Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare

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FEDERICO PALUMBO

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare – work in progress, Osservatorio Futura – Foto di Alex G. Iosub

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare.  

La fine della pittura è periodicamente annunciata perché non avrà mai fine. E forse non ha mai nemmeno avuto veramente inizio, se per inizio consideriamo un punto di partenza preciso che porta poi a un’evoluzione e, in un’ottica fisiologica, a un declino. L’atto di dipingere credo possa essere accomunato a qualsiasi altra facoltà umana che permette di esprimere una ricerca di senso all’interno del cosmo. Il gesto, quindi, prima del ‘buon quadro’, è il discrimine che sta tra la creazione e l’esecuzione. Quest’ultima risponde esclusivamente a motivi biologici. La creazione, anche. Ma non solo. Che cos’è quindi la pittura?  

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare. 

La pittura, prima di tutto, può essere inserita all’interno dei moti vitali. L’artista, bravo a captarli e ossessivamente a renderli matrice per il proprio lavoro, si lascia guidare nella creazione. Il negativo della realtà è però il grande input dal quale bisogna partire. Per aggiunta – ma non secondo la logica dell’eccesso, o dello sfarzo, e quindi della sovrabbondanza – si vanno a colmare gap realistici. Ecco emergere il termine: utopia.  

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare. 

I linguaggi sono originari perché originarie sono le mancanze che ci compongono e che ci circondano. L’uomo, fisiologicamente instabile e precario, sfrutta il linguaggio in modo tale da riuscire a ristabilirsi così fra le pieghe del ritmo cosmico. Ecco un altro termine: vitale. La pittura, allora, è moto perpetuo nonostante la sua immutabilità ieratica. Oggetto vivente perfetto, come direbbe Laura Cherubini. E si ritorna quindi alla creazione. 

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare. 

Quel ritorno perenne, dal retrogusto nietzschiano, che spesso assume diversi nomi – moda, citazione, etc. – è infatti l’unica possibilità reale e permanente. Dunque eterna. Se è la creazione, e non l’esecuzione, a doversi manifestare, ecco che quel ritorno perenne è il solo moto giustificabile per gareggiare con/nell’esistente. La struttura modernista del tempo va boicottata. Perché non esiste un prima e un dopo, ma soltanto possibilità permanenti che si manifestano come tali, in un’equilibrio dove il prima contiene al suo interno il dopo. E viceversa.  

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare. 

Il ritmo della riproposizione è danza rituale. Al bivio temporale ciò che si frantuma è la logica dualistica. L’artista, allora, si (ri)posiziona nel luogo che sta al di sopra (o al di sotto, o nel mezzo) delle cose. Più precisamente nel momento in cui le cose accadono. Sempre e per sempre. La redenzione è fuori portata perché ancora aggrappata a stilemi oltrepassati. Regimi a cui l’artista non crede. E ai quali non crederà mai. La clessidra dechirichiana della Vergine del Tempo che si ribalta. La cerniera sempre aperta. Il progresso disilluso. Il pendolo ora sempre fermo, ora in continuo movimento. Il passo svelto del ritardatario è ora felicemente respinto. Ecco che il tempo – così come fluisce realmente – si manifesta per ciò che è: continuo. 

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare. 

Quel ritorno perenne, dal retrogusto nietzschiano, che spesso assume diversi nomi – moda, citazione, etc. – è infatti l’unica possibilità reale e permanente. Dunque eterna. Se è la creazione, e non l’esecuzione, a doversi manifestare, ecco che quel ritorno perenne è il solo moto giustificabile per gareggiare con/nell’esistente. La struttura modernista del tempo va boicottata. Perché non esiste un prima e un dopo, ma soltanto possibilità permanenti che si manifestano come tali, in un’equilibrio dove il prima contiene al suo interno il dopo. E viceversa.  

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare.

I linguaggi sono originari perché originarie sono le mancanze che ci compongono e che ci circondano. L’uomo, fisiologicamente instabile e precario, sfrutta il linguaggio in modo tale da riuscire a ristabilirsi così fra le pieghe del ritmo cosmico. Ecco un altro termine: vitale. La pittura, allora, è moto perpetuo nonostante la sua immutabilità ieratica. Oggetto vivente perfetto, come direbbe Laura Cherubini. E si ritorna quindi alla creazione. 

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare. 

La pittura, prima di tutto, può essere inserita all’interno dei moti vitali. L’artista, bravo a captarli e ossessivamente a renderli matrice per il proprio lavoro, si lascia guidare nella creazione. Il negativo della realtà è però il grande input dal quale bisogna partire. Per aggiunta – ma non secondo la logica dell’eccesso, o dello sfarzo, e quindi della sovrabbondanza – si vanno a colmare gap realistici. Ecco emergere il termine: utopia.  

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare. 

La fine della pittura è periodicamente annunciata perché non avrà mai fine. E forse non ha mai nemmeno avuto veramente inizio, se per inizio consideriamo un punto di partenza preciso che porta poi a un’evoluzione e, in un’ottica fisiologica, a un declino. L’atto di dipingere credo possa essere accomunato a qualsiasi altra facoltà umana che permette di esprimere una ricerca di senso all’interno del cosmo. Il gesto, quindi, prima del ‘buon quadro’, è il discrimine che sta tra la creazione e l’esecuzione. Quest’ultima risponde esclusivamente a motivi biologici. La creazione, anche. Ma non solo. Che cos’è quindi la pittura?  

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare.

Tutto è già stato fatto perché manca l’ultima cosa da fare – work in progress, Osservatorio Futura – Foto di Alex G. Iosub, locandina di Marco Cerminara