CI VEDIAMO, E GRAZIE PER IL PESCE…

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“So long, and thank you for the fish” 2019 detail iron, juta,velvet (installation view Sociètè Interludio, Torino) - Davide Sgambaro - ph. "massimostileph"
“So long, and thank you for the fish” 2019 detail iron, juta,velvet (installation view Sociètè Interludio, Torino)- ph. “massimostileph”

DAVIDE SGAMBARO X FEDERICO PALUMBO

Davide Sgambaro (Cittadella,1989) è un artista che vive e lavora tra Torino e Venezia. La sua attitudine, più che poetica, si muove tra (auto)ironia e precisione, tra battuta di spirito e presa di posizione, tra ideologia e prassi… La seguente chiacchierata esplicita diverse questioni e si muove su più livelli di contenuto. In primis, lo sguardo privilegiato ce l’hanno ovviamente i suoi lavori, sempre tesi – come dicevo – a quelle duplicità tematiche in grado di caricare di tensione la nostra attenzione; in secondo luogo (ma non per importanza) si è cercato di approfondire alcuni aspetti che fan parte della vita dell’artista e che quindi possono risultare utili per meglio comprendere l’intero lavoro. Tra questi, ad esempio, troviamo: provincialismo e realtà cittadina; diritti dei lavoratori dell’arte ed esperienza all’interno degli Art Workers; ultime esposizioni e future – anche utopiche e/o difficilmente realizzabili – idee di mostra. Infine, tra le principali mostre, residenze e riconoscimenti ricordiamo: Paesaggi eterni, mostra personale, Spaziosiena, Siena (2019); L’abbaglio, mostra collettiva, Société Interludio, Torino (2019); Diari tra diari, mostra collettiva, Fondazione Spinola Banna per l’Arte e GAM Torino, Torino (2019); White and black stripes and a red nose (The game, Let’s talk, A movie), mostra personale, Almanac Inn, Torino (2019); Il disegno politico italiano, Galleria A+A, Venezia (2019); Q-Rated, La Quadriennale di Roma, Castello di Rivoli (2018); Una cosa divertente che non farò mai più, mostra personale, Rita Urso Artopia Gallery, Milano (2018); Love me tender, Stonefly Art Prize, Fabbrica del Vapore, Milano (2018); Combat Prize, primo premio sezione scultura e installazione, Museo Giovanni Fattori, Livorno (2017); Premio Francesco Fabbri, menzione speciale della giuria, Fondazione Fabbri, Pieve di Soligo (2016); 100ma collettiva giovani artisti Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia (2016); Le projet de l’étoile, mostra personale La Non-Maison Foundation, Aix- en-Provence (FR), (2016); Atelier Bevilacqua La Masa, residenza e mostra collettiva, Venezia (2015-2016); Fondazione Spinola Banna per l’Arte, residenza a cura di Guido Costa e Gail Cochrane (2015); A Symphony of Hunger Digesting Fluxus in Four Movements, A+A Gallery, Venezia (2015).

Federico Palumbo: La prima volta che ho letto della tua opera So long, and thank you for the fish (2019) mi è subito venuto in mente il film d’avanguardia dell’esponente lettrista Maurice Lemaître, Le film est déjà commencé (1951). In quel caso il fruitore, una volta arrivato in sala cinematografica, si accorgeva che il film era effettivamente già cominciato e non c’era modo di vederlo in maniera ‘canonica’, sedendosi sulle poltroncine, vivendolo dall’inizio alla fine. Nel tuo lavoro credo, invece, ci sia un ulteriore scacco in tal senso, che ben esprime anche la frenesia contemporanea legata all’esserci. Inesorabilmente lo spettatore ha la sensazione di non poter vivere la situazione di festa che i resti in galleria gli ricordano. Questa voglia di partecipare a qualsiasi evento, al di là di quel che realmente esso rappresenti, mi sembra essere un’altra delle tematiche che emerge da questo tuo lavoro.

Davide Sgambaro: So long, and thank you for the fish (2019) riprende infatti la famosa canzoncina cantata dai delfini di Douglas Adams nel romanzo Guida galattica per gli autostoppisti. All’inizio del romanzo i delfini percepiscono che il mondo sta per finire e decidono di prendere il volo verso altri mondi ringraziando gentilmente per il pesce offertogli. La tua analisi è corretta, nei miei lavori si presenta spesso l’omissione del corpo, del gesto performativo, dell’atto creatore che viene sostituito dall’assenza. Nel caso del lavoro che hai citato, essendo una serie di sculture realizzate site specific, le misure seguono esattamente quelle della stanza ospitante. Potenzialmente fungono quindi da veri e propri festoni fruibili ma, per creare la narrazione da te descritta, allestisco questi lavori ammassati tra di loro in modo tale che le bandierine mescolino i loro colori e si annodino aspettando la polvere. Tutti se ne sono già andati, la festa è finita e non siamo stati invitati. Questo lavoro è frutto di suggestioni legate alla ricerca sul macro tema del presenzialismo e sulla politica della sopravvivenza. Al tempo stavo studiando alcune fonti come Pasolini con l’articolo sul Corriere della Sera dal nome La scomparsa delle lucciole del 1975; l’analisi di Georges Didi-Huberman con il suo Come le lucciole. Una politica della sopravvivenza del 2010 assieme alla critica mossa da Hito Steyerl su e-flux nel 2010 dal titolo Politiche dell’arte: l’arte contemporanea e la transizione verso la post-democrazia. (qui la traduzione del testo gentilmente offerta da Kabul Magazine). Tutti riferimenti molto importanti per la mia ricerca che in quel periodo diedero vita al lavoro sopra citato. So long, and thank you for the fish narra quindi di una chiusura verso ogni possibilità intellettuale prediligendo una maggiore vicinanza alle modalità di lettura superficiale. La ricerca dell’iperoggetto, dell’estetica compiacente, della fiabetta figurativa a discapito dell’esigenza descrittiva di uno status precario. L’artista dovrebbe parlare altre lingue ma ora tende a tacere e annuire, non crea più domande ma rappresenta soluzioni obsolete.

F.P.: Un’altra opera che mi ha particolarmente colpito è White and black stripes and a red nose (The Game), (Let’s talk), (A movie) (2019). Nonostante non mi ricordi più bene come si giochi a poker, trovo estremamente interessante il modo di rappresentare e iconizzare il mondo dell’arte. Ce ne parli un po’ più nello specifico?

D.S.: White and black stripes and a red nose (The Game), (Let’s talk), (A movie) (2019) è un lavoro complesso che è nato grazie al public programme di Almanac Inn, Torino. La tematica dominante è sempre quella del bieco presenzialismo e in questo frangente ho provato a giocare con l’effetto opening organizzando una messa in scena satirica della situazione stereotipata del vernissage. Ho invitato cinque artisti pescandoli da alcune parti d’Italia a giocarsi un loro lavoro al tavolo da poker, mentre la curatrice fungeva da croupier. Il discorso è molto semplice, l’artista gioca strategicamente scommettendo un lavoro, mentre il curatore dona le chance facendo le carte. Poteva essere una divertente performance, sì, ma ciò che invece mi interessava era l’evoluzione della situazione in corso d’opera. Il mio vero intervento non voleva essere un siparietto, bensì la totale libertà d’azione che ho lasciato ai protagonisti e al pubblico al fine di capire la piega che avrebbe preso la serata. Per questo motivo ho ripreso tutto il vernissage in modo tale che venisse documentato l’evento. A questa prima parte denominata (The Game) seguì poi (Let’s talk), un talk che portava a confronto un pubblico principalmente composto da artisti con alcuni invitati appartenenti alla sfera curatoriale: Luca Cerizza, Giulia Mengozzi, Lisa Andreani, Giulia Gelmini. Si è discusso in merito alla scomparsa di una critica costruttiva, alla responsabilità del curatore nei confronti dell’artista e a come questo rapporto sia cambiato negli ultimi vent’anni. L’audio è stato registrato a fini di documentazione e montato assieme al video di (The game) ha creato (A Movie), un film di poco più di un paio d’ore nel quale un dibattito costruttivo si sormonta all’evento ludico e ne crea una narrazione confusa e paradossale. Per approfondire alcune tematiche di questo lavoro complesso consiglio un libro uscito recentemente: Teoria del lavoro reputazionale. Saggio sul capitalismo artistico (2020) di Vincenzo Estremo. Credo sia un ottimo approfondimento in merito.

F.P.: D’altronde, ciò che emerge dai tuoi lavori è un forte sentimento ironico e anche, per certi aspetti, un tipo di approccio scanzonato anche quando tratti temi importanti e che hanno un certo peso. Mi piacerebbe approfondire con te le tue modalità di lavoro.

D.S.: È molto importante l’ironia perché sdrammatizza, quando una cosa non ci fa più paura allora si può essere lucidi per tentare di affrontare il problema stesso. Ancora più importante però è l’umiltà e l’autoironia, senza la quale risulteremmo pedanti e sicuramente fuori luogo. Potrei sembrare un artista disordinato e confusionale, invece ho un approccio metodico quasi ossessivo. Ogni progetto ha inizio da suggestioni varie, possono essere immagini o suoni o altro grazie ai quali si accende un’intuizione. Queste sono le cose più semplici. Dall’intuizione nasce la ricerca teorica, chiedersi il perché tutto ciò accade in me e come accade poi all’esterno, che cosa vuol dire per gli altri e il significato che ha per un insieme. Dopo aver risposto a tutte queste domande il concetto prende forma, mentre la scelta del medium arriva in base alle diverse esigenze. Ecco, la mia fortuna è che non mi affeziono a nulla, anzi, mi stanco facilmente delle cose. Tengo un archivio costantemente aggiornato di progetti non realizzati, suggestioni, immagini, ricerche e tutto rimane lì, fermo, ma so che un giorno qualcosa visto in precedenza tornerà utile ed avrò una buona parte di lavoro già pronta.. è sempre successo così, su questo sono tranquillo.

F.P.: Ironia e auto-ironia che però spesso fa emergere anche un lato altamente poetico e profondo. Mi viene in mente I believe in my stuff only at night (2016). Sarà che molti dei miei progetti son nati proprio durante la notte…. In fondo, quest’opera mette a fuoco un tema molto interessante: l’autostima – o la mancanza di essa – con la quale un artista emergente deve costantemente fare i conti.

D.S.: Haha, quel lavoro mi diverte moltissimo. E sì, come dicevo c’è sempre un grosso riferimento autocritico nei miei lavori, se parlo di precariato e di provincialità parlo anche di me quindi tendo anche a fare ironia e sentimentalismo sul mio vissuto, inevitabile. I believe in my stuff only at night è un lavoro semplice, concepito in un periodo di crisi totale durante la quale nella notte venivo assalito da milioni di idee che puntualmente, la mattina dopo, mi facevano schifo e scartavo. Così, nel totale sconforto, in una di quelle notti improduttive alzai gli occhi al cielo imprecando e vidi una manciata di stelle in una strana posizione. Pensai quindi di tradurre la mia sensazione in una costellazione creando così l’installazione luminosa. I puntini non sono altro che i punti d’intersezione di ogni segmento che compone una lettera. Penso che quel lavoro sia il punto di partenza per quell’auto-critica di cui parlavamo sopra, mostrare le proprie debolezze è incredibilmente diventato un atto sovversivo, io lo trovo una presa di posizione poetica. Tu, ad esempio, ti ci sei rivisto, non hai forse provato una sorta di sollievo nello specchiarti in questo sentimento condiviso?

FP: Assolutamente. Spesso durante la notte sono un vulcano di idee, si materializzano mille progetti nella mente che, però, come giustamente sottolinei te, la mattina dopo solitamente già rivelavano la loro natura più cruda: un nulla di fatto. Ma trovo anche io che le nostre debolezze, dettate da mille circostanze interne-esterne, offrano spunti incredibili. Futura nasce proprio durante un periodo di sconforto totale causato dal mondo del (non)lavoro artistico. Durante la pandemia è esplosa la bolla, il livello di saturazione è arrivato al massimo. Ho chiamato Francesca e le ho proposto di realizzare questo progetto. A tal proposito, qual è stata la tua formazione? Hai sempre voluto fare l’artista? Ci sono stati momenti durante la tua vita che ti hanno fatto un po’ pensare “basta, ho chiuso con l’arte”?

DS: Ho studiato allo IUAV di Venezia e per un periodo a ENSBA di Parigi. Parigi era insostenibile e quindi sono tornato in Italia finendo a Torino dove ho lo studio tutt’ora. Fare l’artista non è mai stata una decisione, è successo in maniera naturale anche grazie ad alcuni incoraggiamenti e conferme da parte dei miei mentori. Non credo sia possibile chiudere con l’arte, penso spesso che la vita e le risorse vogliano farmi chiudere, ma poi ricordo che non può essere un ambito dedicato solamente ai beneficiari di certi privilegi e questo mi da la forza e la sana rabbia per continuare. Fortunatamente sono nato e cresciuto con poco, ma ho sempre ricevuto l’essenziale e una buona educazione, questo insieme di situazioni mi ha donato una grande predisposizione alla lotta, credo quindi che si debba pensare di chiudere con l’arte solamente quando non si crede nella propria ricerca e coerenza.

FP: So che collabori con gli Art Workers. Ci parli un po’ di questa esperienza e di ciò che ti ha mosso nel far parte di questo movimento?

DS: Ho iniziato a collaborare in fase embrionale, eravamo ancora pochissimi e condividevamo però la precarietà e il caos del momento storico di piena pandemia. Proprio i sentimenti scaturiti da questa bolla e i condivisibili ideali e presupposti hanno fatto unire finalmente i lavoratori e le lavoratrici dell’arte contemporanea. Una cosa simile, ma in un contesto differente, era già successa precedentemente a New York alla fine degli anni ’60 con Art Workers Coalition, Women Artists in Revolution e Guerrilla Art Action Group con illustri nomi in prima fila. Con il passare degli anni è nato poi W.A.G.E. che regola alcuni aspetti fiscali dei diritti degli artisti, come ad esempio il calcolo delle fee in base alla tipologia di mostra e molte altre questioni spinose.. Art Workers Italia vuole essere un movimento di studio con il fine di formulare proposte concrete che possano migliorare le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori dell’arte contemporanea. Non è quindi un progetto artistico. Mi è capitato di sentire diversi dubbi su questi intenti o sull’entità del programma, dubbi più o meno intelligenti, ma sicuramente c’è un forte sostegno non solo da parte dei singoli, ma anche da parte di molte istituzioni. È necessario regolamentare alcuni aspetti del nostro lavoro se non vogliamo aumentare il divario classista che già ci accompagna da tempo e che crea emarginazione e disuguaglianza. C’è inoltre da ricordare che non ha senso alzare muri verso le volontarie che lavorano per AWI, perché di ogni risultato ne beneficeranno tutti. In conclusione nulla mi ha convinto a farne parte, credo sia semplicemente buon senso.

FP: Quanto ti ha segnato il passaggio dalla provincia ai ritmi di una grande città? Ti ha cambiato a livello professionale e umano? E, soprattutto, se dovessi fare un bilancio, che tipo di artista ti senti all’interno del circuito artistico?

DS: Mentirei se dicessi che non avrei fatto nulla se non mi fossi trasferito altrove. La mia forza è stata il fare di questo passaggio (da provincia a città) un argomento e un punto di vista che diventa poi chiave di lettura del mio stesso lavoro. Sono nato e cresciuto in provincia, appunto, in luoghi particolarmente colmi di incoerenze sociali. Il tentativo di riscattarsi è forte e se non ci fosse stato già in fase adolescenziale non immagino dove potrei essere ora e in che condizioni. Non saprei dirti che tipo di artista mi sento, essere artisti implica avere un ruolo altalenante tra mille sbalzi d’umore causati da altrettante variabili che modificano la tua immagine e a tratti la tua realtà. Sicuramente il fatto di venire da fuori e sentirsi quindi inadatto ha maturato in me una forte coscienza del mio lavoro grazie alla quale riesco a sopravvivere nonostante le gigantesche difficoltà economiche. È una vita fatta di rinunce, è bene specificarlo, e certi periodi sono bui, ma dall’altra parte ci sono poche persone, molto rare, che ti valorizzano come individuo e come artista e questa credo sia una sensazione impagabile.

FP: So che hai partecipato a Bagni d’Aria, un progetto ideato e curato da Caterina Molteni, Alice Visentin e Mattia Paje. Ci racconti più nello specifico quest’esperienza?

DS: Bagni d’Aria è un’esperienza di residenza magnifica. Difficile da raccontare l’alchimia che si crea in quei giorni, personalmente ne sono uscito ricaricato di buone energie. Aiuta molto anche il luogo magico nel quale è ambientato il progetto, Frassinetto, una piccola cittadina di montagna accogliente e tranquilla. Credo che il format che han creato sia una ventata d’aria fresca rispetto al solito tran tran cittadino. Per quanto riguarda lo svolgimento non è per niente una residenza-vacanza, anzi, ci sono ritmi serrati e attività proposte dai partecipanti che molte volte sfidano la resistenza fisica e mentale, ma tutto si svolge insieme, condividendo pensieri e azioni e si crea un’intesa indescrivibile sin da subito, anche tra persone che magari si conoscevano a malapena. Un progetto, quindi, per niente legato alle dinamiche di sistema che vuole ritrovare l’importanza del dialogo e della fiducia verso terzi, per questo motivo auguro davvero lunga vita a questa iniziativa, riavvicina le persone alle cose semplici, ne abbiamo tutti molto bisogno. In quel frangente proposi un gioco da me ideato e ispirato da alcune fonti come Pasolini con l’articolo sul Corriere della Sera La scomparsa delle lucciole del 1975 e l’analisi di Georges Didi-Huberman con il suo Come le lucciole. Una politica della sopravvivenza del 2010. Il gioco era un rivisitazione del classico nascondino, un gioco di ruolo, notturno, nel quale si vedono in campo le lucciole contro i riflettori. Una metafora contemporanea del ruolo dell’individuo nella défaillance esistenziale legata al buio o all’eccesso di illuminazione. Il gioco voleva quindi essere una riflessione sulla questione dell’iper-esposizione e, al contrario, dell’annullamento di se stessi, di riflettori e di buio, di ira e accidia. Questi sentimenti, facilmente riconoscibili nelle nostre esperienze personali, venivano tradotti in ruoli. L’obiettivo delle lucciole è quello di non farsi trovare dai riflettori e di arrivare tutte alla base sane e salve. Se i riflettori trovano le lucciole e le toccano, queste diventano buio e possono essere riattivate solamente da altre lucciole attive. Abbiamo giocato due partite nel centro cittadino di Frassinetto ed è stato come se fossimo stati trasportati in una dimensione altra, soprattutto c’era sempre la volontà di aiutare i propri compagni e un sano agonismo che ha creato azioni che resteranno impresse nei ricordi.. Sto capendo se approfondire questo gioco e renderlo qualcosa di più..

FP: Per quanto riguarda il futuro, che progetti hai in mente? Puoi svelarci qualcosa a riguardo?

DS: Ora come ora sono abbastanza scaramantico quindi non mi dilungherò molto riguardo al futuro. Posso anticipare che ci sono alcune ricerche in corso, che alcuni progetti stanno trovando casa, ospitalità o almeno dialogo anche all’estero. L’interesse da parte di istituzioni e privati c’è ed è costante (e questo mi aiuta a proseguire), purtroppo però non sempre ci sono i fondi per realizzare tutto quello che vorremmo realizzare e io devo fare altri lavori saltuari per poter sopravvivere, ovviamente. Quindi si va sempre molto a rilento. Sto lavorando a un grosso progetto che spero uscirà nel 2021/2022 anche in Italia e spero possa essere un punto di svolta. Nell’immediato sto lavorando per una personale a Londra, ma ancora, di questi tempi, nulla è certo.

FP: Per concludere: hai idee irrealizzate o (apparentemente) irrealizzabili e utopiche? Tipo, a me piacerebbe curare una mostra in cielo, in qualche modo. O progettare un’esposizione dove sono presenti tutti gli artisti che amo maggiormente, senza un vero e proprio filo conduttore tematico. In quel caso, il luogo non saprei ancora quale sarebbe… forse il soggiorno di casa mia.

DS: Ho un progetto difficilmente realizzabile, ma che sto ideando con formato e contenitore differenti. È la naturale conseguenza del progetto A chi vuol provare a fare cose, anche se male installazione site specific realizzata a Spaziosiena (2019), con la quale analizzavo il passaggio da provincia a centro, una linea di demarcazione attraverso strumenti finalizzati ad un rito folcloristico. I push a fingers into my eyes è un lavoro che non voglio spoilerare formalmente, ma si tratta di un’esplosione. Un lavoro sull’inadeguatezza, quando hai la sensazione di esserti perso qualcosa e di non poter recuperare perché estraneo ai fatti, di dover rincorrere o rivedere i tuoi passi. Attraverso il dispetto e quindi l’omissione del gesto ribalto questa sensazione in uno scambio con il fruitore che inevitabilmente prende il mio posto nella realtà della finzione. Da qui il dito nell’occhio, un abbaglio di luce improvviso. Sì, mi diverto molto a pensare ai miei lavori, sono vere e proprie relazioni tra me e la realtà, le persone, gli avvenimenti.

I push my fingers into my eyes, It’s the only thing that slowly stops the ache But it’s made of all the things I’ve to take 

Slipknot – Duality

“You have to bury me twice”, 2018, white cold neon, 100x25cm, - Davide Sgambaro -"ph. Natalia Trejbalova"
“You have to bury me twice”, 2018, white cold neon, 100x25cm, “ph. Natalia Trejbalova”
“A chi vuol provare a fare cose, anche se male (pat, pum, pam)”, 2019, 3 elements, variable dimensions, iron, marble, brass intallation - Davide Sgambaro - ph. Andrea Lensini Siena
“A chi vuol provare a fare cose, anche se male (pat, pum, pam)”, 2019, 3 elements, variable dimensions, iron, marble, brass intallation – ph. Andrea Lensini Siena
“A chi vuol provare a fare cose, anche se male (horizontal 2)” 2019 180x120x7cm iron, plastic powder intallation - Davide Sgambaro - ph. Andrea Lensini Siena
“A chi vuol provare a fare cose, anche se male (horizontal 2)” 2019 180x120x7cm iron, plastic powder intallation – ph. Andrea Lensini Siena
“White and black stripes and a red nose (The game)”, 2019, table, various objects, variable dimensions - Davide Sgambaro - courtesy of the artist
“White and black stripes and a red nose (The game)”, 2019, table, various objects, variable dimensions – courtesy of the artist
“White and black stripes and a red nose (The game)”, 2019, table, various objects, variable dimensions - Davide Sgambaro - courtesy of the artist
“White and black stripes and a red nose (The game)”, 2019, table, various objects, variable dimensions – courtesy of the artist
“So long, and thank you for the fish” 2019 detail iron, juta,velvet - Davide Sgambaro - ph. "massimostileph"
“So long, and thank you for the fish” 2019 detail iron, juta,velvet – ph. “massimostileph”

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