Marta Acciaro: partiamo dalla tua ultima opera “100 pecore e 1 montone” (2022). Perché questo titolo?
Sebastiano Zafonte: il titolo viene da una canzone che ascoltavo tempo fa degli Üstmamó, appunto “100 pecore e un montone”, una critica all’uomo contemporaneo consumista, con un richiamo, verso la fine della canzone, alla natura, quasi un invito ad avere ritmi più umani. L’uomo si crede esterno se non addirittura al di sopra della natura, invece è proprio dentro alla natura. Il titolo sembra inoltre un’equazione se scritto con i simboli di Parentesitonde, lo spazio indipendente in cui è esposta l’opera. C’è dell’ironia in questo, come in quasi tutto il mio lavoro.
M.A.: Nel testo che accompagna il tuo lavoro ci sono alcune frasi chiave coerenti con la visione dell’opera. “Ritratto di un gregge […] 100 pecore possono essere un gregge, un popolo o un esercito”. Questo gregge è un gregge non neutrale?
S.Z.: io sinceramente lascio l’interpretazione alla sensibilità dell’osservatore
M.A.: ma io voglio la tua interpretazione! Che cosa hai pensato quando….
S.Z.: … dici, perché ritrarre un gregge?
M.A.: sì
S.Z.: parto sempre dall’ironia. Ho pensato: “come fanno a stare cento pecore dentro questa stanza?”. Non c’è descrittivismo o naturalismo. Ma volevo dare questa sensazione che ci fosse questo gregge schiacciato nelle pareti e sul soffitto. È stato un processo. L’opera non è stata pensata subito così. Nel modo in cui lavoro io mi piace togliermi il pensiero del lavoro che impiega più tempo manuale e poi penso a (non dico che sono) abbellimenti … Direi che ogni cosa ha bisogno del suo tempo dedicato. Una cosa chiama l’altra, faccio delle prove.
M.A.: e il fatto che ci sia la rete? Ti do l’interpretazione di una persona (io) che non conosceva il tuo lavoro. Ti do l’interpretazione di quando sono entrata a vedere l’opera e l’interpretazione dell’opera dopo che ho visto il tuo portfolio. Quando sono entrata ho pensato che ci fosse la rete per creare una distanza tra lo spettatore e questo mucchio di pecore. Interpretazione possibile potrebbe essere che nel momento in cui entro nella stanza mi prendo la responsabilità, tramite questo distacco, di non far parte del gregge e di avere un occhio critico rispetto al gregge. Il tappeto a terra mi ha dato l’impressione che questa fosse una possibilità borghese perché per pensare devi avere tempo. Il tempo è assolutamente una condizione borghese. E quindi era come un prendere atto del mio privilegio. Nel momento in cui però ho visto il tuo portfolio mi sono accorta che tu usi sempre una compressione della lana.
S.Z.: sì, come se fosse ingabbiata
M.A.: ingabbiata o nei sacchi o nelle tavole, nelle persiane. Quindi ho pensato che questa cosa avesse a che fare con la fruizione ma che fosse…
S.Z.: simbolo
M.A.: elemento che esiste al di là del fatto che qualcuno lo stia guardando. Come se fosse una problematica inerente il materiale lana che cerca di dialogare con l’esterno.
S.Z.: c’è il manto, la pelle dell’animale. E in questo lavoro forse si riesce a sentire ancora di più perché la lana essendo qualcosa che ricopre e riveste la bestia, in questo caso riveste le pareti, sì, ma tu sei dentro. Quindi i disegni che si vengono a formare sembrano viscerali. C’è un gioco tra interno ed esterno, tra sopra e sotto. Il fatto del distacco che tu senti fa parte di quell’arbitrarietà del sentire che ti dicevo prima perché scegli o di farne parte come parte o come elemento di disturbo (montone, pecora nera).
M.A.: il montone sotto il tappeto…
S.Z.: … che non si sa se entra o se esce. Se la rete è qualcosa di rigido io con il tappeto vado a rompere quella rigidità. E poi non avevo mai utilizzato la lana in questo modo installativo: l’opera è nata costruendola. Vorrei dare al mio lavoro le mie sensazioni sperando che l’osservatore senta quelle sensazioni.
M.A.: e quali sono queste sensazioni che hai cercato di creare?
S.Z.: appunto questo interno/esterno. Ho cercato di creare qualcosa di familiare e di intimo.
M.A.: perché non avete scritto nel pensiero dell’opera che l’opera si può suonare tramite i campanacci del soffitto?
S.Z.: perché è libero, se nessuno la vuol suonare non la suona! Penso già che l’elemento musicale ci sia già. Non tocchi niente ma la musica la senti solo vedendo i campanacci. Se li vuoi suonare diventa ludico e mi piace!
M.A.: credi molto nell’intelligenza del fruitore
S.Z.: è una cosa molto di nicchia
[…]
M.A.: parliamo degli altri tuoi lavori con la lana
S.Z.: “Cefalea” del 2019
M.A.: banalmente mi fa pensare a Velasco Vitali. Ma tornando a noi, quali sono le stratificazioni temporali nel modo in cui tu hai usato la lana in questi anni? Come usi la lana in “Cefalea”?
S.Z.: di che cosa è fatta una pecora? Di lana. Ma la lana è dentro la rete metallica. Faccio spesso questo gioco di scambio di ruoli: che succede se è la struttura a stare fuori e l’esterno all’interno? Ribalto tutto. E rimane l’idea di ingabbiare e rimanere in trappola.
M.A.: e il fatto che la pecora abbia la testa incastrata?
S.Z.: è il gap mentale in cui si cade sempre nella quotidianità. È quel lato istintuale dell’uomo che cerchiamo sempre di imbrigliare o di ingabbiare. Dalla testa parte tutto. Mi piace molto giocare sulle teste: tagliarle, schiacciarle
M.A.: leggevo nel tuo statement il problema del metamorfico, quindi per te se parlo dell’uomo o se parlo dell’animale non vi è differenza
S.Z.: l’uomo fa parte del regno animale scientificamente
M.A.: quindi la pecora è un pretesto per parlare dell’essere umano?
S.Z.: assolutamente sì. E poi mi piace porre sullo stesso piano naturale e artificiale perché penso che l’essere umano non è altro che la natura che prende consapevolezza di sé e trova gli strumenti per indagare se stesso
[…]
M.A.: qual è il pensiero dell’opera di “Hammerhead” (2021)?
S.Z.: è un’inversione di ruoli rispetto a “Cefalea”, proprio per vedere cosa succede. Mi piace interrogarmi sui metodi di rappresentazione dell’animale. L’ironia (guarda le zampette) si mescola alla drammaticità della pressione. L’ironia in questo caso è a livello formale: a volte può essere più sottile, a volte più esplicita. Mi piace essere versatile, o almeno mi piace pensare di essere versatile.
[…]
M.A.: questa è la penultima opera in lana che hai fatto (“Patema”, 2021). Sembra che “100 pecore e 1 montone” sia l’esplosione di questo lavoro
S.Z.: non ci avevo pensato [ride], architettonicamente è l’esploso! I piedi sono calchi di piedi di vitello. Mi piaceva che l’opera scoppiasse e fuoriuscisse qualcosa. C’è anche la testa di capretto. C’è una compressione che non tiene più e sborda, rompe gli argini. L’elemento quotidiano, le persiane, hanno una valenza aggressiva. Invece il tappeto in “100 pecore e 1 montone” è più disturbante che aggressivo
M.A.: più che “quotidiano” direi “abitativo”. Tu unisci all’elemento naturale l’elemento abitativo, specificamente umano: il tappeto, le persiane
S.Z.: il materiale edile che serve per fare le case!
M.A.: che bello, quindi non è un’astrazione il fatto che ci sia un interno e un esterno! L’esterno sembra sempre configurato come un animale che entra in relazione con l’umano, collegato però all’artificiale in quanto rientrante sempre in una componente abitativa! Minchia, fai un lavoro bestiale!
S.Z.: letteralmente!