SI CREDE LUCA LORETI

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LUCA LORETI X MATTEO GARI

Pensando a un titolo per questo articolo non riuscivo a togliermi dalla testa il libro del buon vecchio Francesco Bonami, Si crede Picasso (2010), che con spiccata ironia racconta idiosincrasie, ossessioni e storture degli artisti contemporanei, dividendoli tra veri e falsi, buoni e cattivi (in un incrocio tra San Pietro e Babbo Natale). 

In questa intervista è proprio la dicotomia vero artista / falso artista a diventare punto di dibattito. Le opere d’arte sono innanzitutto menzogne. Facciamo un esempio “classico”: Fountain (1917) di Duchamp, un orinatoio, che proprio in virtù della menzogna sulla sua funzione diviene opera d’arte. Partendo da questo presupposto non si può, però, escludere che certe menzogne siano più vere della verità. Quindi chi, se non l’artista, come un giullare ha il privilegio di poter rivelare verità, scomode, celate dietro una menzogna o una battuta? 


Luca Loreti, I'm the artist - performance, 2014, Void Rocket Milano - courtesy of the artist
Luca Loreti, I’m the artist – performance, 2014, Void Rocket Milano – courtesy of the artist

MG: Come hai capito di voler fare l’artista? 

LL: Mia mamma raccontava che, da bambino, dopo aver visto Guernica di Picasso ero tornato a casa e l’avevo riprodotta a memoria. Ho raccontato questo aneddoto nella prima intervista che mi è stata fatta aggiungendo che il disegno non esisteva più e che quindi pensavo fosse una leggenda. 

Ma subito dopo la pubblicazione dell’intervista mi arriva una mail dove vengo redarguito per aver mentito [ride]. 

MG: Vuoi smentire questa storia? 

LL: La mail di mia mamma raccontava quest’altra versione: “Luca ha 4 anni, siamo in vacanza a Barcellona e lo portiamo con il resto della famiglia in visita al Museo Picasso, dove non c’è Guernica […] Da bambino di 4 anni, Luca è poco interessato a quanto vede esposto. Lo interessa molto di più la sonorità del pavimento in legno del vecchio palazzo museo, e corre per i corridoi, facendosi sgridare un po’ da tutti. Al termine della visita ci fermiamo a pranzo nel piccolo ristorante che è situato nel cortile dello stesso palazzo. Le tovagliette all’americana di ogni singolo posto riproducono Guernica. Nell’attesa del pasto ne parliamo, si parla di cosa rappresenta questo quadro, di come sia molto grande, di come evochi in ogni sua parte la disperazione e la bruttura della guerra. Finalmente Luca è attento e interessato! Una volta tornati a casa, la suggestione del quadro resta e Luca ne fa una sua riproduzione, molto ma molto legata al reale.” 

Mi piace questa storia, dà il senso di che cosa possa essere un’opera d’arte. Un pretesto per poter ragionare attorno agli argomenti, in questo caso la guerra, senza limiti di età o maturità. Inoltre la storia dei rumori del pavimento mi fa pensare che fossi già più interessato all’arte contemporanea. 

L’altra storia che mi piace raccontare è di aver deciso di fare l’artista dopo aver visto la mostra di Tom Friedman alla Fondazione Prada nel 2002.

MG: Anche questa volta hai riprodotto una delle opere in mostra? 

LL: Assolutamente no [ride]. 

MG: Sono quindi le mostre e le opere che hai visto che ti hanno fatto innamorare dell’arte? 

LL: Sono le mostre e le opere che ho visto ad avermi fatto intraprendere questo percorso. Ricordo che prima di iniziare l’Accademia ho avuto la fortuna di vedere Mapping the studio, eccezionale mostra tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana per fondazione Pinault e Pig Island di Paul McCarthy per Fondazione Trussardi a Milano. Certe cose non si dimenticano facilmente. 

MG: Hai citato l’accademia, ora non posso non chiederti della tua formazione artistica. 

LL: Formazione “Classica”: liceo artistico, Accademia e poi l’insegnamento. Diciamo che non ho mai lasciato la scuola (cosa inaspettata visti i voti che prendevo). 

MG: Come mai non andavi bene a scuola? 

LL: Fino alla fine del liceo non sono stato un bravo studente. Come si dice? “intelligente ma non si applica?” [ride

Diciamo che preferivo pensare ad altro… alla musica, alla politica, alle ragazze.

MG: Andare male a scuola ha influenzato il tuo modo di insegnare? 

LL: Credo di si. Tra studente e docente si deve instaurare un rapporto di crescita reciproca, è uno sforzo di entrambi ottenere un risultato. Io ho sempre insegnato Arti Visive agli adulti, forse è diverso da insegnare matematica alle scuole elementari ma è più importante insegnare la curiosità nel capire, nello scoprire qualcosa di nuovo, dare gli strumenti per muoversi in una ricerca propria. 

A volte non si è predisposti ad apprendere quello che l’altro prova ad insegnarti. Soprattutto se stai pensando alle ragazze. 

MG: Pensi ancora alle ragazze? 

LL: Non ho mai smesso. 

MG: E alla politica? 

LL: Ci penso spesso, ma cerco di tenermene alla larga. Una buona politica dovrebbe occuparsi delle cose pratiche: sanità, scuola, infrastrutture, tasse e lavoro. La politica pensa ai corpi, io ho deciso di occuparmi dell’anima.

Anche in ambito accademico mi interessano molto di più le dinamiche che si instaurano nella classe, tra i singoli, piuttosto che la risoluzione di problemi didattici generali. 

MG: Hai sempre fatto l’artista e l’insegnante o anche altri lavori per sopravvivere? 

LL: Ho fatto vari lavori per sopravvivere: lavapiatti, verniciatore, manutenzione, allestitore. Non guadagnavo un cazzo e mi spaccavo la schiena, fortunatamente non ho mai smesso di produrre nel mio studio. 

MG: Fai arte per te stesso o per gli altri? 

LL: Essere artista ti costringe a stare su un palcoscenico con un occhio di bue puntato addosso. Non puoi permetterti tante cazzate perché ciò che dici trova un pubblico ad ascoltarlo. Ci sono stati momenti in cui ad ascoltarmi non c’era nessuno, ma ho continuato a lavorare nell’ottica di mostrare agli altri, perché qualcuno potesse vedere qualcosa nelle mie opere e instaurarvi un rapporto. 

Non è facile spiegare e non è facile vivere trovando un equilibrio tra ego personale e rapporto con il pubblico. Non si può piacere a tutti e bisogna farsene una ragione, ma non si può non piacere a nessuno. 

MG: Quando ci siamo conosciuti, nel 2020, chi ti ascoltava? 

LL: Nessuno 

MG: Non è vero 

LL: Perché ho detto qualcosa di vero fino a ora? 

MG: Come è cambiato invece il sistema dell’arte da dopo la pandemia? 

LL: Penso che la pandemia abbia reso palesi i limiti del nostro sistema in un modo così netto che da lì in poi non si è più potuto continuare come si faceva prima. 

Era già un dibattito molto sentito l’assenza di pubblico, l’assenza quasi totale di denaro nella fascia media del sistema, il sistema di gallerie messe in ginocchio dalla continua esigenza di fare e pagare fiere. Ma la cosa più importante è che quella situazione era deprimente e di conseguenza si era tutti depressi, mancava totalmente il coraggio di fare cose nuove, di tentare nuove strade e di confrontarsi con i propri limiti. Il Re era nudo, non avevamo più un ruolo sociale. 

Non esistevamo nel dibattito pubblico, il cinema, il teatro, la musica (che hanno sofferto tantissimo e forse anche più di noi) erano considerate le uniche attività culturali. Noi non siamo stati una perdita. 

MG: Ti riferisci al sistema italiano? Come credi vivessero gli artisti questa commedia tragica?

LL: Parlo in particolare del sistema che ho vissuto sulla mia pelle ma credo fossero problemi diffusi un po’ ovunque. Sicuramente esistevano sistemi che godevano di una salute migliore come quello tedesco, ma non credo che il dibattito tra gli artisti fosse molto diverso dal nostro. Non si riusciva a fare squadra, non ci si rendeva conto che uno sforzo collettivo poteva dare risultati di gran lunga migliori che una serie di cani sciolti che si azzannano tra loro. Non voglio dire cosa dovrebbe fare ad esempio un curatore o un gallerista ma un giovane artista va sostenuto e supportato, gli vanno dati gli strumenti per poter lavorare, fare e provare. Io ho avuto la fortuna che una coppia di collezionisti si sia innamorata del mio lavoro in un contesto in cui contavano di più i collezionisti dei galleristi. Con il loro sostegno sono riuscito a portare avanti molti progetti ed è grazie a loro che ho iniziato a collaborare con la galleria di Los Angeles. Questo ha fatto si che mi si aprissero sempre più progetti in un momento in cui tutto il nostro sistema sentiva di aver bisogno di un riscatto e che finalmente le istituzioni pubbliche iniziavano a interessarsi all’arte e agli artisti contemporanei italiani. 

MG: E infine la Biennale di Venezia 

LL: il sogno di ogni artista trentenne. 

MG: Che rilevanza ha la musica nella tua ricerca? 

LL: C’è un detto nella scena punk nostrana che recita “Ramones saved my Life”. Ero un ragazzo timido e introverso, la musica punk mi ha aiutato a diventare quello che sono e a non sentirmi solo. 

Quanto può farti stare bene una canzone? 

A vent’anni avevo una band e dal 2017 quando ne ho l’occasione suono all’interno delle mie mostre con un gruppo di amici e a Venezia non potevamo non suonare all’interno della grande installazione che ho fatto. 

Canto perché non sono in grado di fare altro, avrei davvero voluto imparare a suonare la chitarra ma sono troppo scarso. Con il microfono in mano puoi giocartela sulla performance. Fortunatamente c’è un pubblico per tutto a questo mondo, anche per vedermi cantare. 

Luca Loreti, Now I wanna be a good boy - performance, 2017 - Plasma Plastic Milano - courtesy of the artist
Luca Loreti, Now I wanna be a good boy – performance, 2017 – Plasma Plastic Milano – courtesy of the artist
Luca Loreti, Now I wanna be a good boy - performance, 2017 - Plasma Plastic Milano - courtesy of the artist
Luca Loreti, Now I wanna be a good boy – performance, 2017 – Plasma Plastic Milano – courtesy of the artist

MG: Hai avuto prima una galleria in America che in Italia? 

LL: Nessuna galleria italiana si è interessata a quello che facevo fino a quando non ho esposto all’estero. Classico esempio del nostro provincialismo. 

MG: Come mai hai deciso di aprire una tua galleria? 

LL: Per diverse ragioni. La prima è perché pensavo di avere le qualità per farlo. Durante gli ultimi anni di Accademia avevo gestito uno spazio di progetto e mi rendevo conto che era un lavoro che mi piaceva fare ma anche che andava fatto con una consapevolezza e un’esperienza differenti. 

Ho deciso di aprire una galleria in tarda età perché volevo confrontarmi con gli artisti più giovani e dare la possibilità ai miei studenti o ai loro coetanei di fare esperienza.

È un luogo di libertà, la mia, perché ho deciso di aprirla mettendo la mia esperienza al suo servizio ma soprattutto la libertà di chi collabora con me. 

Ci tengo a pagare tutti il più adeguatamente possibile perché è il lavoro di ogni singola maestranza che determina la qualità di un progetto, dalla direttrice, agli artisti, dal allestitore allo stagista. Questa energia positiva spero la percepisca anche il pubblico che ci frequenta. 

MG: Come ti fanno sentire i prezzi che stai facendo ora alle aste? 

LL: Mi fanno sorridere se penso a come ho iniziato. So che dal punto di vista del valore artistico di quello che faccio contano poco ma ora ho la possibilità di produrre più cose, farle più grandi, posso mangiare in ristoranti migliori e l’idromassaggio che ho fatto installare in giardino mi aiuta ad allontanarmi dalla tristezza che mi portavo dentro quando avevo vent’anni. 

Luca Loreti, Work in progress, 2019 -ph Luca Matarazzo - courtesy of the artist
Luca Loreti, Work in progress, 2019 -ph Luca Matarazzo – courtesy of the artist
Luca Loreti, Work in progress, 2016 - courtesy of the artist
Luca Loreti, Work in progress, 2016 – courtesy of the artist
Luca Loreti, Work in progress, 2019 -ph Luca Matarazzo - courtesy of the artist
Luca Loreti, Work in progress, 2019 -ph Luca Matarazzo – courtesy of the artist

Luca Loreti (1990) è diplomato in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Vive e lavora a Milano. Fra le mostre più significative a cui ha partecipato si ricordano: Pelle d’oca, a cura di Lisa Andreani e Simona Squadrito, Villa Vertua Masolo, Nova Milanese, 2019; Romance, mostra personale a cura di Greta Scarpa, BITCORP for Art, Milano, 2019; Ibrida, a cura di Alberta Romano e Clarissa Tempestini, Castello di Perno, Monforte d’Alba (CN), 2018; Kodomo no hi, Sonnenstube, Lugano, 2017; Now I Wanna be a Good Boy, mostra personale a cura di Corinne Cortinovis e Chiara Spagnol, Plasma Plastic, Milano, 2017; It Was My First Time, Notturno #2, mostra personale, Localedue, Bologna, 2016; Exhibition of the year 2016, a cura di Alberta Romano, t-space, Milano, 2016; BocconiArtGallery, Bag, Milano, 2016; Frat /77, mostra personale, /77 Artist run project, Milano, 2015.