STARE SCOMODI PER ESSERE

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LUCREZIA COSTA E DANIEL DOLCI X MATTEO GARI

La pratica di Lucrezia Costa (Roma, 1996) provoca una scomodità e un disagio, fisico e mentale, che disturbano le comodità della vita contemporanea. É il caso di Stare scomodi per essere, una serie di poggiapiedi, poggiamani e un cuscino in marmo e pietre riciclate. Questi dispositivi ci ricordano che sentirsi a disagio è l’unica certezza che abbiamo per poter costruire un futuro migliore. La relazione intima tra Lucrezia e la natura esibita in molte delle sue opere è un invito a esplorare le crepe e le profondità della natura, a portarne in superficie i segreti e a coglierne i frutti restituendo sempre il favore. 

Daniel Dolci è curatore e co-fondatore dell’associazione culturale con base a Milano Genealogie del Futuro. Ha recentemente curato la mostra personale di Lucrezia Costa, PELLE VIVA, ospitata da DEPOSITOMELE.


Passaggi catartici, Engraved aluminium scroll, 40 x 600 cm, 2021 – courtesy gli artisti

Matteo Gari: Cosa vi ha portato ad avvicinarvi e appassionarvi all’arte contemporanea?

Daniel Dolci: Sono entrato all’Accademia di Brera pieno di ideali romantici e, a metà del primo anno, li ho lasciati da parte a fronte dell’esigenza di capire veramente cosa fosse la contemporaneità e cosa stesse succedendo nel mondo. Ho iniziato leggendo libri un pò a “caso”, andando di settimana in settimana in libreria e prendendo ciò che mi ispirava. Questa bibliografia molto disorganica mi ha aiutato a colmare i vuoti di cui i corsi accademici quasi mai restituiscono un’immagine chiara. 

Con il passare degli anni mi sono sempre più interessato alla teoria e questo mi ha motivato a iscrivermi al biennio di Visual Cultures e pratiche curatoriali, che sto tutt’ora frequentando. Da quel momento mi sono mosso sempre di più verso l’arte contemporanea. Lo scorso anno ho co-fondato l’associazione Genealogie del Futuro e co-curato, con Sandra Beccaro, la mostra Sentieri a Villa Besozzi Casati a Cologno Monzese ed è qui che ho avuto il piacere di conoscere Lucrezia. Devo molto alle iniziative accademiche che mi hanno portato poi a muovermi fuori dalle mura istituzionali. 

Lucrezia Costa: Durante gli anni del liceo  ho iniziato a soffrire di attacchi di panico, dovuti alla molta energia che non riuscivo a incanalare correttamente. Cercando come trasformare questa energia nel modo più semplice da imparare, dal momento che non avevo particolare manualità o mai studiato nulla di artistico, mi sono approcciata alla fotografia tecnica e, per la quale servono più che altro pazienza nell’imparare la tecnica, la composizione, etc. 

Ho frequentato l’Accademia a Brescia dove mi sono laureata in fotografia nel 2019 e in quegli anni mi sono approcciata per lo più alla fotografia di moda. Mi piaceva perché ricreava degli ambienti apparentemente perfetti, che tendevano a un ideale classico e stereotipico di bellezza. Non so bene cosa mi sia capitato, ma ho poi deciso di iscrivermi al biennio di Arti Visive e studi curatoriali in NABA, a Milano, e lì qualsiasi certezza che avevo acquisito nei tre anni a Brescia è crollata creando nuovi gradi di consapevolezza. Pian piano mi sono resa conto che il mondo della fotografia di moda era bellissimo, fatato e luminoso, ma troppo fuori dalla realtà. Ho avuto la fortuna di incontrare professori che mi hanno spiegato che non serve avere delle grandi capacità pittoriche o scultoree per fare arte e che tutto si può fare con tutto. A questo punto ho iniziato a incanalare le mie energie e i miei messaggi attraverso le declinazioni dell’arte contemporanea che mi sembravano più adatte. Il medium che utilizzo nei miei lavori viene sempre dopo il messaggio. Parto da un’idea e, in base alle mie capacità, cerco di svilupparla da un punto di vista formale. La mia comfort zone sono la fotografia e il video, con cui ho più dimestichezza e con cui riesco a ottenere un alto livello formale che mi tranquillizza. Altre volte, invece, i lavori sono più difficili perché hanno un grado di manualità più alto che mi mette in difficoltà. Cerco quindi sempre di barcamenarmi tra queste due dimensioni. 

Non vorrei si scambiasse il modo in cui mi sono approcciata all’arte, come forma di auto aiuto, per arte terapia. A oggi se dovessi dire cosa sono, non saprei definirmi altro da come una persona che cerca di creare qualcosa partendo da quello che vede.

MG: Come definireste le vostre pratiche? Quali sono i vostri ambiti di ricerca e interesse?

DD: Non posso dire di avere sviluppato ancora un ambito di ricerca ben preciso e consolidato. Credo che la mia al momento sia più un’attitudine che una ricerca vera e propria. Mi interessano molto la politica, non intesa come politica dei partiti, ma come modo di pensare e soprattutto cambiare le nostre vite. Quando guardo all’arte – ma non solo – mi interessa scoprire e capire nuovi modi di agire sulla vita e nuovi modi di vedere. Una questione fondamentale è l’immaginazione. I nostri modi di concepire una società sono molto limitati, siamo molto poco fantasiosi in questo senso. Coniugando le pratiche anarchiche e gli studi antropologici, che mostrano come si possano immaginare differenti modi di essere ed esistere, stare con gli oggetti e le persone, vedo l’arte come il luogo in cui poter e dover coltivare sia l’immaginazione che dei modelli in grado di informare altre pratiche individuali. 

Sento molto il limite di un’arte che non arriva alle persone e non è per tutti quando dice di esserlo. Anche questo limite è politico e può essere affrontato con l’immaginazione. Per questo non muovo la mia ricerca solo su questioni artistiche, ma i fatti della quotidianità e della cronaca mi interessano molto. Sono molto teso anche alla documentazione giornalistica per tenere la ricerca artistica attaccata al reale. 

Mi sono avvicinato in particolare al lavoro di Lucrezia proprio per la sua attitudine a immaginare matrici diverse di modi di stare con le persone, fra le persone, con gli oggetti, di vivere e stare con i corpi. 

LC: Sento molto l’approccio politico, come definito da Daniel, come parte della mia pratica e del mio modo di vedere il mondo. La mia ricerca ha tre direzioni principali. La prima è il lavoro in relazione con la terra, da intendersi come un lavoro ecologico volto alla ricerca di un equilibrio dinamico con le altre forme del vivente, in particolare gli alberi. Un esempio è il lavoro che ho realizzato a Brighton con due olmi gemelli, dal titolo Extra Matter Symbiosis. Sperando di non peccare di presunzione, parto dal presupposto che le storie di questi elementi naturali le racconto perché sento la necessità di farlo. Non ho intenzione di insegnare nulla a nessuno ma ho solo la speranza che qualcuno colga davvero l’essenza di quello che voglio dire e vada anche oltre l’estetica del racconto stesso. 

EXTRA MATTER SYMBIOSIS, Site-specific installation, sculpture (glass boxes, felt, pink opal, wood, paper), analogue video documentary, analogue photographies, 2022 – courtesy gli artisti

La seconda direzione è più politica e ha come focus il corpo, in particolare come questo venga addomesticato fin dalla nascita secondo determinate norme, all’interno di quella corrente di pensiero che ha come base di ricerca Michel Foucault, Félix Guattari, Gilles Deleuze e Tiziana Villani. Come dico in Selvatica, ci si ritrova spaesati quando queste regole cambiano proprio perché siamo stati educati a non considerare il nostro corpo fisico. In tutta quella direttrice 

La terza parte della mia ricerca è iniziata con la fine di Pelle Viva ed è una ricerca sul tempo e sulla nostra presunzione, in quanto esseri umani, di poterlo governare. Sto portando avanti un’opera, all’interno della residenza da Jardino a Milano, immaginando il tempo come un accumulo di energia che a un certo punto ha una rottura oppure come un avvenimento lento e graduale che con il tempo porta a un cambiamento.

SELVATICA, Video performance, 18’ 25’’, tv with sound, 2021 – courtesy gli artisti

MG: Lucrezia, nella tua biografia citi due artisti in particolare che ispirano e accompagnano la tua ricerca: Robert Smithson e Joseph Beuys. Ti va di approfondire questa relazione con il tuo lavoro?

LC: Sono due capisaldi per ogni mio lavoro. Soprattutto Smithson, che ho studiato approfonditamente anche grazie ai corsi di Riccardo Venturi, mi aveva fatto rendere conto del mio rapporto conflittuale con la natura. Questo mi ha spinto a cercare un dialogo e a comprendere meglio i discorsi di Smithson sulla stratificazione o sul paesaggio dialettico, ovvero come artificio e natura non siano necessariamente in conflitto. 

L’influenza di Beuys la rivedo un pò in tutti i miei lavori, da Selvatica a Sono una pietra, a volte volte in forma più manifesta e altre più tra le righe. Beuys rappresenta la parte della mia ricerca più legata al tempo e alla paura della morte. Per questo utilizzo il feltro nei miei lavori, un materiale che simboleggia il mantenimento del calore e dell’energia, come tentativo ingenuo di voler preservare le cose care. 

MG: Anche tu, Daniel, ti senti legato ad altre ricerche artistiche o curatoriali?

DD: Dovendo individuare dei pensatori capisaldi del mio pensiero mi viene in mente David Graeber. Inoltre, ho avuto diversi insegnanti molto bravi, che mi hanno fatto appassionare alla cultura e mi hanno dato un metodo, come il mio relatore di triennale Walter Rosa. Ho delle stelle filosofiche con cui confrontarmi, come Walter Benjamin, e degli artisti che mi toccano particolarmente come Tania Bruguera, Teresa Margolles e Shilpa Gupta. 

Aspiro all’idea di un curatore che segua passo passo pochi artisti o artiste, instaurando un rapporto di crescita collettiva e costante confronto in modo da poter entrare dentro il lavoro ed esserne coinvolto totalmente. Un curatore la cui attività curatoriale e critica non sia che il risultato di questa relazione. 

MG: Quali sono state la genesi e gli sviluppi della mostra PELLE VIVA, ospitata dallo spazio culturale milanese DEPOSITOMELE? 

LC: Partirei dal presupposto che DEPOSITOMELE non è il tipico spazio espositivo e per questo non abbiamo dovuto seguire le regole che altri spazi espositivi richiedono. La proprietaria, insieme a Massivo Salvio, Elena Bosciano ha conosciuto il mio lavoro tramite il festival degli spazi espositivi milanesi Walk-In Studio e dopo un paio di mesi mi ha contattato per fare una mostra nel suo spazio. In particolare aveva espresso il desiderio di esporre Sono una crepa e Stare scomodi. Parlando con Daniel in occasione di Selvatica avevo notato che tante volte ha la capacità di capire meglio di me i miei lavori e trovare le parole giuste per descriverli e ho, quindi, deciso di coinvolgerlo in quanto curatore. 

Sono una crepa, Video performance, 27’, Format_ MP4, projections with speakers, 2021 – courtesy gli artisti
Stare scomodi per essere pt.2, Footrest and handrest made of concrete, marble and recycled stones Couple, 64 x 43 x 10 cm – 44 x 24 x 6 cm, 2022 – courtesy gli artisti

DD: Come dico sempre, io non ho fatto quasi niente. L’unica cosa su cui posso esercitare un’autorialità è il testo critico. Un lavoro curatoriale sta a monte della produzione della mostra. Lucrezia mi ha chiamato in virtù del rapporto che già esisteva e si stava instaurando. Io ho affiancato la questione in dei modi che non si possono definire in maniera così chiara e concreta, potrei dire che la materialità della mostra non è stata che il risultato di un dialogo continuo e serrato che esisteva già a priori.

Vorrei sottolineare la stima e la fiducia reciproche che ci legano perché per lavorare bene si deve partire da una relazione. Solo gli spazi indipendenti riescono a proporre cose del genere. Una delle cose che mi muove nello scrivere è che, troppo spesso, i testi critici sono molto aridi. Nel caso di Pelle Viva ho cercato di non spiegare le opere, ma di raccontare i concetti che andavano a informarle. Credo che per comunicare l’arte sia importante raccontare cosa sta dietro le opere e a quali modi di vivere fanno riferimento. Le parole non devono occupare lo spazio dell’opera, ma riempire lo spazio vuoto intorno a questa, ovvero lo spazio fra l’esperienza dello spettatore e l’esperienza dell’artista. 

Installation view from PELLE VIVA solo show at Depositomele – courtesy gli artisti
Installation view from PELLE VIVA solo show at Depositomele – courtesy gli artisti

MG: Seppur lo spazio di DEPOSITOMELE ricordi molto quello del white-cube, dalle quattro opere in mostra traspare un’atmosfera domestica e familiare. La pietra è un elemento naturale “freddo” eppure, in cradle for heavy souls e stare scomodi per essere, sembra quasi prendere il posto di un corpo in tutta la sua carnalità. Come avete ragionato con le opere e l’allestimento?

LC: Il filo conduttore del progetto è stato il rapporto con la terra. Daniel ha avuto l’intuizione di contrapporre Sono una pietra, in cui pretendo di diventare pietra, e Cradle for heavy souls, in cui una pietra pretende di diventare essere umano. L’idea di questo ambiente caldo, quasi domestico, è stata una mia volontà dettata dalla tipologia di opere. Abbiamo deciso di lasciare intatti gli elementi già presenti nello spazio, come un archivio colmo di faldoni. Abbiamo voluto che l’ambiente invitasse a essere vissuto, senza la paura di toccare o anche solo avvicinarsi alle opere. La stessa mostra era un invito a provare la scomodità e cullare la pietra. 

Cradle for heavy souls, Installation, 160 x 150 x 50 cm, 2022 – courtesy gli artisti

DD: I limiti a volte sono dei vantaggi. Se ci fossimo trovati a esporre in una classica galleria non avremmo ottenuto lo stesso risultato. Abbiamo voluto allestire tutto con ciò che avevamo trovato nello spazio. La soluzione non l’abbiamo trovata senza fatica, ma ho avuto l’impressione che l’allestimento si sia “fatto da solo” in maniera molto organica. 

A volte i visitatori hanno l’esigenza di etichettare ciascuna opera, distinguendo cosa lo sia e cosa no, ma una delle cose migliori del trovarsi dentro uno spazio espositivo è proprio poterlo penetrare con le opere. Come in una soluzione chimica, in cui i singoli elementi non sono più separabili.

MG: Quali sono i vostri piani per il futuro prossimo? 

DD: Oltre a finire gli studi, vorrei portare avanti la collaborazione con DEPOSITOMELE, con la volontà di investire e dare spazio ad artisti e artiste emergenti, oltre a continuare a lavorare ai prossimi progetti firmati Genealogie del Futuro. 

LC: Ho appena esposto da SPARC, a Venezia, una serie di dieci fotografie analogiche di documentazione di una performance che ho realizzato a Milano, dal titolo Unspoken bond – returning a favor. Ho in programma la fine della residenza a cui sto partecipando a spazio Jardino, che si concluderà con una mostra ad Aprile. Dal 26 marzo parteciperò a una mostra da spaziobianco, durante la quale verranno battute all’asta le opere e una parte del ricavato sarà donato a un’associazione che si occupa di fornire supporto psicologico a chi non se lo può permettere. Quindi con l’acquisto di un’opera si donano dei colloqui sospesi.

Installation view at SPARC_ contemporanea for a.topos Venice (courtesy a.topos Venice) – courtesy gli artisti