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LUCA RUBEGNI

Nel cimitero del Père-Lachaise ci sono tante tombe, ognuna delle quali porta incisa nella pietra il  nome e le date di uomini e donne che hanno contribuito o meno a fare la storia di quel luogo.  C’è poi una tomba in particolare, o meglio ce ne sono diverse particolari ma a noi interessa questa  di preciso, che è la tomba del nostro caro Modigliani, detto Modì, anche se sarebbe più azzeccato  definirlo Maudit.  

Se siete mai stati in questo enorme cimitero intra muros parigino, vi accorgerete che la tomba di  Amedeo è una delle più spoglie ed insignificanti che ci siano. Un semplice sarcofago di pietra  bianchiccia, un parallelepipedo, con su scritta la data di nascita e di morte, il luogo e una frase  palliativa tanto per riempire il vuoto del marmo. Insieme a lui è sepolta la sua cara compagna  Jeanne Hébuterne, morta suicida il giorno successivo alla sua scomparsa.  

Detto ciò, questa tomba difficile da trovare, alla fine mostra con quanta semplicità e miseria la vita  di un grande artista si riduca ad essere, una volta che il corpo sceglie di abbandonare questa terra.  Questa riflessione deludente, mi è giunta immediatamente dopo aver visitato questo monolite tanto  prezioso agli occhi di un artista, in quanto, comunque sia si guarda con occhi propri la presenza  effettiva e reale di un personaggio vissuto più di un secolo fa.  

Il senso di amarezza forse nasce dal fatto che la ricerca è sempre il momento più felice di ogni  avventura. Raggiunto l’obiettivo, scovato il mistero oppure guadagnato il tanto ambito premio, non  si riesce mai a colmare la trasformazione alla quale siamo stati sottoposti durante il processo di  ricerca. Cercare è sempre meglio di trovare?  

Non saprei, ma indubbiamente ognuno di noi trova quello che vuole cercare, ed ecco che il cerchio  dell’Ouroboros continua a non estinguersi.  

Si può cercare la morte anche nelle recenti opere di Damien Hirst esposte presso la Fondation  Cartier sul boulevard Raspail, a Montparnasse, altro luogo caro al nostro caro Dedo in quanto ivi  risiedeva da vivo e che come quartiere ha sempre avuto l’inclinazione all’arte ed alla cultura in  generale. Nel suo ciclo di opere intitolato lapalissianamente “Cherry Blossoms”, Hirst ci sorprende  presentandoci 107 tele dipinte ad olio aventi come soggetto alberi di ciliegio in fiore.  La sua è una pittura materica grassa, ancora bagnata, gestuale ma allo stesso tempo controllata,  ossessiva ed infantile a tal punto da diventare inquietante nella sua semplicità. Lo poteva fare  anch’io?- Sì. Perché non l’ho fatto?- Perché non sono Damien Hirst.  

L’artista della morte e della concettualità, si svela con il tempo essere un purista della pittura, un  naturalista ex-novo che se ne frega delle correnti e dei retro-pensieri e getta puro colore su delle tele  enormi. Un genio del male assoluto, come si direbbe.  

Non solo è innovativo nel suo essere conservativo, ma è anche affascinante poiché diciamocelo, il  bello attrae sempre. Potendosene sbattere di ogni lucubrazione da art-advisor/critic/curator che tanto  infestano il nostro presente finto-proletario, D.H. ci riporta a quella che è la forma d’arte che  continua a potersi definire tale e con la “A” maiuscola: la pittura.  

Diretta, enigmatica, libera e facile da vendersi, con un colpo solo soddisfa lo sguardo dello  spettatore e le case dei collezionisti, avendo in ritorno un portafoglio più gonfio, ed una piccola fetta  di storia che porta il suo nome. Vi pare poco?!  

Similmente fa Kiefer al Grand Palais Éphémère, dove all’interno di questo Hangar Bicocca francese  (soltanto molto più bello), sono presenti tele monolitiche cupe e cariche di materia e materiali, quali  fossero pareti pronte a crollarci addosso, schiacciandoci sotto il peso della storia germanica del  nostro secolo. 

L’ansia espressionista di Kiefer ben si sposa con la poetica di Celan, generando un sincretismo di  oggetti, ricordi, ferro, terra e colore così importante, da far si che ci si domandi quanto siamo  colpevoli anche noi di esser diventati dei proto-americani, invece di essere dei veri europei.   Lo potevo fare anch’io?- No. Perché? – Perché non sono Anselm Kiefer e perché lui, essendo  mitteleuropeo e abitando in Francia da tempo, ha Paul Celan; io da italiano purtroppo ho avuto  Celant. Una lettera alle volte fa tanta differenza.  

Fatto sta che questo lugubre elogio alla morte non ha niente a che fare con un rinomato sentimento  decadente, sebbene Parigi sia ovviamente un po’ decadente nel suo fascino; ma si può riassumere  nella frase sfuggita di bocca al mio amico Ozmo, anche lui ritals come me, che parlando al telefono  con un suo amico disse: « Ho smesso di parlare male degli altri artisti e colleghi; è veramente inutile  e nocivo. Poi io da Parigi vi faccio ciao ciao con la manina ».  

Pienamente d’accordo, l’aria della Senna ha giovato al mio umore, lontano da iene affamate  incapaci di mordere una preda, da invidie e gelosie, da indecifrabili espedienti ortografici inclusivi  che risultano essere sempre più ridicoli e sempre più distanti dall’intenzione originale.  I francesi sono meglio degl’italiani? – No, ancora mal tollero la loro scarsa igiene e mancanza di  unicità.  

Però sanno essere molto più lungimiranti di noi e soprattutto aperti al nuovo, cosa che li rende  eternamente affascinanti. Noi siamo ancora immersi nello stagno agiato della lamentela e del  compianto. Invece dell’eterno ritorno abbiamo abbracciato l’eterno dolore, l’ingiustizia divina di  non essere capaci di cambiare.  

Il cambiamento non siamo noi, semmai lo sono gli altri, noi ci limitiamo a scimmiottare con  pantomime giullaresche ciò che gli altri fanno prima di noi. Siamo cliché di noi stessi, talmente  patetici da aver confuso la maschera con la persona.  

Una cosa ho imparato spostandomi a vivere e lavorare nuovamente all’estero: che ti devi dar da fare  se vuoi davvero cambiare. AWI e comitati vari non aiutano mai; gli amici e la famiglia in casi molto  rari. Tutto sta sulle spalle del singolo individuo. Insomma, per essere brevi: sono cazzi tuoi.