi periodi di confronto. Concettualmente, però, mi incuriosisce molto.  

PDC: La serie Summers è pensata come una ripetizione quasi identica di paraoggetti luminosi che verranno installati in un determinato modo, per una determinata occasione, ma non posso aggiungere altro, ecco. Sto riflettendo molto sullo spazio domestico e quotidiano che, come ben sappiamo, la pandemia ci ha portato ad affrontare in maniera inedita; e sto iniziando ad avere un rapporto consensualmente antigerarchico con gli oggetti con i quali mi scontro quotidianamente. Cercando di costruire un dialogo con gli stessi e cercando di capire la loro ritualità nei confronti  della mia.

FP: L’esperienza cromatica nelle tue opere mi sembra sia un’altra tematica nevralgica, o comunque degna di maggiore attenzione. Che ruolo svolge il colore nel tuo lavoro? Si ritorna, credo, nuovamente a tematiche molto care anche a tutto ciò che ruota attorno al design.  

PDC: Ci metto parecchio tempo a scegliere un colore e ancora di più a farlo! Cerco sempre di abbandonare la prima scelta, quella più immediata e scontata. L’esperienza che tutti noi abbiamo con il colore è ormai perenne: dalla prima controllata delle e-mail mattutina all’ultima scrollata serale di Instagram. Siamo bombardati di (bei?) colori. Quello che scaturisce dalle varie esperienze giornaliere, nel mio lavoro, è cercare di lavorare abbandonando preconcetti attribuiti al buon gusto, all’accostamento corretto, intraprendendo così un’indagine proiettata verso l’esplorazione di territori sconosciuti. 

FP: Mi piacerebbe sapere quali siano – se presenti – i Maestri del passato che in qualche modo ti hanno offerto una fonte importante di influenze e fascinazioni. La prima volta che ho osservato i tuoi dipinti ho pensato ad alcune opere di Aldo Mondino, Valerio Adami o una certa parte di opere di Emilio Tadini, ad esempio. Non so quanto tali accostamenti siano ‘veri’; oppure quanto siano soltanto frutto di una mia suggestione ‘sensoriale’.  

PDC: Sono stregato dalle costruzioni mesopotamiche, le ziggurat! Loro sì, penso siano state le  primissime influenze, che d’altronde si studiano in età infantile, ma che continuano tuttora a scatenare dubbi e fascinazioni. Per quanto riguarda le arti visive, più strettamente parlando, sono molte, davvero molte, le figure che tuttora continuano a stimolarmi. Non vorrei doverne citare alcune per paura di non essere corretto nei confronti di quelle che dimenticherei. Mi limito nel dire che: “Abbastanza raramente mi incontro con l’architettura, quella che prova ad avvolgere con cura il mio corpo e la mia anima”. (Foto dal finestrino, Adelphi, Ettore Sottsass). Per citarne uno… E basta! [ride, n.d.r.] 

Ziggurat, Iraq

FP: Hai progetti in cantiere per il futuro? Stai lavorando a qualcosa in particolare che puoi in qualche modo spoilerare?  

PDC: Mah, sai, per il futuro sogno la possibilità di conoscere quante più storie possibili e quanti più popoli fattibili, questo è quello che mi auguro. Mi piacerebbe continuare ad avere rapporti all’estero come quelli che ho potuto avere, nonostante tutto, nell’anno precedente. (È altrettanto vero che sogno anche un grande studio vetrato, in una casa confortevole con un porticato frontale e soffitti alti, su un appezzamento collinare a pochi km dal mare, con un bel vigneto autoctono e un andirivieni di cani che dal divano scorrazzano in giardino).  

Ritornando alle cose serie, sto lavorando a un modo di far confluire messaggi dei quali intendo occuparmi filtrati dal medium scultoreo — anche se preferisco dire tridimensionale (la pittura è sempre contemplata).  

FP: Hai realizzato la copertina che inaugura il mese di maggio. Ci racconti più nel dettaglio l’opera?  

PDC: Ho scelto di lanciare uno spaccato del lavoro degli ultimi mesi, ossia la progettazione digitale che sta dietro le quinte di queste nuove sculture che vedremo a breve. Ho preferito ritagliarne una porzione per non svelare tutto il progetto completo che mi auguro possa far breccia una volta visto in presenza. Quello che posso accennare è che questa volta ho lavorato sulla questione “scala” come fattore determinante, cercando di costruire una serie di riflessioni con il fruitore inerenti al modo personale di esperire l’ambiente quotidiano e il mondo affettivo che si porta con sé. Quindi il rapporto-rituale che si viene ad instaurare con l’oggetto scelto, lo stesso  con il quale decidiamo di convivere lo spazio, e parte delle reciproche esistenze. 

Relationship with a strengthless rack, rendering detail, copertina del mese di maggio per Osservatorio Futura, courtesy of the artist

FP: Come ultima domanda (utopica): se avessi budget e spazi illimitati, che cosa realizzeresti? 

PDC: La libertà di stampa nella Repubblica Democratica Popolare di Corea.

All That Is Week, 43 x 33 cm, acrylic on canvas, 2019 – Courtesy of the artist e Dimora Artica
Hot Wheels, 33 x 43 cm, acrylic on canvas, 2020 – courtesy of the artist e Dimora Artica