ETTORE PINELLI X FEDERICO PALUMBO
Insieme a Ettore Pinelli (Modica, 1984) si è deciso di escogitare una diversa modalità per l’approfondimento da dedicare al suo lavoro. Rispolverando un po’ il vecchio e caro scambio epistolare – oggi impossibile e anti-ecologico – abbiamo deciso di rimodellarlo mettendo in piedi un frequente e assiduo scambio di e-mail. Ne è uscita fuori un’analisi molto densa e assai profonda, meno meccanica dell’intervista classica e meno ‘autoreferenziale’ del testo critico.
Quello che leggerete, dunque, è un confronto fra me e l’artista ad ampio respiro; ci troverete, infatti, rimandi alla realtà e alla storia dell’arte, alla digitalizzazione e alla fruizione cannibale delle immagini mediatiche; il tutto ovviamente filtrato tenendo conto della sua opera.
24/11/2020
Ciao Ettore,
ho letto il saggio che mi hai consigliato di Jean-Luc Nancy, Immagine e violenza (in Tre saggi sull’immagine).
Prima di tutto vorrei condividere con te alcune suggestioni che mi sono venute in mente. Non so se conosci l’artista americana Rosalyne Drexler, un’artista pop forse ancora poco nota ai più, purtroppo. D’altronde, io stesso ho dovuto recuperare alcuni libri – che mi furono dati, anni fa, in bibliografia per sostenere qualche esame universitario – perché i ricordi si erano ormai annebbiati apparendo così sbiaditi.
Insomma, la Drexler racconta che – prima ancora che diventasse artista di professione – scappò via con un gruppo di wrestler poiché da sempre affascinata da quello strano microcosmo che ai suoi occhi appariva pullulato da violenza e immagine. I dipinti realizzati come “conseguenza” di tale esperienza riprendono quanto visto e vissuto in quel periodo. Te ne vorrei raccontare uno in particolare: Death of Benny «Kid» Paret (1936). L’opera, divisa in sei schermi tv, riprende l’ultima sequenza di un incontro di pugilato che si svolse quello stesso anno. «Così, nella visione della Drexler, una banale esperienza – un appassionato di sport accende la televisione e si siede sul divano – svela qualcosa di molto più profondo, perfino di spirituale e universale: il concentrato di una tragedia che porta alla morte di un eroico capro espiatorio1». Ebbene, leggendola, questa descrizione mi è parsa sintomatica e applicabile al tuo lavoro (soprattutto se ‘confrontata’ a opere come Altre tipologie di relazione_war del 2015 dove il divario tra ‘sport’ e ‘violenza’ è assai sottile); o, ancora, si manifestano ulteriori possibili confronti: i Gorilla che compaiono nel tuo repertorio e sempre in quello della Drexler. Ovviamente, nelle opere dell’artista pop americana è presente e palpabile un accento politico dettato dal tempo nel quale vive. Ma un tale confronto appariva ai miei occhi assai stuzzicante. D’altronde, parliamo pur sempre di immagini e creare collegamenti fra queste – al di là di un reale punto di contatto – mi ha sempre affascinato.
Continuando su questa linea, risulta interessante, a questo punto, collegare le opere della Drexler al cosiddetto filone «dark pop» del quale Andy Warhol, con la sua celebre serie intitolata Death and Disaster, fu indubbiamente il massimo ‘esponente’. Quindi Race Riot, che mi permette ulteriori associazioni visive alle tue opere, mostrando un certo tipo di approccio (alle immagini mediali e mediatiche di fatti di cronaca violenta e macabra) simile al tuo modus operandi, seppur con notevoli differenze, a partire dall’utilizzo pittorico che nel tuo lavoro assume un’importanza fondamentale e diventa veicolo di senso.
Riprendendo ora Nancy, sappiamo che violenza e immagine sono profondamente collegate, connesse e, anzi, la stessa cosa. «La violenza è sempre un eccesso sui segni (essa è o vuole essere il proprio segno, come la verità […]). Anche l’immagine è un tale eccesso, e forse l’arte non ha, in prima istanza, altra definizione che l’eccesso e la fuga al di là dei segni. Da questo punto di vista l’arte “fa segno” (nel senso del tedesco winken, […] avvertire, segnalare), ma non è il segno di qualcosa né significa qualche altra cosa. L’arte eccede i segni senza per questo rivelare nient’altro che questo eccesso, come un annuncio, un indizio, un presagio – dell’unità senza fondo 2».
Vorrei continuare il discorso con te approfondendo le tematiche emerse in questa mia prima e-mail. Mi affascina pensare che il pittore o, comunque sia, noi contemporanei, estenuanti/inconsapevoli creatori di immagini, siamo in realtà associabili a dei violenti.. nel senso più puro del termine.
Un abbraccio,
Federico.
25/11/2020
Ciao Federico,
è un piacere intraprendere questo discorso con te, che mi suggerisci stimoli visivi e concettuali tanto vicini alla mia ricerca, quanto forti.
Non conoscevo ad oggi il lavoro della Drexler, e andandolo a ricercare sul web mi sembra un’ottima analogia, sia per l’approccio alla scena rappresentata, frazionata in fotogrammi, metodo che, nella maggior parte dei casi utilizzo anche io, per arrivare ad una somma dell’azione attraverso una sola immagine, sia per la comunanza tematica riguardo lo sport cruento, ai limiti dello scontro fisico violento, che ho affrontato nel 2015. Ma direi che, nella mia visione più concettuale del fare, che include delle scelte precise, porrei più l’accento non tanto sulla scelta di evidenziare una tragedia che si consuma sullo schermo, quanto sul fatto di essere spettatori di ciò che arriva indiscriminato, come un scena deliberatamente violenta che arriva per sino ad una “morte in diretta”. Perché la Drexler nel ’36 ha scelto di rappresentarlo? Non era già abbastanza che fosse accaduto attraverso lo schermo, e gli spettatori ne avessero vissuto sia la drammaticità del fatto quanto assorbito indirettamente le immagini? Evidentemente no, se la rappresentazione dello stesso fatto è capace oggi, di permetterci anche un solo momento di riflessione sul come e sul perché, oltre all’indubbia capacità di sublimare l’azione rallentandola e determinandone un effettivo valore assoluto. O magari è proprio lo schermo il vero punto di domanda, che permette alla violenza di raggiungerci filtrata, quindi abbassata della sua carica istintiva quanto reale. Le tragedie si consumano tutti i giorni e noi ne siamo spettatori passivi ed inermi, violenza e predominio non ci scalfiscono in queste modalità. Pensa se ogni fatto di questa natura fosse vissuto in prima persona. Ma mi chiedo ancora, il 1936 non è il 2020, è il flusso mediatico di oggi rispetto a quello di allora a farci vivere tranquillamente la nostra condizione di spettatori?
Quindi Federico, mi chiedo se, tanto la Drexler quanto Warhol, che hanno rappresentato scene cruente quanto mortali, abbiano avuto una vera coscienza del perché. Non a caso, il dubbio, soprattutto per Death and Disaster arriva nell’immediato. La cultura Pop ha permesso di rappresentare ogni aspetto della nostra vita fino a banalizzarne gli effetti attraverso l’opera. In questo caso, credo che la scelta di Death and Disaster, all’interno di un panorama iconografico vasto e variegato conduca inevitabilmente a questa causa-effetto. Un barattolo di zuppa o un autoritratto, come l’immagine della sedia elettrica o di un incidente d’auto, hanno lo stesso valore e gli stessi effetti. Nel mio lavoro tutto ciò diventa materiale per una possibile lettura antropologica di quanto viviamo ed assorbiamo indirettamente, un reale ma immateriale valore con cui confrontarsi e scontrarsi quotidianamente, ma che si distacca totalmente dalla percezione deviata che la quotidianità sia questa e che quindi, immagine per immagine, tutto passi, l’importante è che venga ri-spettacolarizzato attraverso la forza e l’unicità dell’opera.
Riguardo Nancy e Immagine e violenza, sottolineerei un aspetto che mi ha permesso di riflettere ancora ed ancora sulla mia ricerca, ovvero il rapporto tra violenza e verità: «il tratto della violenza che fa immagine lo si trae dal suo rapporto profondo con la verità3», e quindi nella capacità comune che sta nell’atto autodimostrativo. Entrambe si mostrano e sono, si manifestano nella propria verità indiscutibile e immediata. L’una non fa altro che affermare l’altra, e viceversa. Quindi non posso che essere concorde “sull’eccesso che si fa immagine”, determinando un segno che noi artisti tentiamo di estremizzare ulteriormente attraverso la nostra pratica, senza la presunzione di volerne dare giudizio o stabilirne un significato in prima persona.
Secondo me noi contemporanei non siamo dei violenti, è la realtà che viviamo che è violenta, o sarebbe meglio definirla “violentata”, le immagini non sono altro che una conseguenza manifesta di ciò che stiamo vivendo, che si palesa nell’unico modo in cui può farlo. Ma se la realtà venisse considerata unicamente come una somma di azioni dell’individuo?
Un caro saluto,
Ettore.
26/11/2020
Ciao Ettore,
ti ringrazio per la risposta e sono contento che i miei incipit ti siano sembrati fondati e, soprattutto, interessanti. Per rispondere brevemente – e concludendo – a quanto detto sulla pop art ‘e dintorni’: sì, sono assolutamente d’accordo con te. Non siamo certamente i primi a constatare la portata concettuale delle operazioni warholiane e nemmeno gli unici a notare il mutamento della nostra percezione, ormai assonata, difronte alle immagini – di qualunque natura esse siano – che quotidianamente subiamo.
Parlando più nello specifico del tuo tuo lavoro, e legandomi a quanto accennato in apertura, ciò che mi affascina maggiormente è quell’ulteriore passo avanti che tu metti in atto: ho già accennato all’aspetto pittorico e all’importanza che tale gesto assume nella tua opera. E credo che questo sia davvero il grande veicolo di senso che orienta la nostra fruizione in una direzione piuttosto che in un’altra. Oltre alla rappresentazione della violenza – che come hai giustamente sottolineato, oltre che all’immagine, si lega perfettamente alla verità – le tue opere indagano (è forse questo il termine più adatto? Sono sempre abbastanza restio nell’utilizzarlo) il senso intrinseco che regge l’immagine mediale. Esse toccano le sue viscere e riescono ad immergersi fin dentro il nucleo. Penso, ad esempio, alle tue opere intitolate Pictorial device (2017). Lì effettivamente realizzi un discorso, oserei dire, meta-linguistico: proiettando immagini direttamente sulla tela – supporto pittorico per eccellenza – riesci a creare un cortocircuito quanto mai emblematico. La fruizione delle immagini cambia irreversibilmente vincendo e sfuggendo alla carneficina che i mezzi di comunicazione quotidianamente mettono in atto.
Qualche anno fa curai – insieme a Francesca Disconzi – la personale di Woc. Già in quell’occasione rintracciavo una chiara volontà portata avanti dall’artista che poteva apparire spaesante; ovvero: selezionando immagini dal contesto quotidiano, Woc andava a rielaborarle appannandole, rompendo l’estetica classica dei media sottoposta a un lifting brillantante e svuotante, ad alta definizione. Nonostante ciò, queste non perdevano la loro riconoscibilità; anzi, erano così in grado di mostrare finalmente la loro vera natura di immagini violentate, sfruttate fino al midollo, viste da un occhio stanco e saturo di un individuo assonnato che non possiede più il diritto (né la libertà) di poter chiudere gli occhi negando così lo sguardo. Ed effettivamente ecco la violenza dell’immagine contemporanea di cui si parlava l’ultima volta. Te Ettore, giustamente, mi rispondi dicendo che è la realtà che è violenta – e violentata – e io non posso che essere d’accordo.
Infatti, ciò che constatavo per Woc, potrebbe valere anche per le tue opere: è come se imprimessi una patina sopra la tela, una sfocatura, una non messa a fuoco dell’azione rappresentata, che funziona da ulteriore filtro. Secondo te, questa sensazione di ‘non definitivo’ anti-ultraHD che imprimi sull’immagine pittorica, che effetto ha sulla nostra fruizione? Tra l’altro, mi pare di vedere che molto spesso questa patina che ‘rallenta’ la nostra ricettività all’immagine sfoci quasi un’astrazione semi-totale all’interno del tuo lavoro, in un mono cromo che piuttosto che essere figlio della lezione di Malevič riporta alla mente alcune opere aniconiche di Mario Schifano. Questo tuo periodico approdo all’interno di una dimensione più ‘astratta’ (forse davvero il termine più calzante è quello ‘aniconico’) mi sembra di capire sia frutto di un approccio squisitamente concettuale, il quale ti permette rielaborazioni, ritagli, scomposizioni e ricomposizioni delle immagini prelevate. È realmente così?
Spero che queste considerazioni siano nuovamente utili per meglio comprendere il tuo lavoro che, come sai, ammiro particolarmente.
Un caro saluto e a presto,
Federico.
28/11/2020
Ciao Federico,
hai perfettamente ragione nel mettere in dubbio il fatto che un’opera possa indagare un dato, in questo caso mediale. Secondo il mio punto di vista – e non credo solo mio – l’opera assolve al proprio ruolo in quanto mezzo, perché si sceglie un linguaggio piuttosto che un altro? Per far sì che l’artista riesca a portare le proprie riflessioni e visioni ad un pubblico fruitore, proprio attraverso un mezzo che catalizza pensiero, sensibilità e una certa dose di capacità tecnica. Pictorial Device (2017) è davvero un esempio compiuto di idea che si fa opera, considerando quanto appena puntualizzato riguardo l’opera e la ricerca. È assolutamente da considerare come un lavoro meta-linguistico, che fonde pittura ed immagine, sfruttando il retaggio funzionale del “monitor come dispositivo percettivo che mostra un’immagine” e della tela come strumento altro, in grado di poter assolvere esattamente allo stesso compito. La pittura qui è smaterializzata, semplicemente non esiste, se non nell’addizione di più elementi (supporto, superficie colore e superficie immagine) in grado di poterla “azionare percettivamente”. L’immagine scardinata dal proprio contesto originario assume un valore altro e richiede un’interazione visiva differente, percettivamente più accurata. Ma è proprio l’impossibilità di considerare il quadro, di per sé, come è sempre stato, la sfida in entrambe le direzioni, quella della pittura e quella della digitalizzazione. Per me questo lavoro è ancora in divenire, un capitolo di ricerca aperto e mai chiuso, che presto continuerò a sviluppare.
Federico, difficile da stabilire quale reazione retinica possa provocare un mio lavoro nell’osservatore, probabilmente la stessa che ho io, ovvero di distacco, di distanza. Io sono il primo osservatore del mio lavoro e spesso la mia percezione va a toccare direttamente l’impressione dell’accadimento, nella sua fugacità. Il filtro o la patina di cui parli probabilmente è proprio questo, una barriera sensoriale che raffredda un contenuto che altrimenti sarebbe difficile da metabolizzare, convulso ed istintuale, animalesco nel suo accadere senza un controllo razionale. Il lavoro diventa quindi un tramite di qualcosa che è successo o sta accadendo, e tenta con tutta la propria carica energetica di distaccarsi dalla magnificenza di un’opera che si manifesta e dichiara tutto il proprio contenuto estetico e concettuale nell’immediato. Come se attraverso la diradazione della superficie, il movimento e quindi la sfocatura, la pittura si azionasse “a lento rilascio” permettendo di cogliere di più, solo ad una osservazione più lenta e curiosa.
Amo parlare del mio lavoro più meditativo e concettuale, ovvero di quello che deraglia e arriva non so dove. Può essere definito aniconico quanto astratto, ma in verità, rimane un lavoro di natura figurativa anche se consumato da strati di colore. Mi vengono in mente due esempi, lontani come data di realizzazione, parlo di Negare una visione personale (Payne grey) (2016) e Three variations of grey for a multiple image denied (2020), due opere in cui mi sono posto l’obiettivo comune di nascondere l’immagine all’osservatore “forzandone la percezione”, ma con esiti radicalmente diversi. Nel primo lavoro ho rappresentato una scena, che ho poi coperto, prima interamente con uno strato di colore grigio di payne e successivamente solo in una porzione circolare con lo stesso colore, ad abbassare ancora di più la lettura del fulcro d’azione della scena. Il risultato è stato inaspettato e positivo, il lavoro risultava intaccare davvero la percezione più immediata dell’osservatore, costringendolo a rileggere la scena due volte, anche a distanze diverse. Mentre per Three variations of grey (…) è un’altra storia: avevo iniziato a dipingere una scena da un fotogramma di rissa al Parlamento di Taipei, anche abbastanza ravvicinata, poi ho pensato di coprire con un tono piuttosto saturo di grigio scuro, lasciando scoperti un paio di centimetri di immagine sul bordo di due lati, ebbene, ho avuto un’intuizione, ed ho immaginato tre tele uguali, coperte con la stessa scala di grigi con cui costruisco l’immagine, grigio scuro, medio e chiaro. Ma ripensavo anche all’interazione con il colore, che io utilizzo raramente, ed ho immaginato i tre bordi delle tele dipinti e abbinati all’intensità di grigio utilizzato per ciascuna tela: rosa quinacridone, blu cyan e verde smeraldo. Ad opera installata a parete, avrebbero interagito con lo spazio, proiettando un leggero bagliore colorato. La percezione di un’opera monocroma è stata assolutamente ricercata, e viene disillusa dai tre bordi in cui l’immagine è ancora integra e da tutti i dettagli che ad una osservazione più attenta affiorano in superficie. Quindi come dicevo all’inizio di questo lungo paragrafo, il mio lavoro più aniconico è un deragliamento della rappresentazione figurativa, con esiti percettivi più o meno calcolati. Ma se dipingere giorno dopo giorno, non restituisse un po’ di sorpresa, e la tela, con obiettivi prefissati, non si palesasse come una vera e propria sfida, io sono convinto che alla lunga mi sentirei un artigiano e mi annoierei.
Rinnovo i miei più cari saluti,
Ettore.
28/11/2020
Ciao Ettore,
è davvero interessante il discorso che fai sull’astrazione. Effettivamente questo senso di deriva aniconica traspare lucidamente, nonché la stessa struttura figurativa onnipresente nella tua opera. D’altronde, il fatto di rappresentare scene nelle quali l’uomo e la sua corporalità-azione rimangono protagonisti rafforza ulteriormente questo aspetto. Inoltre, anche l’utilizzo del colore e della conseguente percezione del fruitore di fronte a esso ci portano a considerare il tuo lavoro effettivamente come meta-linguistico. Ti dirò di più: l’ultima volta si è ampiamente discusso in merito all’opacità dell’immagine dipinta che non rispetta il regime dalla saturazione e dell’iper-definizione, caratteristiche che invece definiscono le immagini mediali. Già qui è presente un capovolgimento di senso che permette di rivelare quello vero (anche questo termine cerco di utilizzarlo con le pinze, ma non me ne vengono in mente di migliori e in fondo si è ampiamente parlato della verità). Un’ulteriore ribaltamento sembrerebbe verificarsi anche nella fruizione – che è, secondo me, conseguenza e/o principio di tutte le questioni fin qui affrontate: se le immagini mediatiche sono soggette a una fruizione cannibale e, come già detto, assolutamente violenta, adesso il nostro sguardo che si offre sulle tue opere è costretto a un’osservazione maggiormente lenta, meticolosa e periodica; riflessiva e auto-riflessiva. Insomma, in piena antitesi rispetto a ciò che ormai implicitamente siamo costretti in ogni momento della nostra giornata. E questo è sicuramente un aiuto a pensare e a leggere correttamente tali immagini.
E, visto che hai sottolineato l’aspetto concettuale e mentale della tua pratica, e siccome si sta continuando a parlare di fruizione delle immagini e delle immagini in sé, mi piacerebbe approfondire con te – forse – l’ultimo macro argomento rimasto in sospeso dai nostri scambi, o per lo meno non del tutto analizzato: la scelta delle immagini.
Abbiamo discusso della violenza delle immagini e della realtà violenta e violentata; ma non abbiamo parlato della violenza tout court e delle immagini che la ritraggono in sé. Hai prima citato la rissa al Parlamento di Taipei, ma potrei citare anche guerriglie a cielo aperto, scontri e violenza fisica a più livelli, che sono soggetti perfetti dei tuoi lavori. Come scegli queste immagini? E perché questo “argomento” esercita un tale interesse nei tuoi confronti? In fondo mi pare di capire che all’interno della tua opera ‘violenza dell’immagine’ e ‘violenza nell’immagine’ si fondano insieme (forse anche adesso potremmo parlare di approccio meta-linguistico). Inoltre, solitamente ribadisci il tuo ‘intento’ antropologico, o comunque una fascinazione rispetto questo vasto campo del sapere, interessandoti alla reazione dell’uomo quando questo viene messo alle strette, costretto a confrontarsi con i propri limiti. Un qualcosa che è quindi carico di significati extra-storici: più che fotografare uno spettro di realtà, dunque, evidenzi un carattere universale, antropologico appunto (vedi anche i Gorilla già citati), che, come tale, si manifesta continuamente. «È necessaria un’ampia riserva di stoicismo per riuscire a leggere ogni giorno fino in fondo il New York Times 4», rilevava nel 2003 Susan Sontag in merito alla violenza raffigurata nelle immagini che quotidianamente osserviamo indifesi. E la realtà contemporanea continua a offrire nuovi materiali in tal senso mostrandosi tutt’altro che stanca.
Che cos’è quindi per te l’arte, e come si pone di fronte a una realtà come la nostra: violenta e violentata, ipermediale e cannibale? L’opera d’arte, più che specchio del mondo, mi pare possa assumere il ruolo di spiraglio, di cesura e apparizione: l’abbiamo detto, manifestandosi all’opposto, come nel caso delle tue opere, essa può offrire una valida alternativa tout court. Piuttosto che muoversi per ‘significati’, mi sembra preferisca donare ‘significanti’. E questo è il massimo che si può chiedere – e che ci si possa aspettare – dall’opera. E se stiamo qui ancora a discorrere di tutti questi temi (e molti altri sarebbero da approfondire), vuol dire che l’opera si è compiuta ed è ancora lontana da una produzione artigianale che non porterebbe allo stupore critico.
Sperando di sentirti presto e ringraziandoti del tempo dedicatomi, ti abbraccio virtualmente,
Federico.
2/12/2020
Ciao Federico,
rispondere alla tua domanda non è semplice: perché si scelga di rappresentare delle immagini nello specifico, di qualunque natura esse siano, è sempre una somma di esperienze, di interessi, di morbosità, e per certo, qualcosa di strettamente correlato ad artisti ed opere importanti nella storia dell’arte, che oltre ad esercitare un intenso fascino viscerale, sono e sono stati in grado di muovere interrogativi, sia sul presente dell’epoca, che naturalmente sul nostro presente. A tal proposito, uno dei miei primi amori nella storia dell’arte è l’opera di Francis Bacon, nervosamente costruita, densa di stimoli e riferimenti propri della metà del novecento, che sicuramente si può annoverare come una tra le epoche più segnanti a livello antropico nella storia dell’umanità. Se faccio mente locale ad alcune specifiche nella sua opera, mi vengono in mente la grande cura estetica dell’opera, che stride a livello contenutistico con la violenza dell’uomo-animale rappresentato, l’intuizione e la veicolazione dell’errore come mezzo capace di generare una “unicità” nella rappresentazione e naturalmente l’utilizzo della fotografia come mezzo di studio indiretto, che permette all’artista di poter schivare un confronto diretto con il soggetto o gli accadimenti rappresentati. Insomma, molti dati concettuali “sul fare pittura” che ho cercato di considerare fin dall’inizio, ma che credo, non emergano a livello epidermico sulla superficie della tela, e questo per me è un bene. Quindi, tornando alla tua domanda sul perché questo “argomento” eserciti un tale interesse nei miei confronti, sembra palese dopo il mio racconto, affermare che è una questione di indagine aperta su uno degli aspetti più consueti della realtà che viviamo, della nostra epoca. L’immagine e la violenza massificata, tanto nell’informazione quanto (per sfortuna) direttamente nella vita di molti di noi, sono una costante e credo siano quasi diventati un dato caratterizzante della nostra epoca. Uno scenario che non si può non tenere in considerazione, o come nel mio caso, non prendere in esame. Adesso una volta stabilito sommariamente il perché, passiamo al come. Scegliere le immagini e lasciarsi assorbire dai video non è cosi complicato di per sé, basta osservare, cercare e campionare, operazioni che chiunque potrebbe compiere; ma sono ricercare il collegamento visivo e concettuale, immedesimarsi, procedere per inquadrature e ricercare equilibri, (direttrici formali e filtri focali), i passaggi più difficoltosi ma necessari per ipotizzare le caratteristiche stilistico-iconografiche che devono esserci per la “formulazione possibile di un’opera”. Se ripenso a quando ho iniziato a campionare i fotogrammi dai video delle risse nei parlamenti orientali, mi viene automatico parlare solo di intuizione, ovvero di fermarsi un attimo a valutare una serie di fattori: la forza e l’energia della scena, il valore antropologico coincidente con l’accidentalità dell’accadimento, quindi la naturalezza del come questa relazione-reazione umana si manifesti. I filmati sono apparsi nelle testate giornalistiche web, per me come per tutti.
Cosa sia l’arte per me? Tra tutte le domande che mi hai fatto questa risulta la più difficile, quindi ti risponderò con una citazione dal sito Wikipedia, capace di dare risposte il più oggettive possibili e non sulla base di esperienze o di opinioni personali: «Qualsiasi forma di attività dell’uomo come riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva». Quindi, tralasciando il fattore del talento e dell’inventiva (che risultano scontati e banalizzanti di una pratica così complessa quanto controversa), mi concentrerei più sulla forma di attività dell’uomo, finalizzata alla riflessione e alla riscoperta di tanti aspetti e risvolti della nostra realtà, e come tu hai detto, bene e chiaramente, qualcosa capace più che muoversi per significati, di donare significanti.
Ti ringrazio per la lunga e stimolante conversazione, che attenta ed intelligente – con tutti i suoi dati interrogativi – mi ha permesso ancora una volta di approfondire teoricamente, quanto ormai in maniera naturale e quanto automatica, è dentro la mia ricerca da anni.
Un abbraccio forte,
Ettore.
Note:
1 A. Sooke, Pop Art. Una storia a colori, Giulio Einaudi editore, Torino (2016), p.169
2 J. Nancy, Tre saggi sull’immagine, Cronopio, Napoli (2007), p. 27
3 ivi, pag. 18
4 A. Pinotti e A. Somaini, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, Giulio Einaudi editore, Torino (2016), p.244
Si ringraziano Traffic Gallery e Fusion Art Gallery / Inaudita per le Courtesy delle immagini pubblicate.