A CURA DI MARTA M.ACCIARO
Marta M. Acciaro: Premetto che amo il tuo lavoro. Ma una delle prime cose che mi ha colpita di più delle tue opere è il richiamare esteticamente il lavoro di grandi artist*. Ti faccio degli esempi. “politically COREct” (2021) mi ha fatto pensare alla bianchezza di Gina Pane e al vivo della carne come contrappeso visuale; “Chiudere gli occhi è sufficiente per pulire i pensieri” (2022) mi ha fatto pensare agli Zerbini di Fabio Mauri; “Mi chiamo fuori” (2020) chiaramente Andy Wharol; “Mi ascolto” (2019) John Cage. Quanto la storia dell’arte contemporanea ha influito sull’estetica del tuo lavoro? È un’influenza estetica consapevole o del tutto inconscia
Chiara Ventura: Prima di tutto ti ringrazio. I nomi che hai scritto sono di artisti che ho guardato molto, soprattutto Cage e Pane, soprattutto all’inizio della mia formazione, quando diciamo che stavo ancora nella pancia. “Mi Ascolto”, per esempio, è un lavoro realizzato proprio in quel periodo, è stata la mia prima azione, ma non pensavo a Cage quando la facevo, forse anche con troppa ingenuità, pensavo solo ad essere ciò di cui avevo bisogno, era a tutti gli effetti anche un atto curativo.
Per rispondere alle tue domande, non riesco a non pensare alle lezioni di Giovanni Morbin in Accademia dove mi sono conosciuta guardando i video di artisti come Valie Export, Günter Brus, Bas Jan Ader, Joseph Beuys, Bruce Nauman… non solo ovviamente, ma questi sono i primi nomi per cui ho sviluppato un’ossessione e in quelle lezioni erano presenti in abbondanza, anche se io non ne ero mai sazia. Diciamo che, se dobbiamo fare una metafora con le fasi della vita, quel momento fu la mia infanzia, mi sono strutturata con quelle immagini e inevitabilmente qualche particella è passata al mio lavoro. Posso dire che c’era un grado di inconsapevolezza che col tempo poi, studiando e facendo, si è trasformato in base culturale. Anzi, affermo che la secchezza e la semplicità che a volte il mio lavoro ha, sicuramente, viene anche da lì.
M.A.: Mi sembra di ritrovare dei macro temi espressivi nelle tue opere, come se parlassi attraverso il cibo, le parole, la biologia e le geometrie
C.V.: Si, sono quasi i miei “veri” medium?! Cerco forme semplici, basiche che generino dei contatti, delle corrispondenze.
M.A.: Il tuo lavoro che più mi ha colpito è “Piatto Freddo” intervento che hai fatto presso Dubbio-cucina evolutiva, Via Strà 66, Colognola ai Colli, in Veneto il 10 luglio 2020 e come performance, M9 – Museo del ‘900, a cura di LAMB, a Mestre il 28 aprile 2022. L’opera trova, cito parole tue, “una corrispondenza tra il gesto di una degustazione di carne cruda, che prevede l’assaggio privo di sazietà e quello di una fruizione mordi e fuggi delle informazioni che presentano la carne dell’uomo, cruda, su un piatto freddo”. Quest’opera risuona tantissimo con l’opera di Fabio Mauri “Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo” (1989) in cui l’artista fa sedere il pubblico attorno al palco in cui si svolge l’azione; offre wurstel, crauti e birra a rimarcare la compartecipazione, anche se passiva, all’azione che si svolge (cioè una serata altolocata culturalmente elevata in cui i canti si alternano alle danze e alle declamazioni in tedesco delle parole di Heidegger) che vede una totale indifferenza nei confronti della società tedesca ed europea di quel che nel frattempo succede nei campi di sterminio nazisti, concepiti dalla medesima società. (https://www.fabiomauri.com/opere/performance/che-cosa-la-filosofia-heidegger.html)
In che modo i e le partecipanti al museo del ‘900 sono rimasti indifferenti? Cosa hai sentito e percepito una volta svolta l’azione?
C.V.: C’è da dire che “Piatto freddo” è un lavoro nato per un contesto extra-artistico, un ristorante gourmet, dove in una serata in cui il menù prevede una degustazione di carni, viene servita la portata della tartare di manzo su un piatto con al centro stampato uno scritto differente per ogni commensale. Ogni contenuto dello scritto riporta dati e/o fatti riguardanti la violazione dell’essere umano, della sua dignità e dei suoi diritti. La dimensione dei caratteri è molto piccola, corrisponde a quella che possiamo trovare in un articolo di giornale. Al ristorante solo due persone si erano accorte di cosa avessero nel piatto, mentre quando il lavoro è stato riproposto in un museo se ne sono accorti tutti. Anche se erano stati semplicemente invitati a cena e non sapevano cosa sarebbe accaduto, sapevano, per il contesto in cui si trovavano, che ci sarebbe stato qualcosa da guardare oltre che da mangiare. Quindi già parliamo di due livelli di fruizione differenti: uno, al ristorante, che ti coglie impreparato e con le difese basse, nella quotidianità di un giorno come un altro, uno, al museo, dove sei già mentalmente predisposto a un cortocircuito, a una discussione. Io mi sento comunque marginale nel lavoro perché in fondo non faccio l’azione, la innesco. A farla è lo “spettatore”, quindi sarebbe da chiedere a loro come si sono sentiti dopo, che è esattamente ciò che provo ad immaginarmi mentre mangiano. Anche perché, in ogni caso, il lavoro fa emergere un comportamento, un modo di stare di fronte a quelle informazioni, che verranno digerite, naturalmente digerite ed espulse dal corpo.
M.A.: Ho letto della tua azione militante presso plurale, di cui sei co-fondatrice.
C.V.: Nel 2020 insieme a Giulio Ancona e Leonardo Avesani abbiamo co-fondato plurale, una forma collettiva di presenza nel mondo. Da giugno 2020 a marzo 2022 ci siamo presentati come Collettivo Plurale, dopodiché non abbiamo più sentito l’esigenza di presentare il progetto con un nome e un cognome, come si fa con un autore, perché plurale, prima di essere un collettivo artistico, è una reazione, una forma di pensiero e dunque un modo di agire. È plurale ad assumere un atteggiamento militante per quello che è. Il lavoro è sempre un pretesto per parlare di altro, ci interessa denunciare ma anche offrire reazioni, attivarci. Per esempio, durante giugno abbiamo pubblicato “Gesto empatico”, un manifesto che afferma il nostro esserci nel mondo, dove poniamo l’azione empatica come l’unico mezzo ad oggi per restituire agli esseri e alle cose pari diritti e dignità. Il manifesto viene distribuito nello spazio pubblico, ci interessa che arrivi alle persone prima di formalizzarsi come “opera d’arte”. Dopodiché, abbiamo realizzato un corpus di lavori intitolato “Gesti”, sempre in progress, dove tentiamo attraverso la pratica di reificare quei principi. Si tratta di azioni che attivano “una teoria”, la dimostrano e che in questo caso particolare abbiamo sentito, sempre per la natura del progetto, doverosi.
M.A.: Il tuo mi sembra uno sguardo sul per del il corpo. È chiaramente un lavoro politico in modo esplicito. È anche un lavoro femminista? Come ti posizioni al riguardo?
C.V.: È anche un lavoro femminista, lo è perché è giusto dare alle cose il proprio nome. C’è una sorta di lotta che porto avanti anche col lavoro e sicuramente molti miei gesti sono, per tornare alla questione di prima, militanti.
M.A.: Progetti per il futuro?
C.V.: Sto lavorando molto col collettivo, stiamo proseguendo quella fetta del nostro lavoro dove cerchiamo di analizzare come la nostra generazione (Generazione Z) si pone nel mondo. In questo periodo siamo focalizzati su un atteggiamento conservatore che, paradossalmente, trova corrispondenza nell’estetica trap. Inoltre abbiamo un progetto puramente musicale, di musica elettronica, che stiamo sintetizzando, a breve andremo in Svizzera per lavorare solo a questo.