LUCA RUBEGNI
Salterò ogni tipo d’introduzione varia, altrimenti dovrei scrivere un altro articolo sul come sia nato questo articolo che vi propongo. Conosco Valentino Russo dai tempi del liceo, la nostra è una di quelle sane, italiche, clientelari e nepotistiche amicizie di lungo corso, completamente esente da qualsiasi forma di meritocrazia o perbenismo di pensiero. Ci siamo conosciuti nel pieno della confusione adolescenziale, quando eravamo ignoranti di vita e d’arte e concentrati esclusivamente alla concupiscenza liceale, quando il nostro concetto cardine dell’amicizia era lo scambio segreto di informazioni per passare con buoni voti gli esami in aula. Valentino era il martire della classe, talmente buono di animo da aver sopportato per anni il vampirismo informatico di un nostro caro amico, quasi fosse un atto di redenzione nei confronti di quella povera anima persa.
Credo che in quel periodo io e Valentino ci siamo resi conto di essere amici, in quanto nessuno dei due ha mai chiesto all’altro le soluzioni alle domande o di “fare i compiti insieme” (e cioè copiare in pratica spudoratamente).
Abbiamo per questo incominciato vagamente a parlare di arte e di musica come terreno d’incontro, seppur in maniera piuttosto rarefatta, non eravamo giovani prodigi dell’arte contemporanea, global travelers, art expert, consultant manager media comunication business.
Nel corso degli anni poi abbiamo seguito le nostre strade, abbiamo studiato e ci siamo ritrovati laureati e felicemente disoccupati, così ognuno di noi due si è dovuto inventare cosa essere nel domani. Valentino per la precisione è finito anni fa a studiare in Olanda, paese noto oltre che per i tulipani e Scheveningen, anche per una realtà artistica piuttosto interessante nata circa tre anni fa: The Balcony & Susan Bites.
Durante il suo percorso di studi in Olanda, Valentino ha incontrato Arthur Cordier, simpatico belga, anche lui studente alla KABK, l’accademia d’arte dell’Aja e da questo fortuito incontro è nato un sodalizio artistico che è sfociato in un percorso curatoriale ed espositivo per giovani artisti emergenti, provenienti da tutta Europa.
Nel 2018 infatti Valentino ed Arthur incominciano un progetto di curatela partendo da una vetrina con affaccio su strada posta al numero 14 di Herenstraat. Questo luogo di passaggio, di visibilità frugale, questo non-spazio in quanto fruibile solo dall’esterno, diventa l’affaccio di una nuova generazione di artisti internazionali che condividono le stesse necessità di ricerca e di comunicazione visiva. La vetrina prenderà il nome di The Balcony, immaginando proprio questo luogo come se fosse un atto di vita pubblico e comune, come quando camminando per la strada, scorgiamo le persone affacciate ai loro balconi e nell’incrociare i loro sguardi, ci viene da chiederci cosa ci sarà all’interno delle loro abitazioni, cosa ci sarà oltre lo spazio visivo che facciamo nostro. Successivamente aggiungono un secondo spazio, questa volta fisicamente fruibile, che sembra quasi essere il prolungamento della vetrina stessa, in quanto Susan Bites diventa il resto della casa, quello che non si vede da fuori; non ha affaccio su strada, occorre sapere dove si trovi, essere invitati per guardare dentro e per viverlo.
Parlando con entrambi ho avuto modo e piacere di conoscere meglio il loro obiettivo artistico e ci siamo soffermati insieme su alcuni punti fondamentali del dibattito sociale attuale, che prontamente si ripercuote sull’arte contemporanea stessa.
Partendo dal principio A. e V. lottano costantemente con la solita questione gravosa di ogni addetto alla cultura: i Soldi. Essendo uno spazio gestito d’artisti non presenta finalità lucrative e non è supportato da privati speculatori che si fanno pagare per far accrescere le carriere di aspiranti art-stars dal portafogli largo, loro semplicemente, come tanti puritani dell’arte, si sbattono per arrivare a fine mese. Questo sacrificio economico dona loro però la libertà di poter agire in qualsiasi direzione, di non avere lacci di qualsiasi forma e di poter sperimentare ed osare dando spazio ad artisti ogni volta differenti. Difatti, sebbene in Olanda la scena artistica indipendente sembrerebbe essere piuttosto supportata da bandi per la ricerca di fondi pubblici piuttosto consistenti (da notare ad esempio il Mondriaan Fund), la situazione rimane comunque complicata, in quanto, secondo le loro ricerche ed esperienze sul campo, le istituzioni locali tendano ad elargire finanziamenti per progetti a breve periodo, rimanendo piuttosto impassive di fronte a richieste che prevedano dei tempi di sviluppo più lunghi; cosa che, ovviamente accade un po’ in tutto il mondo.
Oltre alla costante lotta con la sussistenza, A. e V. hanno dovuto incominciare a rapportarsi con i nuovi mutamenti sociali e lavorativi, quali ad esempio, grazie anche alla recente oramai familiare pandemia, mostre ed allestimenti virtuali. Il digitale è entrato violentemente nelle vite di tutti, e così è stato anche per l’arte, dato che sono esplose fiere, esibizioni, talk e roba varia, tutta fruibile solo attraverso lo schermo di un dispositivo elettronico. Ad ottobre 2020 i due giovani, dovendo partecipare alla fiera barcellonese SWAB che ovviamente verrà svolta solo online, sono costretti a mesi di progettazione online e invio di quantità di documenti smodato. Entrambi ne risultano uscire esausti e soggetti a sindromi da upload degenerativo, arrivando a non capire come mai la macchinetta del caffè non si azioni premendo invio sulla tastiera.
Diventa così il 2020 un anno di riflessione e di sperimentazioni e di ripensamento di cosa sia The Balcony & Susan Bites. Durante il primo lockdown decidono di inaugurare la collettiva “The Town Mouse and The Country House”, che sarà osservabile solo in digitale, ma che in realtà si manifesta fisicamente nella campagna belga, dove Arthur ricevendo per posta le opere dei vari artisti selezionati, compirà atti di vera e propria land art, inserendo le opere in campi di fieno, case vuote, giardini, dolci brughiere con pascoli al seguito.
Per loro il mondo digitale corre in parallelo con quello analogico, è uno strumento, un mezzo ulteriore per dare voce agli artisti.
E questa loro necessità di dare spazio a diverse voci prende forma ad esempio nell’autunno dell’anno passato, nella mostra “What do you do, and what do you do?”, un ricettario di zuppe in continua evoluzione, dove l’artista raccoglie ricette e consigli da amici o persone interessate e ripropone i piatti servendoli in maniera gratuita ad ogni spettatore che ne abbia voglia.
Questa libertà espressiva mantiene però sempre delle direttive qualitative ed etiche costanti, quali ad esempio una corretta attitudine del pensiero degli artisti esposti e un forte rispetto in termini di equità di genere e di appartenenza etnica. Infatti sia Arthur che Valentino, tentano di avere sempre un giusto equilibrio fra i vari sessi, non avendo alcun tipo di preferenze politiche o partitiche. Come mi ha fatto ben notare Arthur, non occorre essere degli attivisti per far saltare all’occhio il fatto che in una mostra con più di tredici artisti coinvolti non ci sia nemmeno una donna, e non posso non dargli ragione; ma d’altro canto entrambi sostengono che quando scelgono un artista, guardano sempre al lavoro e mai all’identità specifica dell’individuo e nemmeno reputano sensato virare verso scelte espositive meramente propagandistiche, in quanto, citando le parole di Arthur: «Everyone has his own fight, […] and art to much of propaganda is poor in any way, it is poor art», cosa che spesso si vede in esibizioni proposte da istituzioni o enti pubblici dove il tema dell’inclusione diventa spesso un modo caricaturale di approcciarsi a questo fenomeno.
Insomma io conoscendoli, non ho mai avuto motivo di dubitare della loro onestà intellettuale e tantomeno non ho mai sentito nessuno lamentarsi di loro, forse perché pongono il cervello prima dello slogan e questo paga sempre.
Spero che questo articolo non solleverà sommosse popolari di alcun tipo e che sia estendibile a riflessioni e contesti affini, dato che reputo l’approccio di The Balcony & Susan Bites, piuttosto corretto e giusto, sicuramente non etichettante e ideologicamente rispettoso, prima di tutto.
P.s. Il titolo è un estratto preso dalla conversazione con Valentino che sostiene che gli spazi per l’arte debbano essere un po’ come i ristoranti dove chiunque è servito, senza distinzione di sesso o colore o religione, offrendo prodotti locali e genuini e non necessariamente presi dall’altro capo del mondo; e cosa più importante, alla fine del pasto, dopo che tutto è andato bene e ognuno è soddisfatto, il cliente paghi, faccia quel atto che a Roma si sintetizza in: “Caccià fori li sordi”.