MIRIAM DEL SEPPIA X VIRGINIA VALLE
La protagonista del terzo appuntamento della rubrica mensile Avanti/Indietro è Miriam Del Seppia, artista nata a Memmingen, Germania, nel 1991, ma cresciuta a Pisa.
Miriam ha studiato Pittura all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino per poi proseguire con un Biennio Specialistico in Pittura e Arti Visive tra l’Accademia di Belle Arti di Bologna e la Kunsthoschule di Kassel.
Il suo lavoro si incardina sui temi della memoria, degli affetti, delle relazioni e tende spesso a instaurare un legame con il fruitore che viene coinvolto attivamente. Le tecniche che utilizza spaziano dalla pittura alla scultura, dalla tintura dei tessuti e al ricamo fino alla performance. Nel 2020, oltre ad arrivare tra i finalisti della XII edizione del premio Nocivelli, ha partecipato alla mostra collettiva Arteimpresa, a cura di Silvia Bellotti ed Erica Romano presso la Saletta Campolmi di Prato e alla bipersonale Interferenze alla Casa Galleria Accaventiquattro, sempre nel capoluogo toscano.
Nella chiaccherata che segue leggerete qualcosa in più in merito alla sua ricerca artistica, alle differenze tra le due accademie frequentate e alla positiva esperienza Erasmus vissuta a Kassel.
Virginia Valle: Il tuo lavoro spesso presuppone la presenza del pubblico o il suo coinvolgimento, come nella serie Latti (2019-2020). Ci racconti qualcosa di queste opere?
Miriam Del Seppia: Latti è composta da elementi che sono come dei tappeti, dei cerchi-spirali che si accrescono e occupano lo spazio irradiando le loro tenui sfumature del colore del latte: sono dei luoghi dove stare, da toccare, ma anche dove fermarsi a parlare, a pensare, a giocare (come è stato il caso di alcuni fruitori bambini).
Ma quest’opera per me ha significato anche per la pratica di realizzazione: le azioni di raccogliere i tessuti, tagliarli, tingerli, cucirli, intrecciarli si sono mescolate a riflessioni, letture e conversazioni. L’allattamento è una delle questioni che mi hanno guidata nel lavoro, un tema che mi sono trovata a esplorare con persone vicine a me che stavano allattando o che si stavano preparando alla maternità. Ma l’immagine del latte come relazione di nutrimento e amore è più ampia del rapporto tra una madre e il suo bambino e nel mio percorso ha compreso una dimensione più universale legata al nutrimento fisico e affettivo, alla reciprocità, alla circolarità e fluidità della vita. Ogni nodo accompagna e cerca di accogliere l’intrecciarsi dei pensieri nello scorrere del tempo. Inizialmente è stato un processo che ha coinvolto quasi esclusivamente me stessa e al massimo pochi amici e parenti, ma il mio desiderio è quello di portare quest’opera a coinvolgere il pubblico in attività collettive. Questo insieme di pratiche può creare dei “luoghi” e può essere esso stesso nutrimento.
V.V.: La serie Echoing (2020) presenta invece tele di diversi formati nelle quali riconosciamo l’estetica di un’ecografia. A cosa rimanda per te questo soggetto?
M.D.S.: L’inizio di un lavoro è spesso legato ad un evento che ha un impatto forte sulla mia immaginazione, e la gravidanza di mia sorella ha sicuramente influito su questo gruppo di pitture (come ha influito sui Latti), ma non solo: quasi sempre l’evento reale si mescola a delle storie che leggo, dati scientifici, ma anche leggende, invenzioni e fantasticherie che catturano la mia attenzione o che io stessa alimento. Sulla tela poi tutto si mescola, lavoro in maniera intuitiva e l’immagine prende una sua forma imprevedibile e si allontana anche dai punti di partenza.
L’ecografia consiste nell’esplorazione di cavità e organi interni attraverso l’invio di onde sonore ad alta frequenza, e la registrazione dei segnali eco che sono stati riflessi. Mi affascina il fatto che questo metodo viene utilizzato al fine di visualizzare ambienti che sfuggono al nostro sguardo, inviando però dei segnali che sono sonori e ricevendo una “risposta” che poi è tradotta in figura.
Inoltre, l’ecografia che si fa in gravidanza mi fa pensare al nostro vivere come esseri immersi, intendendo l’immersione non come una continuità fisica, ma come la descrive Emanuele Coccia, “prima di tutto, un’azione di compenetrazione tra soggetto e ambiente, corpo e spazio, vita e milieu. […] Il soggetto e l’ambiente agiscono l’uno sull’altro e si definiscono a partire da questa azione reciproca. […]”. Continuo la citazione perché è molto bella: “Non si può essere in uno spazio fluido senza modificare, per il fatto di esservi, la realtà e la forma dell’ambiente circostante”.
Se guardo il cielo posso immaginarmi immersa nell’atmosfera, così come il feto lo è all’interno del corpo materno. Posso immaginare la sfera del nostro pianeta immersa dentro l’universo.
Penso che tutto questo, insieme alla pittura, abbia a che fare con il tentativo di affrontare luoghi e dimensioni sconosciute e di esplorarli, influire, interagire con essi. Ma ha a che fare anche con il cercare o l’osservare i nostri spazi di contenimento e protezione.
V.V.: Al 2019 risalgono altri due lavori che non prevedono solo la fruizione da parte del pubblico ma gli richiedono un’attiva partecipazione: Per vedere e 4h slow walk intervention. Ce ne puoi parlare?
M.D.S.: Sono interventi, interazioni, ricerche, esercizi di percezione e di immaginazione del corpo e di rottura di una situazione di routine. Per vedere è una mascherina da indossare sugli occhi; l’idea è quella di poter essere guidati nell’esplorazione di uno spazio (espositivo o della quotidianità) evitando di usare la vista, che spesso è il senso che utilizziamo in maniera preminente. È uno strumento per lavorare sul legame che abbiamo con il corpo, lasciare spazio all’esplorazione tattile e alla percezione dello spazio partendo dagli altri sensi. Il lasciarsi guidare è un elemento importante in questo esercizio, e il colore e la stoffa che avevo scelto per realizzare questo oggetto avevano un loro significato rispetto a queste considerazioni.
Anche camminare è uno strumento utile per percepire di nuovo un luogo, espandere lo spazio, porre l’attenzione. Quando ho fatto questa camminata (4h slow walk intervention) volevo coinvolgere i passanti che si trovavano in una via centrale e commerciale di Vienna durante un sabato pomeriggio, in un’azione che consisteva nella condivisione e nel rallentamento della camminata. In questo modo volevo causare una modificazione nella loro percezione di un luogo di passaggio quotidiano e nella routine giornaliera, seppure una modificazione minima, magari soltanto uno scambio di sguardi. La slow walk è una pratica che ho imparato attraverso la danza contemporanea. Camminare muove il pensiero, mi rendo conto che queste esperienze sulla tattilità, sull’utilizzo del corpo e sull’immaginazione che ne scaturisce influiscono molto su come dipingo.
V.V.: Durante l’ultimo anno del biennio magistrale in Pittura e Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Bologna, hai trascorso qualche mese in Erasmus a Kassel presso la Kunsthochschule. Come hai vissuto questa esperienza? Quali sono state le principali differenze che hai riscontrato rispetto alle accademie italiane?
M.D.S.: È stata un’esperienza molto positiva perché nella Kunsthochschule ero immersa in un ambiente dove potevo lavorare liberamente e soprattutto condividere vita e pratica artistica con i miei compagni, avendo uno spazio che era di lavoro e di convivialità dove poter stare 24 ore su 24. Ad esempio, spesso restavamo in atelier a cucinare insieme, vederci un film o anche continuare a lavorare fino a notte inoltrata, questa libertà ha permesso uno scambio profondo. Poi in generale è stato positivo il confronto con i professori che sono anche artisti attivi. L’accademia quindi è stata molto più che uno spazio di studio e lezioni.
Ho notato un maggiore riconoscimento e attribuzione di responsabilità verso gli studenti, in generale per quanto riguarda il loro percorso di crescita e formazione e la loro pratica come futuri artisti, al di là della libertà nella scelta dei corsi da seguire o la frequenza alle lezioni.
La struttura dell’accademia a Kassel è proprio diversa, non c’è una suddivisione per “scuole” di pittura, scultura, grafica ecc.: l’ambiente è molto fluido, una volta iscritti a “Bildende Kunst” (Fine Arts) agli studenti viene data la possibilità di seguire il professore di riferimento che vogliono, che poi significa anche la scelta di una “classe” di compagni. Poi possono scegliere laboratori di legno, metallo, ceramica, film, fotografia ecc. per portare avanti i propri progetti. Infatti il focus è più sui progetti, sulla poetica, sul lavoro che si vuole realizzare e meno su singoli corsi da seguire, singoli programmi e consegne da portare a termine.
V.V.: … hai anche avuto la possibilità di frequentare sia l’accademia di Belle arti di Torino (per la laurea triennale in Pittura) che quella di Bologna (per la specialistica, in Pittura e Arti Visive). Quali sono state le tue impressioni sul contesto artistico e accademico delle due città?
M.D.S.: Nella classe in cui ho studiato a Torino, principalmente la pratica degli studenti era più strettamente connessa e focalizzata verso la pittura, anche se intesa non come pittura classica, ma in senso contemporaneo, quindi con una totale libertà di stile, tecniche e materiali. A parte questo però il piano di studi era abbastanza flessibile, anche rispetto a quello che poi ho trovato al biennio. Torino è una città che amo tanto, la mia sensazione è che ci siano molte voci tra musei, fondazioni, gallerie, spazi gestiti da artisti, festival e fiere. C’è una pluralità e una qualità alta di queste mostre.
A Bologna invece nella classe che ho frequentato la “pittura” era intesa in senso ampio e quindi tra i miei compagni c’era chi lavorava con il video, la performance, la fotografia, la scrittura ecc. Anche io ho lavorato più spesso con medium diversi, nonostante la pittura su tela sia rimasta per me la pratica principale. In accademia mi sono trovata inoltre a poter frequentare dei workshop relativi all’arte socialmente impegnata che sono stati importanti per me.
V.V.: Quanto ha influito il tuo percorso accademico, vissuto tra diverse città, nella tua pratica artistica?
M.D.S.: Penso che in qualche modo influisca, anche se non saprei descrivere che cosa ha comportato nello specifico. Noto che quando mi sposto da un luogo all’altro, la mia pratica per qualche tempo si ferma o rallenta, per ricominciare dopo che inizio a integrarmi nel nuovo contesto, e spesso a questo punto ci sono delle trasformazioni. Si instaura un dialogo con il “luogo” inteso come persone, relazioni, territorio e questo in qualche modo mi cambia, rimanendo sempre io stessa. Forse immergendomi in una certa atmosfera e ambiente, oltre a scoprire qualcosa di nuovo che magari inizia a far parte di me, ho anche un diverso punto di vista su quello che ho fatto fino a quel momento.
V.V.: I tuoi ultimi lavori nascono invece da un’interazione con l’ambiente naturale che ti circonda. Utilizzi tecniche di tintura e stampe vegetali servendoti di elementi trovati sul territorio. Com’è nato questo interesse?
M.D.S.: Questi procedimenti sono stati una risposta alla mia necessità di andare e stare nel bosco, passare più tempo vicina alle piante e a contatto con la terra. Così la mia pratica nell’ultimo anno è diventata in gran parte anche raccolta di materiali vegetali e camminata, e l’atelier si è espanso al monte e al territorio che abito. Questa relazione con la terra e con il bosco, una relazione spezzata, interrotta, ma che continuamente ricerchiamo, è una delle questioni che mi sto ponendo. Uno dei lavori che ho portato avanti per tutta l’estate riprende la tecnica del tappeto all’uncinetto che avevo utilizzato con i Latti, e include oltre a stoffe trattate con le tinture naturali, anche materiali vegetali raccolti e semi.
Un secondo aspetto, ma non meno importante, è che le tecniche di tintura vegetale mi coinvolgono in quanto ricerca sul colore. In un certo senso queste tecniche si avvicinano alla pittura, ma una pittura diversa per le azioni che devo compiere, e fatta di colori che riesco a trarre a partire dagli elementi vegetali che trovo intorno a me. Resto incantata nell’osservare i tessuti immersi nell’acqua di tintura. I colori che ottengo si diversificano a causa di minuscoli dettagli nel processo, come differenze nell’acidità dell’acqua o dei materiali in infusione, l’utilizzo di qualche grammo in più di stoffa, o a seconda delle diverse combinazioni di mordenti, o della stagione in cui sto lavorando. Se non sono soddisfatta del primo risultato, ripeto sullo stesso pezzo di stoffa più tinture. Il colore mi entusiasma, mi affascina sin da quando ho iniziato a dipingere: riuscire a recuperarlo a partire dal territorio stesso, dalla terra, costituisce un legame che stavo ricercando da tempo.
V.V.: Hai mostre o lavori in cantiere? Ci puoi anticipare qualcosa?
M.D.S.: Tutto ciò di cui ho appena parlato riguardo alla raccolta di materiali dal territorio rientra anche in un progetto di mostra che ho portato avanti con Laura Guastini ed Angela Grigolato, una mostra che purtroppo al momento è sospesa. Il nostro progetto ha preso forma dall’esplorazione del territorio del Monte Pisano ed è legato a temi riguardanti l’abitare e il raccogliere. Non potendo ora realizzare la mostra, stiamo lavorando a una restituzione delle nostre ricerche che vorremmo proporre attraverso diversi mezzi, a partire da contenuti fruibili online, ma non solo.