FEDERICA FIUMELLI
Istruzioni per l’uso: Scegliete un manuale o un libro di storia dell’arte, lasciatelo cadere su un piano. Esso si aprirà come fato vuole. Osservate l’immagine. Ecco ora sedetevi e iniziate a immaginare quello che osservate. Preferibilmente da consumarsi con un drink ghiacciato.
In una timida primavera ci dissetiamo amorevolmente.
L’uni con gli altri, nella nostra latente intimità.
Un’intimità che è pioggia verde, dell’esplosione ridente dei campi, giallo solare, avvolgente, caldo, accecante, e poi una neve candida di polline raccolta in uno chignon soffice, alla stregua di una nuvola sordida e bugiarda. La primavera il nostro primo vero corpo, per toccarci, e sfiorarci le dita, tra le luci della ribalta e la solitudine di un cuore spaccato come pietra.
Una primavera, vera, racchiusa in una stanza – tragica e romantica, come suonata da Gino Paoli – ma questo nostro soffitto non è viola ma ancora verde.
È proprio con queste parole che vorrei parlarti amico mio, al gusto di Mimosa, della pagliaccia Cha-U-Kao – un olio su cartone del 1895 regalatoci da un nostro probabile compagno di serata, Henri de Toulouse-Lautrec. Morto a trent’anni e qualche soffio come Raffaello, Modigliani e Mozart – geni dalla vita intensa e dal talento precoce. Pensate che al nostro compagno si deve anche l’invenzione di un cocktail chiamato il Tremblement de Terre, una combo spaziale di pessimo assenzio parigino e dell’ottimo cognac.
Ma noi siamo qui seduti, davanti ad un Mimosa, la storica variante dei Bellini, Rossini e Tintoretto, tra prosecco e succo d’arancia, inventato nel 1925 da un barman del Rittz Hotel di Parigi che diede questo nome proprio a causa del colore giallo intenso. Nel 1921, invece, nacque il Buck’s Fizz, un cocktail quasi gemello del Mimosa, diverso solo per le dosi, che ha preso nome dal locale nel quale era stato inventato.
Henri de Toulouse-Lautrec è stato uno dei primi artisti di rottura, a volere dipingere l’energia autentica delle cose, a rendere espressivo e vibrante le piccole grazie e disgrazie della vita umana. Afflitto da un profondo pessimismo dovuto anche alla sua precaria salute, non hai mai smesso di osservare i bordi dell’esistenza con estrema vitalità ed eleganza. Meava definire le matite come pensiero che passa dalle falangi e pur abbia vissuto pochi anni, vanta una produzione vastissima di dipinti, acquarelli, litografie e disegni.
La nostra Mimosa dipinta è per l’appunto la pagliaccia Cha-U-Kao – ballerina, acrobata e clownessa al Nouveau Cirque e al Moulin Rouge – una figura costantemente presente nell’opera del pittore. Il suo nome trova origine dalla trascrizione fonetica delle due parole chahut e caos, la prima: una danza acrobatica derivata dal cancan e la seconda dal caos che accoglieva l’entrata in scena della donna. Una perfetta metafora quindi dell’energia guizzante e peccaminosa che si trova nella poetica di Henri de Toulouse-Lautrec.
Cha-U-Kao è avvolta da una corolla spumeggiante e fruttata gialla, come una conchiglia, un fiore, un’esplosione leggera che disseta lo sguardo e che si conclude in un fiocco posto sulla punta dell’acconciatura – quasi a celebrare una vanità clientelare, a servizio del piacere degli altri.
Cha-U-Kao è espressione di godimento generoso, in vista anche dei suoi rotondi seni lattei, marmorei ma vibranti, densi, facenti parte di uno spettacolo, questa volta privato.
Come in toletta la pagliaccia è intenta a sistemarsi per il prossimo show, e nelle pennellate nervose intravediamo Boldini e certi fasti di un primo futurismo. Movimento, movimento, movimento. E omaggi alla pittura di Mary Cassatt, Bonnard o Degas.
L’arte di Toulouse-Lautrec la si ama per la verità dolce amara che racconta, senza commenti, giudizi, interferenze o metafore. I soggetti che il pittore ritrae sono onesti, privi di volgarità nonostante il contesto non sempre argentato o aulico; si denudano in frammenti di lucida realtà, di miseria gloriosa.
In quieta e profonda disperazione, illuminata di giallo, Toulouse-Lautrec non potè che incontrare Van Gogh; ed è così scalando per gradazioni come echi inzuppati di colore, sempre seduti al nostro tavolo incontriamo l’Arlesiana del 1888, la signora Ginoux, immersa in un giallo pallido, una Mimosa con doppio dosaggio di spumante; ne assaggiamo la naturalezza, e ne apprezziamo la schiettezza risolta di una donna che osserva sostenendo la sua testa con il braccio, tra verdi e aranci.
E vorrei perdermi nell’orizzonte di quello sguardo, tra l’attenzione e la noia, e vorrei potermi commuovere per ricordami di quel pomeriggio d’estate tra i girasoli, alla ricerca di un noi che sembrava lontano. Vorrei potermi svegliare da quella posa di sorretta riflessione per ricordami quei versi dorati, di spighe di grano e di come starnutivo annusando troppo vicina il cuore delle margherite, o dei ciliegi in fiore, bianchi e ingombranti come i capelli della pagliaccia.
La Signora Ginoux e Cha-U-Kao, entrambe, icone di profonda imperfezione umana, ci fanno compagnia nella nostra primavera selvatica, sorretta da una fauna notturna, fatta di attese e di sguardi ricamati; da soli pallidi, talvolta eccentrici e inglobanti. Sono pitture anti-dispotiche, alla ricerca della normalità che si fa stravaganza di un momento, pennellate dalla consuetudine di vita vera, rubata, sottratta alla dimenticanza della banalità.
Ecco, sottraiamoci alla dimenticanza del banale, e brindiamo con una nuova Mimosa alla mano a questo istante che sa di intimo e attesa, ma non ditelo a nessuno, perché è un segreto.
Federica Fiumelli