GRAZIA AMELIA BELLITTA X FEDERICO PALUMBO
Federico Palumbo: Ciao Grazia. Voglio partire subito a bomba chiedendoti di raccontare il legame che c’è tra te e la Puglia, tua terra d’adozione, e più in particolare con il Sud Italia.
Grazia Amelia Bellitta: Ciao Federico. Ti rispondo subito a bomba allora! Il mio legame con il Sud è molto viscerale. Non sono mai voluta andare via e anche quando ci ho provato, alla fine, non andavo mai a fondo… tornavo qui. Attualmente abito a Lecce, in Puglia. Città che mi ha adottata più di 10 anni fa. A pensarci bene, tra poco, avrò vissuto metà vita ad Oriolo, in Calabria, nel mio paese natale, e metà vita qui. Questa scelta che, credimi, per certi aspetti è stata coraggiosa e per altri codarda, caratterizza molto la mia ricerca. Ogni riflessione è così personale che diventa, sempre, una seduta emotiva. Cerco, attraverso l’intimità del racconto, di allontanarmi un attimo, osservare dall’esterno, e ri-narrare in maniera nuova, cercando di non mancare di rispetto a quella intimità. Questo mi porta a lavorare molto su me stessa e sulle mie paure che, spesso, sono collegate ai “limiti” anche territoriali, che ho vissuto da piccola e che vivo tuttora.
F.P.: All’interno della tua ricerca emergono discipline quali antropologia e alchimia. Qui si situano l’analisi del simbolo, la sua potenza e la sua enigmaticità, in relazione alla nostra vita. In particolare, il simbolo sembra scongiurare una paura di fondo dell’essere umano: in preda a una crisi identitaria nel mezzo di una vita carica di eventi indecifrabili, questo corre in aiuto a “salvarlo”. Come si esprime tutto ciò nel tuo lavoro?
G.A.B.: La mia ricerca attraversa gli studi antropologici, psicologici e alchemici per ampliare e approfondire tutto ciò che riguarda le nostre azioni, i nostri riflessi, le nostre attrazioni e repulsioni. Utilizzo questi studi senza alcuna intenzione o velleità puramente narrativa o documentaria, piuttosto sono un supporto per narrare altro. Ricerco ciò che, nell’uomo, facilita il contatto con il mondo interiore per innescare riflessioni su profondi cambiamenti di coscienza. La psicoanalisi, l’etnologia, l’antropologia, la storia delle religioni e l’alchimia, pur essendo discipline molto diverse tra loro, sono unite da un obiettivo comune: portare alla luce strati profondi, nascosti e antichi della soggettività umana, presenti sotto il velo sottile della civiltà o della razionalità, elementi indispensabili nel determinare le azioni sociali. Tali caratteristiche sono quindi intese a rappresentare uno strumento culturale di protezione per trapassare il momento di crisi e per non perdersi di fronte alle minacce di forze esterne e incontrollabili. Cerco, nell’azione contemporanea, una ri-determinazione semantica che affonda le radici in qualcosa di più antico, con elementi del mio/nostro tempo. Un racconto che appartiene a un universo ignoto e al tempo stesso riconosciuto, che mescola il passato e il presente, la magia popolare con la terra rozza, e l’alienazione con l’incanto.
F.P.: L’alchimia, d’altronde, è smussare la pietra dell’ignoranza posta dentro di noi, trasformandola in oro, cioè conoscenza. Il legame con il tempo è di conseguenza circolare. Mi piacerebbe parlarne con te. L’alchimia mi ha sempre appassionato e risulta sempre un argomento e un tema difficile da trattare.
G.A.B.: Parto da un’idea tanto cara agli alchimisti e che mi sta particolarmente a cuore: l’immaginazione, in determinate circostanze, crea effetti corporei. Se ci troviamo davanti materia animata o inanimata e ci abbandoniamo al suo racconto, per una strana coincidenza, tutte le conformazioni imitano quelle di certi dipinti contemporanei o delle più antiche pitture rupestri. In questo processo, la somiglianza tra le forme trovate e quelle che già appartengono al nostro immaginario è impressionante: la figura prodotta dalla psiche traspone le sue sembianze nella materia in maniera del tutto naturale. Un pensiero rivolto a chi, spinto da una voce interiore, non si limita alla superficie, ma è disposto ad esplorare l’essenza delle cose, penetrando profondamente dentro se stessi. Ecco che, l’uso di metafore e simboli, diventano una chiave per aprire le porte a qualcosa che è più antico di noi e che si svela nel viaggio attraverso l’astrazione. In altre parole, le immagini che abbiamo davanti nascondono segreti esplorabili solo se associati alla fantasia, alle paure, alle emozioni e all’esperienza di chi guarda. Quando l’inconscio viene fuori, la nostra mente ci riconduce a simboli personali: ecco quindi che di fronte alle stesse figure vediamo infiniti mondi. Un viaggio nell’invisibile reso visibile attraverso frammenti di realtà apparentemente oggettiva; ci troviamo ai confini più profondi e nascosti della nostra psiche, dove, la ricerca
dell’Armonia, secondo la predestinazione umana, passa attraverso Oscurità e Luce. Mi interessano tutti i sistemi atti a produrre immagini, in alcuni casi è un interesse dichiarato, in altri casi lo esprimo in maniera più velata e profonda. Attribuisco ai mezzi un significato quasi magico, alchemico e metaforico. Mi piace anche l’idea che i vari mezzi si possano mescolare tra loro, e non solo nell’atto pratico ma con valore più concettuale. La fonderia, l’incisione e la stampa fotografica in camera oscura, ad esempio, presentano strane e significative concordanze e somiglianze con il processo alchemico. Allo stesso tempo ho trovato molta più fotografia quando ho lavorato con il suono, che il più delle volte sono ritratti sonori di un ambiente acustico, che nella fotografia stessa. Parto proprio dal mezzo scelto per analizzare ciò che di fatto è al centro della mia ricerca: la scena psichica che rimesta le profondità dell’anima umana, la minaccia della crisi esistenziale che continua a pendere sugli individui e sulle comunità per arrivare ad innescare un dialogo con la materia quasi fosse un esercizio di analisi emotiva.
F.P.: A questi discorsi si collega bene il tema della magia, che in qualche modo abbiamo analizzato poco. Parli spesso di rituali di iniziazione e della magia. A tal proposito uno dei tuoi ultimi lavori, Sciò (2022), ben evidenza tutti questi aspetti. I Territori Magici, teorizzati da Achille Bonito Oliva alla fine degli anni sessanta, sono per me considerazioni imprescindibili: come, per te, l’arte può sprigionare tematiche tanto ‘effimere’ quanto presenti nel nostro immaginario?
G.A.B.: Esatto! Sciò rappresenta perfettamente quello che intendo quando dico che dentro la mia ricerca c’è una parte molto intima, legata alla mia famiglia e alla mia storia, soprattutto emotiva, e la lunga e infinita ricerca teorica. Ho deciso, con questo lavoro, di omaggiare mia madre, sarta per passione perché un serio problema alla vista non le permette di farlo per professione, evocandone la tecnica e gli insegnamenti. Per questo tengo molto alla figura della sarta, che cuce insieme più elementi, per dare vita a qualcosa di nuovo. È in questa azione che trovo l’affinità con il passato, la memoria e la tradizione nel momento in cui, questi, vengono “cuciti” per essere raccontati. La giacca di pelle che, con la sua estetica post-punk e rave diventa metafora del rito di iniziazione, è rattoppata con pattern antichi per raccontare, in maniera del tutto nuova, la storia magica dello scongiuro, quest’ultimo accompagnato dal suo rituale performativo: indossando la giacca l’opera si anima con l’intenzione di scacciare qualsiasi male.
F.P.: A tal proposito mi viene in mente il tuo lavoro Heartz (2021). Vorrei approfondire l’opera con te.
G.A.B.: Hertz, lavoro del 2021, è il risultato di un processo vissuto al pari di un rituale meditativo dove ho cercato di indagare relazioni personali, immaginate, ricordate, invisibili o fisiche tra il suono, il mondo e noi stessi. La restituzione finale è un’“architettura” che traccia, attraverso il suono, una traiettoria di auto-rappresentazione che mette in una condizione di ascolto per indagare i più profondi confini identitari. In questa sorta di liberazione e di restituzione sul piano “mistico” di recupero della trascendenza ho installato il Sound System, appartenente alla cultura rave, sul letto del fiume Ferro ad Oriolo calabro, il mio paese natale. Quest’ultimo, chiaramente, rappresenta un luogo fortemente evocativo e simbolo della mia memoria. Il suono, riprodotto in estemporanea dal muro di casse, è stato ricavato registrando incisioni calcografiche e sperimentali su metalli come rame e zinco. Quando il metallo torna vivo, attraverso il racconto sonoro, si trasforma e si mescola con i suoni del paesaggio. Si crea così un collegamento tra interno ed esterno. L’opera quindi, composta da elementi visivi apparentemente contrastanti tra loro, in qualche maniera accomuna la ritualità del mantra, le tradizioni popolari e il tribalismo esotico con le feste clandestine basate sul consumo di droghe e sull’invasività del beat.
F.P.: Recentemente hai avuto la mostra personale Maisia, curata da Markt Studio, presso F.lli Cacciari, Bologna. Mi racconti il progetto?
G.A.B.: Maisia riprende uno scongiuro popolare, forma dialettale del più comune “non sia mai”. È un termine che fa riferimento a qualcosa che ci si augura non accada mai e quando viene utilizzato diventa quasi una preghiera, accompagnato da uno stato d’animo ben preciso. “Maisia”, “tocchiamo ferro”, “facciamo le corna”… quando ricorriamo a queste formule stiamo, in qualche maniera, entrando in contatto con una realtà altra, dove l’evento sfortunato non esiste o, se esiste, siamo emotivamente pronti ad affrontarlo. Un titolo, tra l’altro, che ha colpito nel segno se penso a tutte le sfighe che hanno accompagnato la mostra, per fortuna riuscita senza grossi problemi e sciagure. Tanto che, alla fine, la frase più ripetuta, dopo i vari ritardi nella produzione dei lavori, era proprio “Maisia la mostra non si fa”. È stato divertente. I lavori in mostra erano tre, “Stellosa”, scultura che raffigura due corna animali decorate in ceramica. Si tratta di un dono di mio padre: le corna utilizzate per realizzare il “fac-simile” in terracotta, erano tradizionalmente poste sopra l’uscio di casa in funzione scaramantica. La stessa logica viene trasposta nello spazio espositivo, idealmente sorvegliato e protetto da un oggetto la cui presenza è intensificata e potenziata dall’intervento. La scultura è stata realizzata da una sapiente artigiana della ceramica e della cartapesta leccese senza ricorrere ad un calco ma “imitandole”. In questa maniera il nesso con la tradizione orale diventa evidente. Ogni storia raccontata con questo sistema di trasmissione, replica e rielabora ed è in continua mutazione. Ogni sistema di tradizione orale è comunque abbinato ad un insieme di forme di trasmissione delle usanze, dei riti, miti, canti, frasi, leggende, favole, ecc. Questi aspetti sono appresi e rielaborati in parte per via verbale ed in parte mediante altri sistemi simbolici, nonché tramite l’imitazione e la sperimentazione. Un sistema, tra l’altro, privilegiato nella trasmissione del sapere per la sua rapidità ed immediatezza.
“Sciò” la giacca di pelle che ho raccontato prima e che è stata anche in mostra da voi ad Osservatorio Futura [Abbiamo invitato un po’ di artisti nello spazio pt. II | La curatela militante, opera selezionata da Giuseppe Amedeo Arnesano, n.d.r.], e “Ricordo d’amore ti dono, il cuore mio”, coltellino da tasca a serramanico calabrese. Quello che può sembrare un semplice coltello, un objet trouvé, si manifesta come opera attraverso una stratificazione culturale e materiale di significati. Regalato da mio padre in una sorta di passaggio di consegne, un rito nel rito, sulla lama ho inciso: “Ti dono il cuore mio”. La genesi dell’opera fa riferimento a un rituale diffuso tra i pescatori che dovevano affrontare il rischio di pericolose mareggiate. Durante una perturbazione erano soliti incidere sulla poppa della barca una stella a cinque punte, stilizzazione della figura umana, invocando il Santo protettore. Il coltello veniva poi lanciato cercando di colpire il centro, nonché cuore della stella: se il tiro andava a segno i pescatori potevano auspicare nella grazia richiesta e in una navigazione priva di insidie. Il lavoro gioca su una doppia significazione. Se la sua origine concettuale rimanda a una precisa pratica scaramantica, ciò che vediamo dice altro. È l’immagine stessa a mostrarci la sua forza vitale prendendo letteralmente parola: l’oggetto prende voce all’oggetto, animandolo, come se vi instillasse una parte di sé. Qui la duplice valenza dello scongiuro, che dal suo contesto originario si fa tangibile come opera e, soprattutto, diviene metafora per esorcizzare la paura della perdita di mio padre, a cui rivolgo il coltello reso “vivo”.
F.P.: Ora, invece, vorrei affrontare l’argomento cellula art project, ‘esposizione’ per la quale sei stata selezionata. Il progetto in sé è molto interessante: quello di realizzare una mostra ‘trasportabile’, all’interno di questa struttura/cella in acciaio. Puoi raccontarci qualcosa in merito?
G.A.B.: Stiamo ancora progettando l’intervento con Elisa, che vedrà all’interno della cellula proprio “Ricordo d’amore ti dono, il cuore mio”. L’idea di inserire un coltellino in una cellula così piccola mi piace molto. Giocherò molto sullo stravolgimento dei piani immaginando il coltello gigante rispetto all’ambiente che loro ospita, e questo lo trovo molto interessante.
Per approfondire ulteriormente quest’ultimo progetto abbiamo fatto a Elisa Gallenca, ideatrice del progetto Cellula e della piattaforma @cell_online_art_project, qualche domanda.
Osservatorio Futura: Che cosa ti ha colpito nella ricerca di Grazia, e per quale motivo il progetto presentato pensi si presti bene a cellula?
Elisa Gallenca: La capacità di evocare stati d’animo che intrecciano il passato con il futuro. Attraverso oggetti, immagini, suoni simbolici legati alle sue origini, Grazia riesce ad evocare un passato che sempre ritorna stupendoci con nuove narrazioni.
Ho conosciuto Grazia e Gianni (Durso) ad un’inaugurazione nel loro spazio a Lecce: Spazio Su. Ho capito che c’erano affinità nel modo di immaginare l’arte in relazione allo spazio; Spazio Su è su una scala, Cellula è in scala. E poi ho ritrovato nel lavoro di Grazia Amelia un approccio all’arte trasversale in linea con Cellula. In particolare l’opera “Ricordo d’amore, ti dono il cuore mio” è un piccolo oggetto, un coltellino che apre spazi a vastissime narrazioni e celebra la memoria di persone e luoghi pur trascendendoli.
F.P.: Tornando a noi, Grazia, quest’opera mi ha fatto pensare Androgino, carne umana e oro (1973) di Vettor Pisani. Oltre alla performance solitamente vengono esposti elementi utilizzati durante l’azione, tra i quali proprio un coltello, ad esempio. Qui l’androginia e il relativo taglio del sesso era visto da Pisani come un ritorno all’essere perfetto, all’interno del quale i due poli maschile e femminile erano risolti insieme. Anche qui l’elemento alchemico, il rituale e il simbolo sono evidenti. Vorrei mi raccontassi delle tue influenze, in campo artistico e non.
G.A.B.: Ogni mio lavoro ha le sue “Bibbie” o i suoi “Santi” che non sono solo letterari. Dall’antropologia all’etnomusicologia, dal documentario e cinema fino ad arrivare a testi sulla Magna Opera, psicologia e filosofia. Penso a Werner Herzog, Luigi di Gianni, Vittorio De Seta, Roberto De Simone, Alan Lomax, Ernesto De Martino, Carl Gustav Jung, Ildegarda di Bingen, Claude Debussy, Franco Battiato, Georges Ivanovič Gurdjieff, Aristotele, Platone, Pitagora, Gilles Deleuze, Georges Bataille, Roland Barthes e a personaggi mitici come Ermete Trismegisto. Oltre a questi riferimenti, che sono solo i primi che mi vengono in mente, è necessario per me fare un appunto su ciò che è davvero essenziale durante la genesi di un lavoro e in fase di sperimentazione. Parlare costantemente con la mia famiglia. Questo mi aiuta a ricordare vissuti, non solo magici, e a entrare con più consapevolezza nella mia storia. Questo passaggio è molto evidente in “Ricordo d’amore, ti dono il cuore mio”.
F.P.: Domanda utopica: se avessi budget e spazi illimitati, che cosa realizzeresti? G.A.B.: Eh… probabilmente un luogo per accogliere gatti! Scherzo (quasi)! Non so davvero rispondere a questa domanda, dico davvero. Forse l’unica cosa che mi da speranza è un serio investimento nella formazione. Forse solo così il riscontro nel lavoro, ma soprattutto nella vita, è davvero valido.