LUCA RUBEGNI X FEDERICO PALUMBO
Dentro l’opera di Luca Rubegni si riflette tutto, ogni cosa. In particolare, la sua pittura sembra tracciare una linea di collegamento con la storia della pittura stessa. Una striscia di molliche che parte dall’origine, fa tappa ai grandi maestri del Trecento, del Quattrocento e della pittura in generale, fino ad arrivare ai giorni nostri, alla contemporaneità (termine questo, tra l’altro, che serve solo a noi addetti ai lavori e forse nemmeno agli artisti, in quando l’arte è estranea a tutte le etichette classiste-storiciste). Questa scia traccia un confine – evanescente più che netto – il quale ci aiuta a seguire la strada che parte (originariamente) dalla vera pittura e giunge ad altrettanta vera pittura.
Ecco perché le opere di Rubegni fanno emergere un’iconografia subito riconoscibile, inizialmente digeribile, e anche “facilmente” associabile a determinate lezioni apprese (numerosi gli artisti citati nell’intervista che a breve leggerete) ma che, allo stesso tempo, ha al suo interno un grado straniante che provoca un flusso colmo di riflessioni su un’infinità di argomenti.
Abbiamo provato a toccarne un po’ (quanti più possibili) in questo confronto.
Federico Palumbo: Partiamo da un’esigenza biografica: creando alcuni paralleli con Winckelmann, Goethe e Stendhal – i quali dall’estero vennero qui in Italia per scoprirne la bellezza – tu compi un viaggio inverso. Dall’Italia, infatti, ti sei spostato all’estero, nonostante il Bel Paese continui a esercitare una pressione evidente all’interno dei tuoi lavori. Ci racconti quanto effettivamente hanno influito questi tuoi spostamenti e, di conseguenza, come ti hanno permesso di comprendere l’importanza dell’Italia alla lontana.
Luca Rubegni: L’esigenza del viaggio e dell’allontanamento dalla casa è una forma di riflessione e svuotamento che ciclicamente devo compiere. Negli ultimi 6 anni ho vissuto e viaggiato in diverse città d’Italia, per non parlare del lungo periodo che ho passato a Vienna, città che mi ha permesso di avvicinarmi e di entrare in contatto con la mia esigenza pittorica. Penso che spostarsi al di fuori dei propri confini consenta di osservare e definire meglio tutta la complessità culturale e storica rispetto l’italianità. Essere al di là del muro, divenire uno straniero, mi consente di capire sempre meglio come io venga giudicato e valutato da chi è estraneo al mio passato culturale e sociale, in più scopro sempre nuovi “frammenti” del passato e della storia e, soprattutto in territorio Mediterraneo-Europeo, quanto ci siano delle affinità di pensiero che sono portatrici di una visione comune.
FP: Le tue influenze storico-artistiche sono legate alla grande pittura italiana. Ovviamente Giorgio de Chirico, ma – presumo – anche tutti i vari richiami all’Ordine di inizio Novecento (Carrà in particolare, ma anche De Pisis); e, ovviamente, il secondo “Ritorno all’Ordine”, quello di fine anni Settanta, il cosiddetto ‘citazionismo’ figlio del postmoderno, piuttosto che la Transavanguardia: le pitture di Luigi Ontani, un certo Gino De Dominicis di fine anni Settanta; ma soprattutto Salvo. È così oppure ho fatto un canovaccio fine a se stesso utile solo per speculazioni critiche?
Ad ogni modo qual è il tuo background? Qual è stata la tua formazione e quanto ha influito sul tuo lavoro?
LR: Noto con piacere che hai citato una bella schiera di artisti che ammiro ed adoro, fatta eccezione per De Pisis, che trovo molto lontano sia stilisticamente che dal punto di vista contenutistico per quello che cerco io. Salvo e De Dominicis poi li adoro, De Chirico è una fonte costante di conoscenza, per non parlare di Usellini, il Realismo Magico, la Metacosa e gran parte della pittura del Novecento. Poi mi incanto a perdermi nelle pitture di Henri Rousseau, o nelle tonalità piatte e “pop” di Matisse, nelle analogie della pittura Simbolica. Poi guardo molto alla pittura storica italiana, soprattutto a quella di fine duecento, del trecento e del primo quattrocento. Giotto, Duccio di Buonisegna, Masaccio, Piero della Francesca, Antonello da Messina, e via discorrendo. Mi piace ad esempio l’uso disinvolto della prospettiva e una certa nonchalance nella precisa raffigurazione dei soggetti, che però trovo liberatoria e capace di esprimere al meglio tutta l’enfasi e la potenza delle scene dipinte. Non so bene come spiegare al meglio ciò, ma reputo che la pittura trecentesca abbia in sé ancora l’equilibrio giusto fra maestranza pittorica e figura dell’artista ancora non pienamente esautorato da elucubrazioni critiche varie, come se i pittori dell’epoca si divertissero di più a dipingere, potendo dar libero sfogo a qualsiasi riflesso immaginifico. Basti guardare alle architetture impossibili e sproporzionate che ritroviamo nei maggiori affreschi dell’epoca. Guardo poi all’architettura, alle pitture murarie, alle decorazioni bizantine e medievali, agli elementi appartenenti al mondo classico. Non cerco speculazioni critiche, piuttosto tento di dar vita ad una estetica critica personale e nuova, perché ritengo che la storia dell’arte parli un linguaggio unico e duraturo nel tempo, che si riscontra continuativamente nella storia dell’uomo. Gli oggetti che dipingo appartengono a qualsiasi cultura e quotidianità. Poi cosa dirti, io ho una formazione artistica dai tempi del liceo, ho studiato poi all’Accademia di belle Arti di Firenze, sono stato a Vienna come studente ospite per un anno all’Università di Arti Applicate e poi sono giunto a Brera per completare il percorso di studi. Attualmente ho iniziato una nuova magistrale presso l’Università di Perugia in Filosofia e Storia. Di sicuro sono attratto dal passato, ma non come rievocazione nostalgica, piuttosto come retroguardia del presente. Forse essendo nato a Roma ho sviluppato questo rapporto ambivalente fra l’odierno e l’antico. Una coesistenza che è inalterata da secoli.
FP: So che questo è un periodo molto caldo per te: hai partecipato a Walk In Studio (MI), a Rea Fair (MI) ed è in corso una tua personale presso la Galleria La Linea (SI), dal titolo ‘In Fabula’ a cura di Matteo Scuffiotti. Ci racconti di queste ultime esperienze dato anche il periodo storico in cui stiamo vivendo.
LR: Devo ammettere che riguardando alla primavera, quando eravamo in pieno lockdown, non avrei mai pensato di avere tanto movimento dall’estate in poi, specialmente in questo autunno surreale che sembra non trovare una sua dimensione stabile. Credo però, ed ho sempre creduto, che sia vitale non fermarsi dinanzi alle difficoltà, anzi occorre cercare sempre le soluzioni che permettano di oltrepassarle, perché diventa “facile” arrendersi al periodo storico nel quale viviamo, che cerca di ottenebrare l’idea di futuro, di speranza e di sogno.
L’arte in particolare, che sta soffrendo molto sia da un punto di vista economico, ma soprattutto di interazione con essa, di fruizione e relazione, è proprio l’elemento che secondo me ci permette di oltrepassare tutto. L’arte ha una forza misteriosa enorme, bisogna sempre crederci e rispettarla.
FP: Abbiamo citato la tua ultima personale. L’elemento “fantastico” e fiabesco è un altro dei tuoi focus tematici. Raccontaci cosa significa per te e come la fiaba – in senso lato – entra all’interno del tuo lavoro.
LR: Adoro la lettura, fin da quando ero bambino, e ho sempre scritto. Se devo farti una confessione la scrittura è forse la mia prima passione e la dimensione nella quale meglio riesco ad esprimere tutto ciò che mi passa attraverso. La pittura richiede una certa dedizione mentale e fisica, occorre darle molto tempo perché il prodotto che ne derivi sia di buona fattura e soprattutto si devono rispettare delle metodologie che altrimenti non consentirebbero di far nascere i capolavori che tanto apprezziamo. La fiaba è un luogo mistico che ha sempre influenzato l’umanità. Partendo dai riti iniziatici della preistoria, l’essere umano ha poi trascritto questi processi e ha inserito al loro interno saperi di varia natura, soprattutto scientifici, sempre rapportati all’epoca, all’interno delle storie. Le fiabe sono territori al limite, nei quali è molto bello addentrarsi ma occorre sempre mantenere uno sguardo attento a ciò che contengono, dato che esse sono dei contenitori ermeneutici di vari significati ancestrali.
FP: L’isolamento, l’intimità, la solitudine – tutti temi che emergono dalle tue opere, sgombre dalla figura umana, oniriche, irreali e trasognate – sono termini che, leggendo alcuni tuoi scritti, ricorrono spesso. Pensi che la figura dell’artista debba avere queste (o certe) caratteristiche specifiche? In grado di tratteggiarne la personalità e, di conseguenza, la produzione? Penso a tal proposito al “cliché” dell’artista melanconico, che forse ancora ci portiamo dietro…
LR: Ma sai la figura dell’artista bohémien attrae sempre molto chiunque si avvicini al mondo delle arti, per scoprire poi che ad oggi sarebbe impensabile riproporre una figura del genere, siamo troppo coinvolti nel costante mantenimento del benessere e del progresso che non abbiamo tempo per perderci nei fumi dell’alcool o dell’oppio. In più va detto che essi non erano affatto soli, anzi vivevano una socialità fra loro molto presente e vincolativa. Ci si ubriacava assieme, ci si innamorava delle stesse donne etc… e si cercava poi in momenti di introspezione e forza creativa esplosiva di svuotare il vissuto quotidiano oggettivandolo su di un supporto o pittorico o scultoreo. Noi odierni invece ci serviamo dell’isolamento non per elaborare l’esterno che influisce su di noi, per noi è una vera e propria fuga dall’iperconnettività. Lo studio diventa un luogo nel quale potersi finalmente ascoltare e trovare il silenzio necessario a comporre un nuovo pezzo. Diventa quasi un rifugio, una realtà alternativa a quella quotidiana. E questo si ripercuote anche nelle mie pitture, dove l’assenza gioca un ruolo fondamentale.
FP: I titoli (e i simboli) delle tue ultime opere – penso ad esempio a: Gli eretici dello scorpione bianco; E.S.T.E. (Estremo Simbolismo Toscano Ermetico) – rimandano a un certo simbolismo ermetico. In che modo questo tema attraversa il tuo lavoro e sfocia nella tua iconografia?
LR: L’ermetismo si prefigge proprio la qualità di parlare di un tempo sospeso, di analizzare quel vuoto mancante che permette di dare un senso alle cose. E tutto questo si ricollega alla risposta precedente. La presenza umana non mi interessa davvero, penso di non aver mai disegnato ne dipinto un corpo umano, credo forse di non esserne nemmeno capace chi lo sa, però in questo mio momento di ricerca lo trovo veramente superfluo ed inutile. L’assenza stessa di figure umane diventa per analogia una presenza stessa dell’uomo, poiché tutto ciò che è rappresentato è stato prodotto e costruito dall’essere umano, non è rappresentazione di natura viva. Però mi piace indagare quello che rimane dell’uomo, le sue tracce, il modo nel quale attraversa il mondo. Allora mescolo vari elementi e percorsi storici come in una sorta di gioco narrativo, nel quale creo sempre storie nuove che però, seppure immaginifiche, portano tutte a un luogo di vissuto personale. In realtà in ogni mio quadro c’è del vissuto intimo, che può essere una fiaba letta oppure un racconto, un incontro con una persona, una viaggio fatto, una sensazione provata…
FP: Alla fine degli anni Sessanta molti sostenevano che la pittura fosse morta. Il tempo non gli ha dato ragione. In generale però, periodicamente si è portati a pensare a una fine della pittura, come se questa fosse una “moda”, un qualcosa che, proprio come ha preso piede, cesserà di esistere. Io personalmente, penso che la pittura (così come la scultura) sia un linguaggio originario piuttosto che ‘tradizionale’ e, come tale, destinato a durare in eterno (parafrasando De Dominicis). Tu come la vedi? Quanto pensi sia importante – o, al contrario, inutile – sviluppare un percorso pittorico oggi, nel 2020?
LR: Mi piace moltissimo che tu abbia usato la parola “originale” invece che “tradizionale”, credo sia un punto nevralgico sul quale sviluppare una vera e autentica critica della pittura contemporanea. La pittura al giorno d’oggi soffre di una bulimia di esistenza, in quanto chiunque si può approcciare ad essa. Quanti aspiranti pittori, quanti anziani che hanno l’hobby della pittura, il bricolage, le tele già pronte al Brico, etc… Cioè oggi è difficile trovare qualcuno che non abbia mai toccato un pennello almeno una volta in vita sua, perciò forse si tende ciclicamente ad auspicare una morte della pittura, in quanto si pensa sempre che stia raggiungendo il massimo della sua capacità, invece di avere un computer ogni scrivania forse si può anche dire che c’è un pittore in ogni casa, o quasi. Ma, provocazioni a parte, la pittura è una cosa seria e farla professionalmente è veramente impegnativo e faticoso. Io personalmente mi stanco quando dipingo per quattro ore consecutive, non mi sento affatto rilassato, tutt’altro. Credo che però la pittura abbia la capacità ancora di stupire, di far sì che l’occhio umano non riesca a svelare del tutto l’inganno che c’è dietro, vuole sempre andare un po’ oltre. In più la pittura è una questione di tempo, ha a che fare proprio con la temporalità applicata all’uomo e questo ci porta a cercare continuamente contenuti maggiori, immagini nuove ed esaustive in quanto la pittura è l’unico strumento attraverso il quale riusciamo a illudere continuamente il nostro concetto di tempo e di esistenza nel mondo. Le pitture rupestri di 20000 anni fa o i dipinti di Caravaggio sviluppano in noi le stesse sensazioni che hanno provato i nostri antenati, perché sono grammatiche comuni alla storia dell’umanità stessa. Ecco perché dico che la pittura è l’unica forma di espressione che sconfigge il tempo, non ne rimane mai succube. Ha sempre senso fare pittura oggi, solo che va fatta bene.
FP: In conclusione della nostra chiacchierata, ecco la domanda utopica: se avessi possibilità economiche e ‘spaziali’ di qualsiasi tipo, quale sarebbe l’intervento artistico che proporresti?
LR: Vorrei erigere un edificio pubblico enorme che diventi il simbolo dei nostri tempi, e realizzare un ciclo di affreschi al suo interno, come si faceva una volta, dando lavoro alle varie maestranze impiegate nella sua realizzazione. Non so, mi piacerebbe un duomo nuovo pieno zeppo di artisti al lavoro.