LETTERA SU:A GIAN MARIA TOSATTI

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ALESSIO MOITRE

Per chi armeggia con le lettere e le loro controversie, sa l’inevitabile: molte finiranno per accatastarsi nella memoria di un computer perché ormai più nessuno intasa i tiretti delle scrivanie. Non verranno spedite, altre si preferirà rinnegarle, di un gruppetto ce ne si vergogna ed allora le si accantona per farle sbucare dopo morti (perché a cancellarle nemmeno ci si pensa, Lorenzo Mondo, di recente dipartita, ne ha soppalcato crucci e gioie pavesiane e fenogliane). Della maggioranza però, semplicemente, la scelta editoriale ne ha decretato l’esclusione. Questo scritto che segue batte bandiera di metà ottobre 2021 e non fu mai resa pubblica. Inutile ricostruirne le vicende (che per altro non riguardano questa testata) ma invece cova una buona occasione per confrontarsi con il ciò che è accaduto. Al termine dell’anno passato, l’affaire quasi statale investiva la figura di Tosatti e ognuno ci metteva una sua opinione. Fascine da incendio magari, ma ora, con più calma, chi leggerà potrà togliersi lo sfizio di affermare, a seconda dei gusti: “Moitre come al solito ci ha capito un cazzo” oppure “qualche cosa forse andava nelle direzione giusta” o un più indeciso “vabbè, metà e metà”. Più utile, invece, mettere alla prova il giudizio di chi si è preso la briga di arare una parte del dibattito e sostenere, alla faccia sua che ancora non è andato in Biennale, se c’è del vero nel suo anfanare da scribacchino. Buona lettura da semestrale ritardo. 

Premessina

Il pensiero assilla l’intellettuale. Nel caso di Tosatti, che per il ruolo sociale ha investito ingenti forze intellettive, è uno scudiero, in altri casi una torosa emicrania. Nel paniere ci rientrano anche le polemiche degli ultimi mesi di cui, sono masochista, non me ne è importato nulla. Ho finto, ci ho provato a rimanere vigile ma mi son scoperto discepolo nell’interessamento, che ritengo futuribile visti gli incarichi conferiti al romano, delle idee dell’artista. Il motivo è che possono far maggiori danni oppure ottenere una, anche seppur complicata, estensione delle prospettive dell’arte italiana. Incautamente ha scritto, pure parecchio, e ritengo che Gian Maria (vado per nome anche se confesso che non ci si è mai conosciuti e questo mi dovrebbe, almeno per ora, escludere dai golpisti) non si sia mai sottratto dal ricevere qualche fianconada (o stoccata al fianco) dolorosa. Dunque Biennale e Quadriennale, inevitabilmente connesse perché almeno che il creativo sia dotato di poteri sconosciuti, il suo cervello (di altri si vedrà) lavorerà su entrambi i frangenti. Ammetto che margini di riflessione a Torino e provincia (sempre più infoltita da chi se la batte dalla città) si sono fatti, nasando che possa esser anche una vicenda culturalmente stimolante, nonché significativa per una attestazione storica da smollare ai posteri. 

Mi permetto…

Ecco, signor Tosatti, i posteri. Mi scuso se passo ad una marcia differente, ma vorrei sottoporle le mie riflessioni, prima che si metta all’opera, senza incepparmi nelle convenzioni della lingua e dunque vado come se lei, che non mi conosce (lo ribadisco, porti pazienza, ma rivolgerle la parola sta diventando compromettente), potesse scrutarmi di fronte, magari settati ad un caffè, proprio come quando disquisiva con Didier Faustino a Parigi, nel 2015. Sa, non mi tolgo dalla testa la questione del corifeo, termine che pochi conoscono ma che è consequenziale alla sua cultura d’impronta greco – latina d’abbrivio teatrale/letterario o quantomeno di simpatizzante del circolo. Lei ebbe a scrivere che una generazione di intellettuali aveva ripreso coscienza di “marciatori” contro la Storia, ricollocandosi il peso delle proprie responsabilità sulle spalle, anche fino a conseguenze dolorose. Vado alla veloce, senza citare di preciso ma avrà inteso. Questo potrebbe essere assimilato all’artista sempre politico, concetto espresso in svariate occasioni dai suoi ragionamenti, che in fondo si riconnette moschettandosi perfettamente con l’avanzare della parola “popolo” a svantaggio di “pubblico” che mi pare di aver inteso (ma qui si va anche a sentimento), renderle meno gradevole il settore dell’arte contemporanea, in quanto più facilmente associabile a maneggi mercantilistici o a necessità eventicole (o da evento, non so nemmeno se il termine esista ma mi garba). Son sincero, non penso sgarbato, nel confessarle che in sei anni, la prospettiva supposta nell’ebbrezza francese, mi pare essersi sbiadita. Lo asserisco perché è nodale nella sua struttura intellettiva e progettuale. Ho cercato conforto in qualche suo scritto più recente per supportare la mia tesi o per darmi torto, che sarebbe stato persino più semplice ma non vi sono riuscito. Al settembre 2021, insomma  girato l’angolo, paventa che: “Gli artisti si riprendono una responsabilità nel pensare il mondo dell’arte, trovando un modo per renderlo meno sistema e più mondo. Meno mercato e più ragionamento, in modo che sia il ragionamento a dirigere il mercato e non viceversa, bilanciandosi”. Insomma, rinseriamo la prima, che sia mai che la potenza nel motore sia aumentata. Faccio il provocatore ma mi pare più semplice sostenere che il creativo italiano, a fare il pensatore da concetti di dominio pubblico o guida impavida, non ci pensi nemmeno e mi pare di potermi fregiare anche dell’attestato pandemico, dove, per stordimento o inattuabilità, gli artisti italiani abbiano proseguito nell’anonimato nonostante che le opportunità d’ascolto non siano mai state così benevole. Quella generazione “culturalmente italiana” di cui tre anni fa citava nomi e cognomi in un suo scritto, spalleggiandoli nella lotta di una più chiara identificazione nazionale, non le pare sia venuta meno quando se ne attendeva l’ascesa? Gliel’ho chiedo non per trascinarla in una scaramuccia da baruccio ma per inquadrare che compito ci attendiamo da lei. Perché oltre che oggetto di sospetti, intrighi e petizioni, in cui le si chiede tra le altre di sgallonarsi, togliendosi mostrine ed impegni per una rinnovata moralità nazionale (ammetto che io non rinuncerei a nessuno degli incarichi, anche solo per far dispetto), è indubbio che un suo successo su entrambi i fronti, quando in verità già uno sarebbe campale, creerebbe non pochi intoppi metodologici, sovraccaricando le testate settoriali di articoli e proposizioni di futuri incarichi per compiti speculari affidati ad altri artisti, facendo imbestialire critici, storici, detrattori, crisaioli e soprattutto mettendole in capo una coroncina di campione della giostra. Non la invidio e per certi versi, sarebbe meglio toppasse perché, è qui forse mi faccio amaro, temo che lei sia un caso isolato. Sul talento artistico se la vedrà lei, io intendevo sull’impegno civico che però ho inteso essere una sua premura che le sta a tal punto a cuore da non potersi sganciare dalla ricerca dell’identità dell’arte italiana, in fondo stimolata da quell’Umanesimo che cita ogni tanto e che posso orecchiare dall’infinito sbrontolare di lasciarlo un po’ in pace e di fare da sé senza sempre tirarlo in ballo. C’è uno spazio di malinconia nel suo ragionare. Specialmente quando si fa europeo. Calais e la sua cittadella di cartone e  sfinimenti,  quella  “Troia di un epopea del futuro”, battesimo lessicale di sua fattura, non l’ha digerita, emblema di un Occidente tramontante che seppur in Europa è diventato un fortino in attesa dei disperati, noi ne siamo un organo e, “ancor peggio”, mi passi il gioco, è fonte di identificazione primaria per le nuove generazioni. I venti e quasi trentenni (gli adolescenti di certo) sono europei di origine italiana, che hanno in vista un arte continentale, con sfiziosità territoriali per materiale o slanci. Conoscono, quando acculturati, la tradizione italiana ma difficilmente ne saprebbero identificare le specificità (di cui anche io non granisco che fantasmi). Ha ragione quando ha affermato che l’arte non può più isolarsi o badare a se stessa ma non vorrei che il suo impegno, soprattutto in chiave romana, le facesse intendere di avere un’educazione da portare. Volevo vergare “una missione da compiere” ma in confidenza non credo arrivi a tanto. Non vorrei che facesse troppo affidamento sul popolo, che invero mi pare disinteressato all’educazione creativa se non nelle frange di resistenti che ancora si coccolano l’estetica giovando di varie forme d’arte. Che ci provi a stimolarlo son ben conscio che sia suo compito, altrimenti che servirebbe aver accettato i vari incarichi ma se ritiene che la sua intellettualità la porti a plasmare il progetto, il tempo e i mezzi, temo siano scarsi per il gerbido che si troverà intorno. Forse saranno sementi buone per il futuro, chissà. E a ricostruire rischia di recitare da San Sebastiano perché non vorrei proprio che prendesse per vera una sua frase del 2015 in cui, paragonando la Francia alla propria nazione scrisse abbacchiato che: “mai nessuno attaccherà il nostro Paese, perché non c’è più niente da cancellare. Perché abbiamo liquidato già tutto noi. Da noi l’Isis è già passata, ma usava una bandiera tricolore”, facendoci anche un po’ torto ma siamo di buon cuore e dunque non c’è la siamo presi se non lo spazio di un aperitivo. O peggio, che consegnasse “alla morte una verità prima di sparire”. A noi osservatori del caso Tosatti rimane il dubbio di capire quanto rischiamo di veder avanzare la propaganda a vantaggio del messaggio artistico, che sarà politico, su questo ci contiamo e nella sua logica è inevitabile, ma se strambasse verso il richiamo al compito di guida o di poeta generazionale, rischierebbe di giungere ad una inevitabile lezioncina che farebbe evaporare il ruolo che si è ritagliato. Questo, come è logico, soprattutto in temperatura veneziana, dove la sua impresa in solitaria (caldeggiata per poi essere rinnegata da taluni in cerca di nuove contese) desta curiosità e che spero non si risolva in un lavoro storicistico. Se è per le idee che l’ho valutata, con le stesse attendo di essere accolto, rimaneggiando la nuova identità continentale che ad entrambi, ritengo, stia a cuore. 

Per chiudere, sennò la si tira lunga 

E per la Quadriennale ci si lustri la capoccia a furia di passate di mano sul cipiglio. Attorniato da un comitato tecnico e dal telefono che bollirà per sopraggiunti nuovi adepti salterini sul carro dorato, qualche sostenitore e, se è stato giusto, una manciata di amici. Sugli artisti, avrà dedotto nonostante tutto, spero che lei tenti di infatuarli con la sua visione, è un auspicio che dimostrerebbe la bontà di chi le ha assegnato l’incarico. Progetti solidi, chiari e di facile lettura e mettersi al servizio di questa chiarezza. È una sorta di manifesto politico da lei suggerito tra le righe e forse da attuare nella città più politica d’Italia. Che lei venga elevato a nuovo artista nazionale per strategie meschine come tali circoli suggeriscono o che sia un professionista integerrimo sarà un precedente intellettuale d’interesse, fosse anche solo per il coinvolgimento delle ipotesi su un arte estesa al tessuto sociale (ma se potesse, le chiederei una premura, non ecceda con l’arte partecipata. Pare quasi dare in carico ai malcapitati di migliorare il giocattolo, molti non gradirebbero).