GIULIO ALVIGINI X FEDERICO PALUMBO
Parte delle risposte che leggerete all’interno di questa intervista-chiacchierata fatta con Giulio Alvigini acquisterà maggiore senso grazie a questa premessa. Alvigini mi racconta che sta scrivendo il suo primo libro. Un qualcosa che, a quanto pare, era già nell’aria. Si tratta del (primo) Manuale per battute da opening. In questi ultimi anni ha sempre millantato una presunta e imminente pubblicazione. Ma si trattava in realtà di un falso, di un gioco intenzionale atto al voler far parlare di sé. Un elettrico tira e molla di notizie insomma. Tra novembre e dicembre dello scorso anno arriva però una proposta da parte di un’importante casa editrice. Prendendo subito la palla al balzo, Alvigini decide di iniziare freneticamente la stesura di questo particolare testo, da intendere a tutti gli effetti come un vero e proprio libro d’artista che, però, allo stesso tempo, si finge Manuale per giovani artisti italiani semplici. Un po’ anche per rilanciare (o perculare) il più celebre Manuale per giovani artisti di Damien Hirst che Postmedia Books pubblicò nel 2004. Ne uscirà dunque fuori una versione italianizzata frutto di uno stile tutto particolare, capace di affrontare temi come la simulazione e i rituali ‘iniziatici’ che formano il sistema, in maniera del tutto inedita e accattivante. Libro d’artista che però finge di essere un manualetto e dunque una sorta di guida che diffonde consigli su come muoversi all’interno del mondo dell’arte, non risparmiando nel descrivere quella che Alvigini stesso definisce la Commedia dell’Arte Italiana. Una vera e propria Giungla, con tanto di sottobosco annesso, composto da: contributor, piccoli ‘curatorucci’, gallerine sottopagate, e altri esseri mitologici-fantastici, che alimentano – o, meglio, infestano – questo strano mondo. Un mondo composto anche da luoghi che qui cambiano (o rivelano) la loro vera connotazione. Come ad esempio gli spazi non profit, che ora diventano non non-profit, o approfit, facendo leva su questa condizione dell’approfittarsene; ovviamente, letta in maniera positiva: approfittiamo dell’occasione, insomma!
Questo andava detto. La pubblicazione di un libro d’artista/di barzellette che dà la possibilità di raccontare il sistema artistico contemporaneo visto dagli occhi e sentito sulla pelle dell’artista emergente. Ciò che leggerete, dunque, ben riassumerà in parte ciò che sarà presente in questo libro prossimo alla pubblicazione. Un’anteprima abusiva che noi di Futura siamo orgogliosi di presentare.
Federico Palumbo: Sei stato uno dei primi a porre in evidenza – con il tuo consueto sarcasmo, cinismo e sberleffo – il (non)ruolo del giovane artista italiano nell’epoca contemporanea. Chi è questo giovane e che cosa dovrebbe fare per emergere all’interno del sistema artistico?
Giulio Alvigini: A questa domanda rispondo in un capitolo specifico del libro che si intitola Come ottenere un rapido e immeritato successo in arte, parodiando il celebre testo di Tom Wolfe, Come ottenere il successo in arte. Il giovane artista deve capire le logiche che stanno alla base di tutti quei mutamenti, modificazioni ed evoluzioni culturali e linguistiche che influenzano i processi selettivi dell’ambiente artistico. Capire quali sono i meccanismi che regolano ciò che verrà, digerirli, farli propri e, se possibile, cercare di anticiparli. E soprattutto proporsi come interprete adatto e funzionale di questi cambiamenti. Fatto questo, il successo di un artista si misurerà nella capacità di movimentare attorno al suo percorso il maggior numero di (veri) addetti ai lavori. Veri perché, come sappiamo, non basta più definire il sistema dell’arte come contenitore, insieme di ruoli e istituzioni, ma va inteso come una vera e propria cornice sociale, caratterizzata da convenzioni, rituali, comportamenti, conformismi e soprattutto – cosa peggiore! – da un certo tipo di elitarismo che si auto-riproduce. L’esclusivismo dell’arte di tipo peggiore è proprio questo, perché ne rappresenta anche il migliore antidoto dagli attacchi esterni e una garanzia di sopravvivenza. Il giovane artista deve avere ben chiaro che ciò che fa conta meno delle persone che conosce. Ecco perché preferisco soffermarmi su tutto quello che tendenzialmente è ritenuto secondario, che appartiene più alle dinamiche e alle logiche di sistema. Ovvero tutto ciò che mi piace inscrivere sotto l’etichetta di Terziario avanzato del mondo dell’arte.
FP: Credi che i meccanismi che governano il sistema dell’arte e le tappe ritenute obbligatorie per la formazione e l’affermazione di un artista emergente siano ormai obsoleti e dunque superati e/o superabili? Se sì, che tipo di formazione e auto-legittimazione dovrebbe invece avere?
GA: La mia formazione si snoda su due città: Genova e Torino. In Accademia ho avuto quel tipo di background di cui parlavo poco fa, legato maggiormente alle dinamiche e alle logiche di sistema piuttosto che alla storia dell’arte in sé, pura. Invece di commuovermi davanti agli occhi vacui di Marina Abramović guardando The Artist Is Present, io ammiravo le sfaccettature più strutturali del sistema e del mercato dell’arte. Capii subito una cosa: le Accademie e i luoghi di formazione sono sì importanti, ma non decisivi per definire una futura carriera artistica. Lo sappiamo bene tutti e due, tolti alcuni casi illuminanti e lodevolissimi che però si contano sulle dita di una mano in ogni Accademia, il resto dei professori che uno studente incontra nella sua vita sono più simili a delle sette di professionisti frustrati da un passato soggiogato da insoddisfazione e rancore, che formano artisti soggetti alla categorica democratizzazione dell’arte, all’ingiustizia e a qualunque altro slogan che si potrebbe riassumere in un: ‘il sistema è cattivo, l’arte è buona’. Quindi, l’auto-didattica credo sia fondamentale e sacrosanta. Capire che i luoghi di formazione sono realtà dalle quali svincolarsi, da rinnegare (favorevolmente e con un certo grado di maturità). Io sono effettivamente fuggito da certe atmosfere che non rispondevano più a determinate urgenze. Legate anche a una certa pulizia e a un certo virtuosismo del display. E, probabilmente, questo è anche uno dei difetti e delle problematicità che il mio lavoro mette in gioco. In primis, quella di una formazione indipendente meno curata e anche, sotto certi aspetti, più brutale. Che però permette anche di essere maggiormente incisivo, soprattutto rispetto ad artisti che escono dalle Accademie sotto forma di epigoni a stampo del professore ‘preferito’. Anche l’auto-legittimazione è sicuramente uno degli elementi che, nei miei primi anni, precedentemente alla pagina [Make Italian Art Great Again, n.d.r.] mi ha spinto a non sottostare a delle tappe fisse e obbligate, a crearmi una mia narrazione senza chiedere il permesso a nessuno. Errore invece tipico del giovane artista. E questa auto-legittimazione la si può leggere in opere come Ilaria Bonacossa 6 la mia vita (2017). Lì c’era l’idea: ‘sistema, vieni a me!’, ‘Ilaria, fatti usare un attimo che voglio far parlare di me’. Nell’epoca del diktat, stanco e logorante, del successo rapido e immediato (oltre che, molto spesso, immeritato), dell’istituzionalizzazione a presa rapida, del subito consumato, ho preferito sovraesporre mediaticamente il mio lavoro, consapevole di non meritarmelo. Questo falso innamoramento è funzionale: sono talmente immerso nelle isterie e nelle contraddizioni tipiche dell’artworld che ne visualizzo una bellezza collaterale. Anche negli elementi più tossici ed esasperanti. Una servitù volontaria. E questo significa anche posizionarmi sopra le righe, poiché per giudicare il mio lavoro non puoi più servirti dei registri utilizzati per gli altri artisti. Non ti basta più vedere un mio lavoro o una mia mostra, ma hai bisogno di leggermi, parlarmi, contestualizzare.
FP: Questa auto-legittimazione, questo non chiedere il permesso è poi il mood adottato da noi di Futura. Ad ogni modo, continuiamo a parlare del tuo ruolo di artista. Quasi automaticamente, se si pensa alla tua produzione, si finisce a parlare di Make Italian Art Great Again e della tua ‘professione’ di comunicatore. Pensi si corra il rischio di inserirti in uno scomparto predefinito lasciando così in sospeso il tuo lavoro d’artista?
GA: Il libro dovrebbe risolvere un po’ questo problema. Ed è vero che il non sapere dove piazzarmi è un’arma a doppio taglio. Però, attraverso la pubblicazione, ho la possibilità di espletare cose che, giustamente, con la pagina non faccio e che non sono tenuto a fare. Si tratterebbe, al contrario, di svelare la magia e togliere l’illusione da qualcosa che regge bene osservata così com’è. Molte delle persone che seguono la pagina pensano ci sia dietro addirittura un collettivo. Appena scoprono che la gestisco io l’imbuto comincia a stringersi. E man mano, vedi che questa persona che fa battute, in realtà, deve essere inserito all’interno di un discorso più complesso. Un discorso che si basa sull’esplorazione della figura del giullare di corte, del comico dell’arte, della critica simulata, quella istituzionale, della simulazione della carriera, etc. Insomma, un gioco di scatole cinesi. E se a te non interessa capirlo e andare a fondo, a me non interessa spiegartelo. Uno dei malintesi è quello della comunicazione. Da me stesso alimentato perché mi è apparso curioso e affascinante. Nel momento in cui scatta una catena di Sant’Antonio che diventa difficile interrompere e inizi ad essere letto come esperto di comunicazione, ne approfitti anche tu per assumere pose in cui metti in discussione la figura dell’artista stesso. Anche perché oggi utilizziamo la parola ‘artista’ con un po’ di sufficienza e influenzata da alcuni maledettismi stantii e vecchi. Non più il maledettismo della ‘tagliata d’orecchio ottocentesca’, ma quello che vede l’artista come imprenditore di se stesso. Ecco, quest’ultima è ormai diventata una tendenza altrettanto logora. Per me il rincorrere e lo scimmiottare, il debordare in altre figure come il ‘social media manager’ ha contribuito ad alimentare questo malinteso legato alla comunicazione. Iniziando dalla mia partecipazione a Bocs Art, fino ad arrivare ad Autostrada Biennale, curate da Giacinto Di Pietrantonio. In particolare, durante quest’ultima, mi sono trovato di fronte alla problematica di confrontarmi con artisti che si studiano sui manuali. Cosa puoi fare allora? Giochi con un’operina, con un oggettino, una bandieruccia? ‘Contro’ delle opere incredibili come quelle di Francesco Vezzoli, solo per citarne uno, come fai a confrontarti? Dai! E allora ho optato per realizzare un non-lavoro. Sono voluto entrare nello staff, mi è stato fatto un contratto e sono stato retribuito in questa maniera, risolvendo così anche il problema della vendita del giovane artista. L’obiettivo era di raggiungere con la pagina Instagram 2000 followers, partendo da 800. Ed effettivamente così è andata. Il problema di non essere facilmente incasellato è l’arma a doppio taglio che presenta questa seduzione. La sfida del doversi reinventare costantemente non dimostra un’intuizione così originale, ma è decisamente un obbligo figlio della nostra società ‘dell’ansia’. È anche la missione di un lavoro che tenta sempre di fuggire e di ritornare su se stesso. L’accettazione di un costante ritorno autoreferenziale, che però si fa sempre nuovo, che ha sempre sfumature inedite frutto di questo avvitamento continuo. Mettere perennemente in dubbio quel che è stato detto un momento prima.
FP: D’altronde, potrebbe esserci lo stesso rischio che i net artists hanno corso: relegare il tuo lavoro più che sui contenuti sui canali, nel tuo caso Instagram. Pensi che i social siano un momento passeggero e un medium come un altro che tu utilizzi e che, ad un certo punto, potranno essere sostituiti con qualcos’altro?
GA: Giustamente citi la net art, nella quale il mezzo utilizzato diventa spesso argomento. Anche perché è talmente forte l’invadenza, l’incisività dell’utilizzo di quel medium, che influenza inevitabilmente lo stesso contenuto del lavoro. Ecco perché è importante avere sempre presente che il meme e i social sono linguaggi, qualcosa che deve essere piegato a delle altre esigenze. Hai citato Instagram: un artista che usa i social deve avere doppiamente contezza di quello che sta facendo, perché non è solo questione di utilizzare una piattaforma, il web così com’è, una rete dove è possibile una libera produzione. Ma è usufruire di qualcosa che appartiene a qualcun altro. Tu in realtà sei in affitto nel momento in cui utilizzi Instagram, Facebook, Tik Tok, etc. Per me la conferenza in un luogo istituzionale ha un’essenza performativa nel momento in cui cominci a liquidare la maschera di esperto di comunicazione o del sistema dell’arte, ma vedi qualcuno che sta fingendo di sapere. Soprattutto nell’era dell’opinionismo diffuso, nell’era de “l’importante è parlare”. Non sapere ma parlare. Nell’epoca della laurea in tuttologia presa all’università della strada. Fa parte di un so-non so che si auto-giustifica, perché io in questo momento sto fingendo a me stesso, me la sto raccontando, sto dichiarando qualche cosa che si auto-contraddice. È fantastico. Il rischio ovviamente c’è. Ma è un rischio che corre solo chi è interessato a vedere e a scavare, a finire in quell’imbuto materializzato poco fa. E chi non è interessato a farlo non rientra nei miei problemi. Poiché in quel caso non può avvenire quello scambio, la positività dell’incontro, del dono. Il farti ridere è uno stratagemma, è un trucchetto, non è quello il vero obbiettivo.
FP: Ti voglio raccontare di un episodio che si muove sul confine tra l’esilarante e l’emblematico. Durante uno dei miei ultimi esami a Brera, un mio compagno, parlando dei giovani artisti più interessanti che utilizzano come medium anche i social, ha citato il tuo lavoro. Il professore (tra l’altro, non un matusalemme ma uno dei migliori che abbia mai avuto in tutta la mia carriera accademica), non conoscendoti, è corso sulle tue pagine social per capire un po’ meglio quello di cui si stava discutendo. Per farla breve: non gli è arrivato il tuo messaggio, sostenendo che forse col passare del tempo il tuo lavoro, se non avesse avuto una svolta, si sarebbe perso. Ecco, questo “scontro generazionale” può essere importante. Credi che quel che fai sia soggetto ad azzardi di qualche tipo? Che spesso questo possa non arrivare dove vuoi e, rifacendoci alle domande precedenti, rischi di essere letto come “satira”?
GA: A questo ho già in parte risposto. Ci sarebbe da parlare del giullare di corte, ovvero questa mia ossessione per una vera e propria tradizione. Consideriamo Appunti per una guerriglia di Germano Celant. Per Celant nel ’67 era giusto scomunicare la figura del giullare per indicare un artista servo delle dinamiche economiche. In realtà, questa figura è molto più stratificata. Più giullari avevano a disposizione le corti trecentesche e rinascimentali, più rappresentava per loro un vanto, poiché questo donava lustro, ricchezza, valore alla corte stessa. Il giullare era il personaggio al quale era concesso simulare la follia e, attraverso quest’ultima, abbinata alla satira e all’ironia, era permesso dire verità scomode. Non solo: era anche l’unica figura di cui – grazie alla sua schiettezza e alla sua sfrontatezza – il Re si fidava ciecamente. Il giullare è dunque un ruolo emblematico che ha un rapporto molto intrecciato con il potere. È sopravvissuto attraverso Pulcinella, l’Arlecchino, Totò, Dario Fo evidenziandone le qualità di ‘figura liminale’, che si posiziona tra il popolo e la corte e che, nelle giornate della festa dei folli, permette quel ribaltamento temporaneo che fornisce quella breve – ma intensa – soddisfazione nel dire Il Re è nudo! Peccato che oggi, il Re è nudo sia una questione superata, vecchia e insoddisfacente. Il Re è nudo, ma è contento di esserlo, è a suo agio in quella condizione. È in realtà ciò che alimenta quel senso di appartenenza che, per pochi attimi, prendendo in giro il sovrano, sgrava brevemente dalle insoddisfazioni, alleviando dalla condizione di inferiorità. Questa figura che alla fine degli anni ’60 Celant attacca, in realtà la rintracciamo in una tradizione, a lunga gittata, che è ben radicata nella storia dell’arte Italiana. Una tradizione ironica, non per forza giullaresca, che usa le forme della satira, dell’umorismo, della leggerezza. La possiamo ritrovare in Piero Manzoni, in Alighiero Boetti, in Gino De Dominicis, in Aldo Mondino o, ancora, in Pino Pascali, in Maurizio Cattelan &co. Tutte queste sagome, questi riferimenti e contaminazioni legittimano lo sberleffo, il sarcasmo, queste attitudini, che sono funzionali al mio lavoro. Anche perché la volontà è sempre stata quella di essere ‘superficiale’. Un seriamente non prendersi sul serio. E la satira in qualche modo è dichiarata, permea qualunque tipo di teoria da me affrontata. Se ti piace non prenderti sul serio ma allo stesso tempo essere serio nel farlo, secondo me non c’è nulla di rischioso. A maggior ragione dopo aver visto la premessa storica che giustifica questa strategia, facendola diventare così il focus e la caratteristica del lavoro intero. Inoltre l’ironia è senza tempo. “L’ironia è qualcosa che si sviluppa nel distacco”, per cui il riso (come la critica) è provocato da questo allontanamento. Quindi la satira non mi preoccupa. La satira non satura mai… questa me la segno, la userò nel libro… la scrivo perché poi me la dimentico [ride, mentre la scrive su un foglietto posto di fianco a lui].
FP: Una delle ultime mostre che ho visto prima del lockdown fu proprio una tua esposizione presso la galleria Moitre a Torino. Raccontaci un po’ il ruolo della mostra e dell’esposizione artistica nel 2020, se secondo te ha ancora importanza (visto i temi che proprio la pandemia ha sollevato) e, ovviamente, l’interesse che questa ha per te.
GA: Partiamo dalla galleria. È stata una mostra che doveva tirare un po’ le fila. Il progetto da Moitre non era occasione espositiva ma, semmai, mediatica. Era necessario ricordare alla gente che comunque sia produco qualcosa. Mi sono altamente fottuto di qualunque tipo di messa in scena, se non la messa in scena stessa; randomaticamente disponendo una serie di oggetti selezionati e che ripercorrevano gli ultimi anni di percorso. Parliamo quindi di una mostra compromesso all’interno di una galleria che a Torino se la gioca, ma che è più che altro strutturalmente pensata per sperimentare, e per permettere al giovane artista di mettersi in gioco. C’è dunque un obiettivo specifico: quello della recensione. Che però si è perso a causa del lockdown. Cercavo, insomma, il massimo con poco. Non mi interessava il pubblico: volevo il giornalista di Artribune, di Juliet, di Exibart, che mi avrebbe scritto l’articolo. Bastano due, tre addetti ai lavori che ne parlino. Perché è poi quello che realmente conta per il successo. Non è importante che alla mostra ci siano 100, 200 persone, o 10. L’importante è che ci siano: un curatore, due collezionisti e due giornalisti. In quel caso la mostra è finita, chiude e ha vinto. Non serve nient’altro.
FP: Credo che quindi potremmo definire la mostra come un qualcosa di funzionale…
GA: Sì… azzarderei ‘strumentale’ anche. Trasmetto ergo sum. Che poi, cosa sono stati i social durante il lockdown se non un immenso e gigantesco ‘ricordati di me’. Una dimostrazione di questa paura dell’essere dimenticato, la paura dell’esclusione, talmente presente e pesante che è la stessa che soggioga la nostra paura nel prenderci alcuni rischi.
FP: Anche perché i tuoi lavori già sui social trovano un luogo di fruizione importante data la loro natura. Può essere utile capire il meccanismo che si cela dietro la curatela e l’allestimento delle tue opere. Io credo avrei difficoltà a pensare come esporle…
GA: Non sei l’unico. Anzi, io stesso avrei dei problemi ad esporre i miei lavori. Secondo me questo è il bello della lotta nel doverli presentare, perché non è il solito tradurre, materializzare un qualcosa che era digitale e che per la mostra viene trasformato. È come stampare un meme o una qualsiasi immagine che funzionava bene sui social ma che nella sua nuova veste di oggetto-opera non convince. Come traduci le ciabattine con il logo di Artribune? Si tratta di oggetti ansiosi e, come tali, in bilico. Oltre al giochino di parole della copertina di Flash Art – tutti vogliono la copertina di Flash Art, quindi se non puoi avere la copertina plastificata avrai quella di pile – c’è dietro un discorso più subdolo. Ci sono la concettualizzazione del merchandising e l’estetizzazione del bookshop, ad esempio. L’ariete è forse Anti Artworld Artworld Club (2020) che è la parodia della marca Anti Social Social Club, capace di richiamare questo circolo elitario. E lì un po’ effettivamente c’è quella giustificazione al tema tautologico che ruota intorno a se stesso e si autoalimenta. Sono dei link questi lavori. Dei link che però obbligano a un po’ di pazienza, hanno bisogno di curiosità, di non essere ridotte in: ‘Ah, le ha fatte quello che racconta le barzellette e che fa i meme’. Questa difficoltà allestitiva è secondo me una magnifica complicazione, perché ti obbliga a dover ripensare alle modalità espositive. Questa mostra parlava del fare una mostra.
FP: Cosa pensi serva nel futuro (immediato) al mondo dell’arte e, soprattutto, a noi giovani addetti ai lavori?
GA: La verità è che veniamo da mesi dove si è aperta la rincorsa a chi azzecca più efficacemente il futuro, a chi ha la ricetta del domani e chi ha il segreto per guidarci in questo nuovo mondo dell’arte che non commetterà più gli stessi errori. Come sai il mio sguardo è tendenzialmente cinico, un po’ più felicemente consapevole del fatto che le cose poi non cambieranno. Ma non perché il mondo dell’arte non abbia le capacità di cambiare o perché le nuove generazioni non presentino lo stimolo per farlo, ma perché è qualcosa che va al di là del solito panorama sistemico. Si tratta di un“bagno di umiltà” del circolo dell’arte e di capire che è solo una pozzanghera che riflette le problematiche della questione-mondo e che quindi finché non cambia a monte, sotto non è pensabile una riconfigurazione La nostra società è colonizzata da un orizzonte di pensiero capitalista che ci obbliga a confermare l’inesistenza di alternative, per cui devi essere il numero uno, devi distruggere il pianeta e il tuo modello neo-liberale è legittimato per i motivi che conosciamo. Quindi il mondo dell’arte non può fare altro che assistere e seguire di conseguenza ciò che succederà dopo. D’altronde ce l’ha dimostrato il Covid-19: l’arte e la sua bellezza non riusciranno a salvare il mondo. I buoni propositi di chi ha lanciato hashtag improbabili a suon di ‘ce la faremo, l’arte vivrà e salverà il mondo’ sono ipocriti. Come pensare che la preghiera di Marina Abramović ci guiderà verso mondi migliori… Tutto questo non serve a nulla.
FP: Per parafrase un altro mostro sacro come Joseph Beuys: La rivoluzione non siamo noi…
GA: Esatto. La rivoluzione parte da noi come individui, non come curatori o contributor sottopagati, artistuncoli o aspiranti quello-che-vuoi. Cosa dire quindi al giovane addetto ai lavori… Di essere consapevole di tutto quello che dirò nel libro, avere ben chiaro che tutto ciò che sembra un pensiero indipendente nel mondo dell’arte in realtà, si regge su conformismi, rituali e comportamenti ben definiti. Capire che è una macchina vuota, una ziggurat costruita sul fango, perennemente e facilmente sfaldabile. La nostra è una generazione disillusa. Cosa ci puoi fare, siamo cresciuti così. Siamo nati già sconfitti ed esausti, consci del fatto che le cose non si modificheranno. Ci siamo dentro e sappiamo che non cambia un cazzo. Forse la consapevolezza… Non lo so! La verità è che non lo so e non posso auto-censirmi o definirmi sciamano e futurologo dell’arte quando non lo sono. Posso solo cercare di capire come funziona e di cercare di vivere al meglio.
FP: Per concludere: hai realizzato la copertina del nostro primo numero. Raccontacela un po’.
GA: Prima di tutto non posso che sottolineare l’entusiasmo, più volte manifestato, per questa sfida che voi di Futura mi avete proposto. Mi sono molto divertito nel progettare questa cover, anche perché si è dimostrata occasione per sperimentare, mettere a fuoco e realizzare determinate atmosfere di cui più volte abbiamo parlato durante le nostre conversazioni. L’obiettivo è stato raggiunto mediante dei compromessi: il primo è stato restituire la vostra volontà di voler indagare ed esplorare quello che è il mondo della produzione artistica emergente italiana. L’altro, ovviamente, far emergere il mio sguardo e l’attitudine in cui mi riconosco. Da queste tensioni, intese come due vere e proprie polarità, ho cercato di ottenere uno scontro frontale, uno splendido incidente. Dal punto di vista linguistico, questa è una tipica immagine appartenente all’universo memetico. Una cosmologia all’interno della quale l’immagine viene fritta. Ciò significa che il risultato è in realtà un pastiche contenente vari livelli contenutistici che non solo rimandano tautologicamente e auto-referenzialmente a contenuti interni alla stessa immagine ma che, attraverso dei link, collegano altri contenuti e riferimenti. Il grado di citazione e post-produzione, questa rimasticazione continua, porta a friggere l’immagine. La copertina risponde all’esigenza di voler restituire la vastità e la complessità di un’indagine impossibile, nevrotica e isterica, che è interna al sistema dell’arte italiano e, allo stesso tempo, congelare le ore di lettura e chiacchierate che abbiamo affrontato insieme in queste settimane. Ciò che mi interessa raggiungere è sicuramente un’effetto caotico e allucinato, anche per svincolarmi da quelli che sono solitamente gli obiettivi della classica copertina e dai suoi relativi cliché. Ne è uscito un mondo a parte. “Interessante”, no? ;—)