CAMILLA ALBERTI X MATTEO GARI
Ho avuto il piacere di incontrare brevemente Camilla Alberti (1994), artista milanese, nel suo studio temporaneo a Casa degli Artisti, dove sta prendendo parte a una residenza di tre mesi. Parlandomi della sua attuale ricerca ha citato un un incontro sul tema della Metamorfosi, alla Fondazione ICA Milano, in cui Manuele Coccia parlava di come le città siano realizzate per gli esseri umani e poche altre specie funzionali. Per questo il concetto di forestiero, colui che viene da fuori, si riferisce letteralmente alle foreste, dipinte come luoghi bui e pericolosi, che non appartengono al reame dell’umano. Nella natura perdiamo la nostra centralità, diventando contemporaneamente preda e predatore.
Alberti con le sue opere – pitture, sculture e ricami – indaga le relazioni tra umano, tecnica e ambiente naturale nell’era dell’Antropocene, in cui il problema ecologico è sempre più imperante. Allo stato attuale delle cose, non possiamo pensare semplicemente di sparire dalla Terra, perché abbiamo avviato un processo ormai irreversibile e l’umanità è più che mai indispensabile per assicurare la sopravvivenza del pianeta.
A partire da questi ideali Alberti prende il ruolo di un’artista che si prende cura delle sue piccole creature, in cui inserisce minuziosamente spine di riccio, rami secchi e piante, il cui confine si perde in un ibrido di ingranaggi, tocchi di legno e lastre di ferro.
MATTEO GARI: Mi piacerebbe iniziare parlando del tuo percorso di formazione.
CAMILLA ALBERTI: Fin da piccola sono sempre stata interessata a quella che ho recentemente scoperto essere la mia ricerca artistica: la relazione tra essere umano e il sistema biologico che lo circonda. Per questo ho frequentato un liceo artistico sperimentale ambientale, dopodiché ho intrapreso studi in Filosofia. Desideravo trovare un luogo in cui poter dibattere del contemporaneo, ma il grande numero di studenti lo rendeva impossibile. Ho quindi deciso di cambiare percorso iscrivendomi alla NABA di Milano, le cui classi contenute permettono un forte scambio tra docenti e studenti, frequentando il triennio in Pittura e Arti Visive e il biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali.
M.G.: C’è un periodo o un momento specifico della tua vita in cui diresti che ha fatto nascere il desiderio di esprimerti attraverso l’arte?
C.A.: Da ragazzina dipingevo quadri figurativi e parallelamente scrivevo storie di narrativa, che tutt’ora influenzano la mia ricerca. L’esercizio della scrittura mi ha reso cosciente della necessità, nelle mie opere, di realizzare un vero e proprio contesto in cui i temi che tratto possano essere raccontati in modo da appassionare chi ci si approccia.
A questo proposito la mia ricerca attuale sta vertendo sulle idee di mostro e ibridazione, a partire dalle teorie di Donna Haraway. La narrazione è centrale nelle mie ambientazioni, che sono dei micro mondi in cui tutti gli elementi raccontano qualcosa.
M.G.: Ti andrebbe di approfondire questo discorso sulla mostruosità? In che modo si presenta nelle tue opere?
C.A.: Nelle mie prime installazioni, minimali e legate a ricerche architettoniche, non erano ancora presenti gli elementi organici, vivi e fossili, che utilizzo ora. Mi interessa la dimensione in cui componenti naturali e organiche si ibridano con la struttura umana, settorializzata e divisiva. Ultimamente leggendo Le promesse dei mostri (2019) di Haraway sono rimasta colpita dall’idea di una coesistenza, nella contemporaneità, di più organismi generati dall’uomo, ma non più controllabili, come robot, cyborg e Intelligenze Artificiali. L’umanità non comprende in che tipo di rapporto essa stessa si trovi con la tecnologia, e tanto meno il rapporto tra questa e gli altri esseri viventi. La struttura di Internet non è distante dal tipo di connessione biologica tramite cui i vegetali si comunicano informazioni e inviano sostanze nutritive. Un’intelligenza artificiale con il nostro stesso accesso a magazzini di dati globali sarebbe molto più simile a un vegetale piuttosto che a un animale, difficilmente in grado di processare una tale quantità di informazioni. Per Haraway queste entità coesistenti necessitano di una nuova narrazione mitologica. Dobbiamo spostare il nostro punto di vista per riuscire a riprendere le redini, non del mondo che non ci è mai appartenuto, ma della nostra storia. Dobbiamo prenderci cura delle cose, viverle e soprattutto farle vivere.
In questo discorso si inseriscono le mie sculture, piccole creature ibride di elementi organici – conchiglie, rami secchi, aghi di riccio – e scarti umani inorganici – tagli industriali di ferro e acciaio -. Questi mostri che potrebbero camminare per le nostre strade inglobando gli elementi che incontrano, sono inquietanti e intriganti perché rappresentano una realtà che non conosciamo. Il loro spaventarci deve essere fonte di coraggio.
M.G.: Come sta andando la residenza a Casa degli Artisti?
C.A.: Molto bene, anche se il problema del Covid si sente in continuazione. Senza la pandemia sarebbe sicuramente più dinamico, con maggior possiblità di incontrare persone e mostrare il proprio lavoro in working progress. Sono entrata in residenza a ottobre partecipando alla call con un progetto installativo, che si relaziona con la struttura stessa di Casa degli Artisti, luogo ricco di storia. Sto raccogliendo elementi dalla città di Milano per costruire un’architettura mostruosa, decentralizzata, basata su materiali che assemblati insieme mostrino le loro storie. È una coesistenza di vite, perché molti materiali hanno al loro interno muschi, funghi o muffe che continuano a modificarsi nel tempo. È un ibrido tra corpo e spazio.
M.G.: Come ti muovi quando realizzi un’opera? In che modo cerchi di dare forma ai tuoi riferimenti?
C.A.: A volte parto dalla formalizzazione del lavoro, costruendolo quasi a ritroso, e altre volte studiando trovo dei punti di interesse da sviluppare. Per la mia attuale ricerca è stata fondamentale la lettura di testi della biologa Lynn Margulis, e saggi come The Mushroom at the end of the World (2015) dell’antropologa Anna Tsing, La vita delle piante (2018) di Emanuele Coccia e La Nazione delle piante (2019) del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso.
La scelta dei materiali e dei supporti è spesso influenzata da come vorrei che lo spettatore interagisse con l’opera. Il mio lavoro ha preso la forma dell’installazione proprio perché ricerco l’immersione di chi ci si approccia, esplorando attraverso macro e micro dettagli.
Ho da poco presentato, alla galleria MLZ Art Dep di Trieste, una ricerca sulla connessione biologica dei funghi sviluppata durante la residenza NEURO-REVOLUTION di AiR Trieste. È servito molto tempo per capire quale fosse il miglior modo di formalizzare la mia ricerca. Inizialmente volevo realizzare un’installazione con funghi veri, ma non sarebbero sopravvissuti al clima troppo caldo della galleria. Allora leggendo ho scoperto un parallelismo tra il linguaggio digitale e la trama delle macchine da ricamo: il telaio della macchina da ricamo Jacquard è stato alla base della programmazione della prima macchina analitica. Era importante per il progetto perché la residenza partiva proprio da un’analisi dell’impatto delle tecnologie e del digitale sulla società. In questo modo sono arrivata a una formalizzazione che utilizza il ricamo industriale.
M.G.: Ci sono degli artisti a cui guardi?
C.A.: Nel corso degli anni mi sono fatta ispirare da diversi artisti e opere. In particolare l’architetto Frederick Kiesler è stato fondamentale. Tengo sempre a mente Endless House (1950), il progetto scultoreo di una casa le cui forme rimandano a un guscio o una tana. L’indagine architettonica sul rapporto tra il corpo e lo spazio, la sua decostruzione, e le forme organiche mi hanno condotta verso costruzioni inclusive e decentralizzate, ispirate dalle geometrie vegetali.
A oggi vedo un grande potenziale nelle collaborazioni tra artisti, per questo ho iniziato a collaborare con amici artisti di cui stimo il lavoro, come Clarissa Falco e Matteo Messori.
M.G.: Ci sono nella tua produzione opere che ti stanno più a cuore?
C.A.: Sono sempre molto affezionata all’“ultima arrivata”. Detto ciò, ci sono opere in cui credo particolarmente, come il mio progetto di tesi intitolato Fuochi di mezza estate (2019) che consiste in due installazioni, una in interno e una in esterno. La seconda è stata realizzata in un bosco, in cui ho tentato di integrarla con l’ecosistema, dove è rimasta per sei mesi, durante i quali ho documentato come piante e animali ci si relazionassero. Questa versione non è stata vista praticamente da nessuno per via della collocazione, mi è servita come esperimento. L’installazione è stata poi ripensata per essere esposta a CasciNet, nella mostra Pensieri ancora possibili, ha introdotto nuove dinamiche relative alla presenza di un pubblico umano. Io e la curatrice, Sofia Baldi, abbiamo dovuto pensare a come installare in sicurezza, per l’opera e per il pubblico.
M.G.: Se avessi un budget illimitato che progetto, anche utopico, realizzeresti?
C.A.: Sarebbe già una sfida ragione in termini di un budget così grande! La mia idea sarebbe di realizzare un’installazione della dimensione di una città, una specie di parco naturale, in cui gli elementi continuano a mutare. Lavorerei direttamente con il terreno e gli alberi per costruire una struttura legata alla morfologia del luogo, trasformandolo in un enorme corpo organico e ibrido.