LA LUNA, LA NOTTE, LA PITTURA

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RACHELE FRISON X FEDERICO PALUMBO

Rachele Frison è un’artista molto giovane, che frequenta l’ultimo anno di Accademia (a Brera, Milano). Il lavoro, visto da remoto e consigliato da diversi artisti e amici, ha subito attirato la mia attenzione. Parlando con lei mi son reso conto di alcune cose: in primis, che nonostante l’età è già presente una forma mentis non indifferente. In secondo luogo, che è un artista in piena crescita, sia espressiva che concettuale. L’essere consapevoli del proprio ruolo e di quanto si debba ancora maturare ha reso il tutto molto più poetico. Ho colto allora l’occasione per farle alcune domande per poter entrare maggiormente all’interno del suo mondo. Inutile dirlo che, ora, non so quando ne uscirò.


Rachele Frison, Fuga – courtesy of the artist

Federico Palumbo: La notte e la luna. Vorrei partire da qui. Che ruolo hanno all’interno del tuo lavoro?

Rachele Frison: All’interno dei miei lavori ho sempre sentito l’esigenza di creare ambientazioni evocative, principalmente che potessero rimandare a luoghi fiabeschi, sognanti e intimi. Il ruolo dei notturni, e con essi le simbologie o le forme naturali come la luna, è quello di creare situazioni di intimità e familiarità che si sposano con quelle forme, colme di racconti o di situazioni non sempre immediate. La notte crea spesso mistero, tutto ciò che vi accade all’interno si presenta sempre in modo ambiguo. In modo inconscio l’uomo ha sempre temuto la notte, perché priva di chiarezza e perché al suo interno ogni percezione può essere ingannevole: le forme e gli oggetti immersi nella penombra si mostrano spesso totalmente differenti rispetto a come li percepiamo tramite la chiarezza diurna. Per questo, a livello simbolico, la si associa all’inconscio. La notte ha sempre avuto un ruolo decisivo all’interno della mia produzione: oltre ai rimandi appena citati, anche per via della narrazione riguardante Le mille e una notte, raccolta di narrazioni legate alla tradizione Persiana, che mi ha sempre affascinata. Questo sia per i racconti in sé che per il metodo attraverso il quale sono stati accumulati: una serie di storie autonome che messe insieme sembrano far parte di un unica grande narrazione.

Rachele Frison, Le mille e una notte – courtesy l’artista
Rachele Frison, Le mille e una notte – courtesy l’artista
Rachele Frison, Le mille e una notte – courtesy l’artista

F.P.: Il buio, e di conseguenza l’atmosfera notturna, e il freddo che ne deriva nonostante brevi sprazzi di luce, vengono interrotti da particolari rosso fuoco. O ancora da dei gialli solari o da taluni verdastri. Il mood generale è quello di intermezzo temporale, melanconico e altro, ma allo stesso tempo quotidiano e familiare. È una lettura corretta? Vorrei approfondire il tema con te.

R.F.: Sì, l’idea dell’intermezzo temporale mi sembra appropriata per la descrizione delle ambientazioni. Ho sempre trovato conforto da spettatrice della natura e delle opere d’arte, nel trovarmi in situazioni e ambientazioni che si presentano in maniera “sospesa’’. Il senso di sospensione mi aiuta a collocare i miei lavori fuori da un tempo preciso e localizzabile, ed è perciò importante per me evocare racconti antichi o talmente lontani cronologicamente da me per non delineare al loro interno un periodo o un “tempo’’ preciso. Sicuramente il mio sguardo si dirige verso un passato remoto, tanto da cercare un’origine del racconto, o un’origine delle cose, delle forme e delle narrazioni.

F.P.: L’elemento narrativo, in effetti, e il ricorso alla mitologia (in senso lato) mi sembra siano radicati all’interno delle tue opere. Come le scegli? E che ruolo pensi possano avere nel discorso pittorico e con il contemporaneo?

R.F.: L’elemento narrativo è la chiave dei miei lavori. Sono sempre stata affascinata dalle figure dei vari cantastorie, sia in ambito musicale che artistico. Inoltre, sono una grande lettrice di fiabe e di racconti di ogni tipologia; fin da ragazzina mi sono interessata a tali tematiche perché sono quelle che sopravvivono nel/al tempo, proprio grazie alla loro diffusione mediante il racconto. Spesso si trovano storie simili in luoghi che in apparenza non hanno avuto comunicazioni o legami; trovo interessante il fatto che esistano dei racconti che germogliano in luoghi differenti e che hanno le stesse caratteristiche e spesso gli stessi elementi. Quello che spesso faccio è attingere alle forme più comuni e ripetute nelle narrazioni riproponendole all’interno delle mie narrazioni, per renderle immediate, riconoscibili e semplici.
Negli ultimi anni molti artisti, al posto di proiettarsi verso il futuro, hanno spostato i loro interessi nelle forme e nei racconti legati al passato. In realtà, come già sappiamo, anche l’arte del passato spesso guardava a intermittenza a periodi precedenti, anche solo per estrarne i contorni delle forme e delle figure, per poi riproporli in chiave a loro contemporanea. Lo trovo un metodo efficace se utilizzato con astuzia e consapevolezza, e a me comunque familiare.
All’interno quindi di un discorso pittorico l’utilizzo della narrazione non è sicuramente cosa nuova o innovativa. Basti pensare all’uso e all’analisi della mitologia, della religione, delle storie folkloristiche, ad esempio. Per quanto riguarda il contemporaneo trovo che si è ripresentata una richiesta di immagini, apertamente dichiarata, probabilmente in parte anche grazie all’avvento dei social, che forniscono continuamente una grande moltitudine di immagini da consumare.
Penso che quindi molti artisti hanno risposto alle necessità di questo tempo con il ritorno all’immagine e alla narrazione, e il raccontare mediante la “riscoperta” della mitologia o delle storie del passato rappresenta una delle tanti soluzioni al ritorno alla figurazione.

Rachele Frison, L’anello di Carlo Magno – courtesy l’artista
Rachele Frison, Il primo compleanno del Barone – courtesy l’artista


F.P.: Mi sembra di leggere un forte senso materico e un controllo della pennellata che però non frena la tua libertà espressiva, che spesso coincide con un approccio quasi fanciullesco all’intera scena. Che importanza riconosci al gesto e come si struttura all’interno della tua ricerca?
R.F.: Il senso materico ‘calcolato’ in ambito pittorico è una cosa ancora in via di sviluppo nel mio caso. Sicuramente già a partire dal disegno, il gesto, il controllo e l’ordine dei segni stessi sono una delle parti fondamentali, capaci di rubare la scena alla narrazione rappresentata.
In ambito pittorico si mostra una fusione più armoniosa tra gesto e narrazione. Apprezzo però molto i lavori fortemente materici nei quali la pennellata è grossa e decisiva. Fra tutti, penso a esempio a Philip Guston, George Condo e Dana Shutz.
F.P.: Hai anticipato la domanda che ti avrei adesso posto. Ovvero che il disegno mi sembrava potesse essere una costante all’interno della ricerca e pratica tua generale.
R.F.: Esattamente. Come ti accennavo prima il disegno è il punto di partenza da cui parte tutto il lavoro. Ho iniziato a dipingere ad olio da un paio di anni dopo aver passato la mia vita a disegnare. Anche in Accademia per tutti i primi anni non ho fatto altro che presentare disegni. Ho sempre riconosciuto un valore autonomo al disegno rispetto a quello pittorico: nel disegno c’è molta verità, è come se si trattasse di un primo linguaggio, nel quale sono evidenti i dubbi e le sicurezze proprio perché ha in sé l’immediatezza che invece spesso nell’atto pittorico va a perdersi. Mediante il disegno ho accumulato idee che negli anni poi si sono sviluppate e approfondite anche nelle tele. Li considero comunque produzioni separate e autonome fra loro.
F.P.: Quali sono gli artisti di riferimento a cui guardi più spesso? Chi studi con particolare attenzione? Osvaldo Licini è il primo artista che mi è venuto in mente, probabilmente per alcune tematiche e atmosfere che ritornano anche nel tuo lavoro (il racconto e la fiaba popolare; la luna; la notte). Subito dopo Sandro Chia, forse per le stesse motivazioni.
R.F.: In realtà ho uno sguardo molto aperto e curioso, che mi porta a guardare quasi tutto. Gli artisti che mi affascinano non risentono di alcuna gerarchia temporale.
Gli artisti a cui forse sono più legata, soprattutto per il disegno, sono: Peter Doig, per le sue ambientazioni e le figure immerse in esse; Hernan Bas, per gli uomini gracili e delicati; Kiki Smith per le sue linee sottili; Richter, per i suoi colori fantastici.
Sto apprezzando molto le ambientazioni notturne e sospese di Franz Von Stuck, con i suoi blu sporchi, e mi affascina parecchio anche il senso di angoscia e di mistero dato dai disegni di Alberto Martini e le sue figure in ‘’controluce’’. Ancora, amo i paesaggi di Salvo e le narrazioni di Chia.
Inoltre – come ti accennavo prima – sono molto attratta da Philip Guston, del quale ho sempre amato la capacità di creare luoghi, ambienti e personaggi dalle caratteristiche “reali e quotidiane” ma, allo stesso tempo, parte di racconti e luoghi totalmente personali, capaci di muoversi all’interno di un mondo a parte, che seguono regole proprie (come i personaggi di Kafka ai quali fa riferimento).

Oltre ad artisti ‘classici’, che possono essere Piero della Francesca, El Greco o Botticelli, ‘attingo’ anche da molti scrittori che hanno saputo creare dei mondi totalmente personali e paralleli: da Roberto Calasso a Italo Calvino, fino ad arrivare a Shakespeare.

Rachele Frison, Caduta dei denti – courtesy of the artist
Rachele Frison, I serpenti muoiono sempre – courtesy of the artist

F.P.: So che stai frequentando ancora l’Accademia. Il tema dell’artista, ancora studente, che però cerca di sviluppare una proprio indipendenza autonoma e una ricerca abbastanza solida, è fondamentale. Che consapevolezza hai (o hai raggiunto) in questi anni? E in quale fase ti rivedi attualmente?

R.F.: Sì, mi trovo all’ultimo anno di Accademia, a Brera. Sicuramente, come in molti casi accade, sia per l’età che per l’inesperienza, durante le fasi iniziali si ha sempre la necessità di un confronto costante con il maestro che si sceglie di frequentare. Questo serve sicuramente come base per costruire un proprio atteggiamento critico, prima di tutto vero il proprio lavoro. Nel corso degli anni ovviamente ci si stacca e si diventa più complessi come individui e i lavori spesso ti seguono in questa maturazione; sono come un tuo prolungamento: cresci tu e migliorano loro, diventando più consapevoli. Trovandomi alla fine di questo percorso posso sicuramente dire di aver acquisito gli strumenti necessari che mi permettono di avere un atteggiamento critico nei confronti del mio lavoro, e quindi di aver meno bisogno (rispetto al periodo iniziale) di figure esterne che mi indirizzino verso una via precisa. Personalmente ho avuto anche la fortuna di frequentare docenti che lavorano nel mondo dell’arte da molto tempo, e quindi mi hanno dato gli strumenti per comprendere ciò che si trova al di fuori dalle mura familiari dell’Accademia.

F.P.: A tal proposito, hai progetti in cantiere che puoi svelarci? O qualche nuova serie di lavori da mostrare?

R.F.: Sto lavorando a diverse serie di lavori che però sento non siano ancora pronte per essere mostrate del tutto. Ogni lavoro contiene però degli “indizi’’ che in qualche modo “anticipano” alcuni contenuti in quelli successivi. Questo perché si tratta di produzioni in continua evoluzione. A livello formale sto unendo sempre di più il tratteggio del disegno all’interno dei quadri, e sto iniziando a pensarli in relazione a degli spazi specifici. Sto anche valutando idee di sculture e la produzione di tele con forme precise e collegate agli oggetti di scena dei miei quadri. Per quanto riguarda i progetti in cantiere ho in calendario una mostra personale da Five Gallery, in Svizzera a Lugano, inaugurata ieri 12 maggio (fino al 15 luglio), e curata da Andrea Del Guercio. F.P.: Ultima domanda (utopica): se avessi budget, spazi e libertà totale, che cosa andresti a realizzare?

R.F.: È una domanda molto interessante e che spesso mi è capitato di pormi. Sicuramente lavorerei in maniera ‘infestante’: l’estetica dei classici white cube è sempre meno personale e mi piacerebbe poter lavorare su tutto lo spazio espositivo. Giocherei sull’ampliare e l’intensificare sia la narrazione che l’esperienza di chi ne fruisce. Darei modo di addentrarsi all’interno di un intero mondo.

Rachele Frison, Tra me e me che differenza – courtesy of the artist