CONVERSAZIONE CON UNA PIETRA

CATERINA MORIGI X MATTEO GARI

“Busso alla porta della pietra. – Sono io, fammi entrare. – Non ho porta – dice la pietra.” Con questi versi si conclude la poesia Conversazione con una pietra della scrittrice polacca Maria Wisława Anna Szymborska (1923 – 2012), a cui ho rubato il titolo per questa intervista. Riporto queste parole, e la versione integrale al fondo del testo, perché probabilmente riflettono lo spirito della pratica di Caterina Morigi (Ravenna, 1991) meglio di come qualsiasi domanda o testo critico possa fare. Non vi trattengo oltre e vi auguro una buona lettura. Avete la possibilità di conoscere personalmente la sua ricerca in quattro eventi espositivi in diverse città italiane: Archeologia della Materia, Spazio Neutro, Reggio Emilia; Ecophilia, a cura di Andrea Lerda, Museo Nazionale della Montagna, Torino; Impronte, a cura di Claudio Musso, Francesca Passerini e Laura Rositani, Fondazione Giacomo Lercaro, Bologna; Delay#4, Spazio Mensa, Roma.


Matteo Gari: Com’è iniziato il tuo percorso nell’arte? E come sei arrivata a interessarti al “passaggio delle soglie”, come dichiari nel tuo portfolio?

Caterina Morigi: Il mio percorso è iniziato quando ero ancora piccola, in modo spontaneo, nel senso che fin da bambina sono sempre stata interessata alla storia dell’arte e in particolare all’archeologia. Mi è sempre piaciuto visitare musei, mostre e siti archeologici. Non dando troppo peso a questa cosa mi sono iscritta al liceo classico, appassionandomi alla cultura greca, ma poi ho deciso di passare al liceo artistico perché ero interessata al restauro. Dopo il liceo ero stanca di ricopiare Raffaello e Michelangelo, quindi ho deciso di frequentare lo IUAV a Venezia, meravigliosa scuola a metà tra pratico e teorico, dove ho potuto conoscere di persona molti artisti, tra cui Alberto Garutti, Paolo Icaro e Guido Guidi che mi hanno molto influenzata, e ho compreso la mia volontà di raccontare il mio sguardo sulle cose.

Per rispondere alla seconda domanda, per me le soglie sono una cosa leggera, piccoli dettagli sotto gli occhi di tutti in cui si cela una forza che spesso nota solo lo sguardo dell’artista. Penso sia una questione di sguardi e mi viene in mente proprio l’opera di Guido Guidi, che realizza fotografie in modo classico, in bolla, stampate su carta e incorniciate, ma ciò che sta dietro queste immagini parla di molto altro, umano e naturale, dell’angolo dietro casa. Esattamente questo è ciò di cui si interessa la mia ricerca, rapporto tra essere umano ed elemento naturale che può essere inteso in diversi modi, per esempio in modo “superficiale” nel senso letterale del termine, perché è proprio sulle superfici che si rivelano i segni del tempo e le forme, ma a oggi credo di aver fatto un salto verso la sostanza.

Monocromi (2012) è il titolo di una delle mie prime serie di lavori, sei tele in cotone su telaio di legno 1 x 1 metro dipinte con succo di frutta. Ho voluto valorizzare e allo stesso tempo dissacrare, in maniera ironica, una categoria della pittura storica, il monocromo, dipingendo con materiale organico, naturale e commestibile, che attiva il senso dell’olfatto. Quando ho presentato le opere per la prima volta lo spazio espositivo era ricolmo di questo odore forte, ma i visitatori non vedevano altro che questi sei quadri color pastello. Con il passare del tempo le tele si sono modificate sia dal punto di vista cromatico che strutturale, alcuni si erano imbarcati a tal punto da essere caduti dal muro, e questo per me è un punto molto importante nel mio lavoro, perché la materia organica è viva e in continua trasformazione, non mi è mai interessato cercare di bloccarla o imprigionarla.

Monocromi, Venezia, 2012, Succo di arancia rossa, succo di mela verde, succo di ananas, succo di mirtillo, succo di pera, succo di albicocca, tela di cotone, legno di pino, 100x100cm
Comparison Monochromes in 2012 and 2015

M.G.: Qual è il tuo procedimento progettuale, se ne hai uno? 

C.M.: Solitamente lavoro per macro progetti, opere che fanno parte di un ciclo, che nascono da tanta lettura e tanto studio, soprattutto visivo. Prima di iniziare a lavorare con la pietra ho passato molto tempo a studiare petrografia e i materiali in generale, quindi spesso mi approccio a testi scientifici che affronto, però, in maniera poetica.

Sono attratta dalle cose che inizialmente appaiono diverse da quelle che sono, quando si rivela l’illusione visiva, allora scatta la scintilla, solitamente faccio una fotografia, che poi diventa un disegno che sarà alla base di un lavoro più elaborato.

M.G.: Nel tuo sito è presente una sezione intitolata diary, me la racconti? Ho avuto l’impressione che fosse una sorta di tavola warburghiana per orientarsi nel tuo lavoro.

C.M.: Mi sono laureata in triennale con una docente di semiotica e in magistrale con una di iconografia classica, entrambe molto legate ad Aby Warburg. Ho cercato di fare mie le sue tavole per raccontare ciò che sta a margine della mia ricerca, come nasce e quali sono gli spunti che danno origine alla mia pratica, cosa che mi interessa scoprire anche degli altri artisti.

Per farti un esempio, 1/1 (2018) è un’installazione costituita da due lastre di gres porcellanato sulle quali sono stampate, sovrapposte, la riproduzione di una lastra di marmo Arabescato Statuario, le cui venature riportano la stratificazione di una storia minerale intrinseca, e dettagli dell’accumulo superficiale della storia dell’essere umano, ovvero la pelle. L’idea di sovrapporre epidermide e marmo nasce da una visita in un museo tedesco, le cui pareti in marmo Skyros erano estremamente simili alla pelle. Così ho iniziato ad osservare le somiglianze tra carne e marmo, come ad esempio l’uso della pietra nell’opus sectile romano, antica tecnica musiva in cui si realizzano silhouette marmoree.

Quindi il mio spunto è stato in questo caso visivo, sono infatti le immagini a popolare Diary, ma anche diverse letture eterogenee mi aiutano a comporre questo diario di spunti significativi.

Immagine da Diary, Domenico Veneziano, Giovanni Battista nel deserto, 1445 circa, dettaglio
Installation view at MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, 2018, Bologna, IT.

M.G.: Elitropia è un’installazione consistente di carta dipinta con un materiale atipico che è entrato di forza nella nostra quotidianità: il disinfettante. Mi racconti il percorso dietro a questo lavoro? Inoltre mi farebbe piacere chiederti che traccia credi che la pandemia lascerà nell’immaginario dei giovani artisti. 

C.M.: Elitropia è l’ultimo lavoro che sto sviluppando ed è costituito da una parte pittorica e una scultorea. Ho iniziato a dipingere utilizzando disinfettanti, sostanze antisettiche, e parallelamente realizzare sculture in carbonato di calcio e altre sostanze compatibili con l’essere umano. L’elemento del disinfettante si è quindi infiltrato in maniera giocosa – come per il succo dei monocromi – e avendone sempre più a che fare nel quotidiano e in maniera quasi ossessiva, ho voluto provare a mescolarne diversi tipi, come un alchimista, scoprendo una reazione chimica che produce come delle piccole esplosioni sulla carta, che si pigmenta e restituisce paradossalmente una parvenza di nuove forme di vita. Queste reazioni chimiche sono incontrollabili, non è possibile riprodurre lo stesso colore o la stessa texture. Ho scelto di realizzare le pitture su una forma circolare perché è quella della visione ottica dei microscopi, in modo da entrare in maniera poetica all’interno di un metodo scientifico, e successivamente le ho catalogate secondo criteri visivi.

Anche a questo lavoro ho affiancato una ricerca teorica, in collaborazione con alcuni ricercatori in ambito biomedico dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, approfondendo il tema delle ossa. Mi hanno spiegato come queste siano composte da una matrice organica e una minerale, sostanza che fa parte della mia ricerca da molto tempo, e in particolare dal carbonato di calcio, che è il materiale che in natura costituisce il marmo.  

Dopo questo incontro ho voluto dirigere la ricerca verso una sorta di figurazione sempre tenendomi, però, sulla soglia dell’astrazione. Ho quindi disegnato forme che ricordano ossa su una carta cotone sbiancata industrialmente con il carbonato di calcio, in modo da chiudere il cerchio. L’altra parte della serie, composta da sculture, è ancora in lavorazione nel mio studio temporaneo alle Serre dei Giardini Margherita di Bologna, una struttura in ferro e vetro in cui un microclima artificiale amplifica gli effetti del calore, dell’esposizione alla luce sulla materia. Le opere saranno esposte al Museo Nazionale della Montagna di Torino e alla Fondazione Cardinale Giacomo Lercaro di Bologna.

Per rispondere alla seconda domanda, mi sento di dire che l’unica certezza è proprio che rimarrà qualcosa, sicuramente delle tracce sui corpi. Con Elitropia ho voluto per la prima volta parlare in maniera diretta di qualcosa che ci coinvolge tutti in questo momento, dipingere con il disinfettante è un riferimento inequivocabilmente diretto. All’inizio della quarantena noi artisti siamo stati invasi da domande di questo genere, cosa volesse dire la quarantena per noi o come fosse cambiata la nostra pratica, io credo che il nostro approccio non sia cambiato molto, non siamo impazziti ma siamo solo più stressati, come tutti d’altronde.

Elitropia (Melusine), 2020-2021, Installazione, disinfettante su carta, dimensioni variabili

M.G.: Vorrei parlare della tua più recente mostra da NEUTRO a Reggio Emilia, Archeologia della materia. L’allestimento di riproduzioni in porcellana di piccole pietre, affiancate dai propri originali, all’interno di sei vetrine commerciali, porta in strada una “finta” esposizione archeologica contemporanea. Di norma ci si scandalizzerebbe alla scoperta di un falso o di una copia all’interno di un’esposizione; la tua mostra, invece, verte proprio sullo scarto tra realtà e finzione. La copia, nel senso di falso, ha il potere di raccontare verità a volte indicibili, di mostrare la realtà da una nuova prospettiva, a volte più reale del reale.

C.M.: Sono estremamente contenta che Sincerità della materia (2019) abbia trovato una seconda diversa possibilità di essere presentata al pubblico, e probabilmente ci sarà una terza mostra altrove. L’installazione concepita e prodotta a Napoli è stata esposta alla Villa della Regina di Torino, all’interno del circuito di eventi off di Artissima, ma in questa occasione sarà esposta in un ambiente completamente diverso, NEUTRO, sei vetrine in una via commerciale del centro di Reggio Emilia. Queste vetrine mi ricordano gli espositori museali animati dai reperti archeologici trovati in loco, come nella stazione archeologica di San Giovanni a Roma o nella stazione ferroviaria di Ravenna dove accanto agli orari del treno si possono osservare uno scheletro di epoca romana e alcune monete.

L’installazione è composta da una serie di pietre originali e le loro riproduzioni scultoree. Ogni singola opera è costituita quindi da due elementi, quello lapideo e la copia realizzata dai maestri artigiani della Real Fabbrica di Capodimonte, che lavorano dal 1743 e detengono la tecnica originale della porcellana borbonica. Ogni volta che realizzo un’opera scelgo una tecnica specifica, antica o ipercontemporanea, che possa servirmi a raccontare una precisa idea e alimentare il mio interesse per l’archeologia della produzione. Per questo motivo mi sono recata a Napoli per un mese di lavoro intensivo al fianco degli artigiani, che mi hanno istruita e guidata nella realizzazione di alcune sculture, ma la maggior parte le hanno realizzate proprio loro, con il proprio occhio e la propria mano. Ho chiesto loro, abituati a realizzare opere preziose e costose, di riprodurre oggetti di poco valore, come delle pietre, e inizialmente si sono trovati spiazzati, ma poi hanno operato con molta cura e dedizione. Volevo che venisse dato un valore alla naturalzza di queste forme.

La spinta iniziale dietro a questo progetto è stato il desiderio di interrogare la relazione tra copia e originale, in particolare quando queste vengono accostate: cosa soccombe e cosa resta? Al tempo dei romani i cittadini non vedevano l’imperatore, ma piuttosto si rapportavano con il suo ritratto scultoreo diffuso come una moltitudine di copie spedite in tutto l’impero. A volte si è più colpiti dalla copia piuttosto che dall’originale, a volte il contrario e in altri casi è perfino difficile distinguerle. Queste sculture funzionano molto bene nelle vetrine di NEUTRO perché l’occhio del passante, prima ancora della coscienza, si rende conto che c’è “qualcosa di strano”, nota delle differenze anche impercettibili di cui possiamo prendere veramente coscienza solo dopo un’attenta osservazione.

Honesty of matter, details, Torino, 2019. fotogragia di Luca Vianello
Installation view of the exhibition Caterina Morigi. Honesty of matter, Villa della Regina, Polo Museale del Piemonte, Compagnia di San Paolo, Torino, 2019. fotografia di Silvia Mangosio

M.G.: Non sei nuova all’esposizione in luoghi pubblici. Penso a The Cave In The Cavern (2018), installazione nello spazio di Una Vetrina a Roma. Insomma, preferisci esporre negli spazi espositivi canonici o in ambienti alternativi?

C.M.: Ogni esposizione è una sfida. Mi annoierei esponendo sempre nello stesso tipo di spazi, più o meno convenzionali. Quando vivevo a Roma notavo una certa tensione semi-negativa, è una città storica stupenda ma allo stesso tempo densa di una presenza umana e architettonica che può risultare ingombrante e opprimente, quindi ho trovato nello spazio di Una Vetrina una piccola grotta urbana. Per questo motivo ho voluto esporre un’immagine estremamente naturale, una fotografia tratta da una serie che avevo realizzato in Normandia e in Bretagna in cui mi ero impegnata a ritrarre esclusivamente soggetti naturali alla ricerca di strutture e texture organiche. Ho quindi posto questa immagine all’interno di un lightbox in modo da farla risaltare tra le forti luci al neon della vetrina dello spazio espositivo.

The Cave In The Cavern, Roma, 2018, Installazione, Scansione da negativo a colori, lightbox

M.G.: Nel 2019 hai presentato la mostra Honesty of Matter nello spazio di Mucho Mas! a Torino. La serie di opere esposte, intitolata Sectilia, consiste in riproduzioni frammentate di corpi stilizzati, realizzate con l’antica tecnica decorativa romana dell’opus sectile. Cosa ti ha portato a scegliere di rappresentare dei corpi in questo preciso modo?

C.M.: La mostra nasce da un progetto finanziato dalla compagnia San Paolo a partire dalla realizzazione di opere che parlassero del rapporto tra umano e natura. Una parte è stata esposta alla Villa della Regina e l’altra nello spazio di MUCHO MAS!, curato da Silvia Mangosio e Luca Vianello. Sectilia nasce da anni di ricerca in cui ho viaggiato in giro per l’Italia alla ricerca di opus sectile, realizzati tra il I a.C. e il IV d.C., che ho fotografato per poi selezionarne le parti raffiguranti l’incarnato riproducendo alcune parti ingrandite. Ne sono derivate delle sculture realizzate in marmo artificiale di Rima, materiale difficile da realizzare perché richiede una lavorazione lunga e costosa tanto da essere più semplice trovare un vero pezzo di marmo. Per prima cosa si deve creare uno stampo, successivamente si progetta la tipologia di marmo e lo si realizza mescolando un impasto di colla, pigmento e gesso, che poi viene versato nello stampo e in quel momento si perde la cognizione del processo, ma grattando e levigando si rivela il risultato. Una cosa che mi affascina molto di questa tecnica è che per ottenere un marmo artificiale è necessario l’utilizzo di sette diverse tipologie di pietre naturali, tra cui pomice, diaspro ed ematite, che a ogni stratificazione vanno bagnate e stuccate. Non ho voluto ricercare la lucentezza del marmo naturale, anche se possibile, perché mi interessava che le mie silhouette mantenessero un riferimento visivo ai ritrovamenti archeologici e contemporaneamente alla porosità della pelle umana.

Nella mia pratica parto spesso da modelli, passati o presenti, che in questo caso sono delle silhouette di piccole dimensioni, dette “crustae”, come alcune presenti nel parco archeologico dell’Appia Antica, che ho ingrandito fino a una dimensione visivamente naturale. Questo perché volevo che entrando nello spazio si potesse richiamare quel lato più inconscio, di cui ti parlavo prima, che arriva prima della coscienza e che ci fa capire che sono corpi ancor prima di soffermarsi a osservare. L’allestimento voleva far supporre ai visitatori che questi corpi continuassero anche nello spazio vuoto.

Installation view of the exhibition Caterina Morigi. Honesty of matter, Mucho Mas! Artist-run space, Torino, 2019. Fotografia di Silvia Mangosio
Elements from the frieze with naked ephebes, Villa dei Quintili, II century AD, Archaeological Museum of Appia Antica, Rome; Menade and Satiro, opus sectile from Pompeii, 41-68 AD, MANN – Archaeological Museum of Naples. _Venus getting to wear sandalwood, opus sectile, from Pompeii, 41-68 AD, MANN – Archaeological Museum of Naples.

M.G.: Hai un progetto dei sogni artisticamente parlando? 

C.M.: Vorrei entrare nella materia e vederla da vicino, un pò come ho iniziato a fare nella pubblicazione per NEUTRO, in collaborazione con Mauro Zanchi, proprio come nella poesia Conversazione con una pietra della poetessa polacca Wisława Szymborska:

Busso alla porta della pietra

– Sono io, fammi entrare.

Voglio venirti dentro,

dare un’occhiata,

respirarti come l’aria.

– Vattene – dice la pietra.

Sono ermeticamente chiusa.

Anche fatte a pezzi

saremo chiuse ermeticamente.

Anche ridotte in polvere

non faremo entrare nessuno.

Busso alla porta della pietra.

– Sono io, fammi entrare.

Vengo per pura curiosità.

La vita è la sua unica occasione.

Vorrei girare per il tuo palazzo,

e visitare poi anche la foglia e la goccia d’acqua.

Ho poco tempo per farlo.

La mia mortalità dovrebbe commuoverti.

– Sono di pietra – dice la pietra

– E devo restare seria per forza.

Vattene via.

Non ho i muscoli per ridere.

Busso alla porta della pietra.

– Sono io, fammi entrare.

Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,

mai viste, belle invano,

sorde, senza l’eco di alcun passo.

Ammetti che tu stessa ne sai poco.

– Sale grandi e vuote – dice la pietra

ma in esse non c’è spazio.

Belle, può darsi, ma al di là del gusto

dei tuoi poveri sensi.

Puoi conoscermi, però mai fino in fondo.

Con tutta la superficie mi rivolgo a te,

ma tutto il mio interno è girato altrove.

Busso alla porta della pietra

– Sono io, fammi entrare.

Non cerco in te un rifugio per l’eternità.

Non sono infelice.

Non sono senza casa.

Il mio mondo è degno di ritorno.

Entrerò e uscirò a mani vuote.

E come prova d’esserci davvero stata

porterò solo parole,

a cui nessuno presterà fede.

– Non entrerai – dice la pietra.-

Ti manca il senso del partecipare.

Nessun senso ti sostituirà quello del partecipare.

Anche una vista affilata fino all’onniveggenza

a nulla ti servirà senza il senso del partecipare.

Non entrerai, non hai che un senso di quel senso,

appena un germe, solo una parvenza.

Busso alla porta della pietra.

– Sono io, fammi entrare.

Non posso attendere duemila secoli

per entrare sotto il tuo tetto.

– Se non mi credi – dice la pietra-

rivolgiti alla foglia, dirà la stessa cosa.

Chiedi a una goccia d’acqua, dirà come la foglia.

Chiedi infine a un capello della tua testa.

Scoppio dal ridere, d’una immensa risata

che non so far scoppiare.

Busso alla porta della pietra.

– Sono io, fammi entrare.

– Non ho porta – dice la pietra.