ALESSIO MOITRE
Facciamola semplice per una volta, non ci complichiamo il gioco con nuove regole o cercando deviazioni che ci porterebbero fuori strada. Peggio ancora, come mi incarognisco a fare, adoperando termini complessi o costruzioni dettagliate. Perché il punto, qui, è la comunicazione, quel genere di servizio che riceviamo quotidianamente, da direzioni differenti e che spesso reputiamo faziosa (o incompleta, se siamo un pochetto più attenti al contenuto) ma che nella logica di un Montanelli, dovrebbe essere di facile comprensione, senza architetture eccessive. E così è, difatti. Con un risultato che con il tempo si è reso sempre meno di pregio, possiamo dire dozzinale ma soprattutto numericamente eccessivo (trovare invece le qualità del giornalista toscano nei cronisti d’oggi è davvero un’impresa). L’informazione ammassa pezzi, articoli, podcast, dirette, servizi, interviste, scatti e lo fa ben oltre le capacità del nostro cervello. Le direzioni da cui giungono gli aggiornamenti sono infinite, spesso di nessuna attendibilità o peggio, false o fasulle. Per cui si è costretti a mendicare attendibilità da pochissimi canali indipendenti che sempre più spesso limitano il proprio raggio d’azione ad un tot di notizie al giorno senza toccare tutto il ventaglio delle novità du jour. “L’essenziale” è il titolo della nuova proposta editoriale di “Internazionale”, il noto settimanale italiano con notizie dall’Italia e dal mondo, ed è in senso stretto il risultato della compressione delle esigenze contemporanee. Un’unica uscita, il sabato, con il succo dell’informazione (o almeno a ciò che alla redazione appare tale) per l’uomo e le donne oberate dagli impegni, che spesso millantano di intasare il loro calendario (è la nuova moda, un po’ come alzarsi con le galline per fare yoga e “aggredire” il mondo da essere di successo). Prendiamo per buona che sia la soluzione vincente, che non si possa far altro per proteggersi dalla valanga mediatica che con la pandemia ha centuplicato gli input, rendendo impossibile sintetizzare i dati. L’intelligenza si è rivelata infatti insufficiente a setacciare le informazioni ed anche i più illustri pensatori sono finiti per crashare, palesando difetti di comprensione conditi con accenni filosofici, morali, giuridici o sociali. Questo succo di certezza, questo numero calmierato di news è forse il futuro del nostro sapere? Mi sono chiesto più volte se abbia senso informarsi quotidianamente, se vada protetta la nostra limitatezza, persino dare spazio all’ignoranza per garantire un cuscinetto di protezione per la nostra vita. “Maledetto il troppo sapere”, sosteneva un adagio e forse non era del tutto errato. Probabilmente conosceva le conseguenze di un aggiornamento continuo delle competenze (oltre ad una cultura tanto vasta quanto insensibile) che hanno subito un accelerazione netta dagli anni novanta in poi. Osservando gli svariati magazine di arte, spesso mi rendo conto di dover lasciar perdere, di non voler conoscere l’ultimo morto da introdurre con nome, anno di nascita, “si è spenta”, “ci ha lasciato”, anni, oppure l’ultima bravata dell’artista tizio e caio o l’intervista al curatore, gallerista, creativo, illustre del giorno che mi aggiorna sul marcescente sistema dell’arte. Nell’inconsistenza stagionale ci rientrano anche le tematiche, che dovrebbero essere le vere protagoniste del dibattito, a patto che siano inoffensive. Oggi, 10 dicembre, mentre scrivo, siamo saturati di articoli sulla dipartita della Wertmuller ma soprattutto siamo dispiaciuti perché il suo cinema (quando c’era e non sempre nella stessa purezza creativa), a qualcuno pareva “scorretta”, “disallineata” e altri sinonimi. Quello che ci manca è lo sbilanciamento dunque, rimpiangiamo una certa fermezza intellettuale che porta anche ad uno scontro. Eppure il dibattito scandalistico non ci manca, i giornali di qualsiasi settore abbondano di titoli acchiappapubblico: “collasso”, “disastro”, “scandalo” ed anche il settore artistico si è allineato, mantenendo negli ultimi tempi alcuni capisaldi riassumibili in: basta che si faccia. Così inondiamo i musei di mostre prefabbricate, le gallerie ci danno con la pittura colorata (mica quella ragionata, proprio a botte di colore), i curatori/curatrici si fanno fotografare spesso e volentieri in pose e vestiti da Vogue e gli artisti si adeguano facendo attenzione a non risultare fuori quadro. “Musei Usa bloccati dalla paura di fare mostre contestabili”, giustamente, sia mai. L’articolo, ultimo di un trittico, di Vincenzo de Bellis, apparso su “Il Giornale dell’arte” sintetizza la temperatura sociale in cui ci troviamo e che travolge ogni aspetto della nostra vita civile. Il pezzo come gli altri precedenti, per il suo procedere merita una lettura e non un estrapolazione di singole frasi, ma già dal titolo si può intuire di cosa si possa trattare. Della contrattazione di valori o meglio, “la decolonizzazione”, “la ridefinizione”, “l’attualizzazione”, termini complessissimi che purtroppo sono soggetti al vento delle proteste e alle sopraggiunte sensibilità contemporanee a cui il pensatore odierno si trova sprovvisto di equipaggiamento per affrontarli. Non basta il bagaglio conoscitivo e nemmeno un profondo interesse storico, la scapigliata società umana pare non voler correre rischi e nel decennio che stiamo vivendo pare voler passare ad una acriticità che ormai assomiglia all’accettazione di inglobare qualsiasi istinto e richiesta come evidenza di una nuova democrazia. Il risultato è un polpettone incolore dove l’insicurezza rende impossibile espandere le tematiche e il giudizio viene sospeso. La contrattazione che spesso pensiamo in buona fede di attuare per il bene generale, è invece un accordicchio che mantiene in sospensione ogni possibile sviluppo. Comincia a mancarti quell’intransigenza che se ben dosata permetteva ad un intellettuale di comprendere la società meglio di una trattativa al ribasso. Soppesare le nuove informazioni è un dato cruciale per lo sviluppo della nostra civiltà e per il benessere della specie. Valutare l’arte in modo spietato e senza compromessi, negandosi giudizi di parte ma ponendola sotto la luce del ragionamento e dell’aderenza alla logica progettuale, pare essere un aggravante e non più un sinonimo d’imparzialità. Dopo aver stemperato peni e vagine, aver cominciato a purificare la lingua da ogni accenno immorale, essersi resi corretti a tal punto da bilanciare persino i sentimenti, siamo pronti a procedere verso una cultura sensibile e bilanciata, priva di accenni impuri e soprattutto talmente confusionaria da non appartenere a nessuno. Mi spiace solo per i giovani artisti. Ho avuto a che fare, anche se in fase calante, ancora con una società imperfetta e analogica. È capitato almeno fino all’adolescenza, quel che basta insomma per far aderire i ricordi alla corteccia celebrale. Era un mondo scorretto, privo di equilibrio, dove le frasi inopportune non venivano censurate ma confutate perfino con accanimento, senza escludere colpi alla morale e al buongusto. Sapevi chi avevi davanti e far recedere il contendente era un’impresa ma quando avveniva non era certo perché voleva evitar grane. Alcuni erano razzisti e misogini, eppure non erano dei finti buoni. Quelli oggi abbondano e sono di gran lunga la razza peggiore. Mi spiace davvero per i giovani artisti, lo ripeto perfino. Non è più, nemmeno questo, nell’educazione lessicale ma per questa volta portate pazienza. Gli auguro una salutare crisi di rigetto. Per tutto il resto spero di esser stato chiaro, secondo il canone della nuova informazione.